It’s not about knocking on closed doors. It’s about building our own house and having our own door.
Ava DuVernay, «Time», 14 settembre 2017
1. I film festival: la ‘casa’ del cinema indipendente
È frequente incorrere nella metafora della ‘casa’ a proposito dei film festival per indicare la sede elettiva di un cinema di qualità, soprattutto indipendente, che diversamente avrebbe poco spazio per esistere. Una ‘casa’ che possiamo immaginare, per continuare la metafora, organizzata in ‘stanze’ diverse: le sezioni del festival stesso, gli eventi che lo animano, le attività di cui è sede, ma anche, in senso più trasversale, le funzioni che assolve. Palcoscenico per i film e luogo di confronto e di incontro tra autore e spettatore (un salotto), fucina di nuove idee e di progettualità (una cucina), sede di transazioni e valutazioni economiche (uno studio), antro misterioso che racchiude identità, aspirazioni, desideri (una camera da letto). All’interno di questa ‘casa’ gli autori hanno modo di crescere, di misurarsi tra loro e con il pubblico, di imbastire o migliorare il proprio progetto. E come ogni ‘casa’ anche quella del festival si collega con il mondo esterno attraverso ‘porte’ e ‘finestre’, che talvolta risultano difettose o aperte verso vicoli ciechi: il film non arriva al pubblico e il suo autore resta sconosciuto ai più. Ecco allora che la ‘casa festival’, da ambiente sicuro e protettivo, di crescita e di espressione sincera del sé, rischia di diventare una gabbia, magari dorata, ma incapace di comunicare con quanto sta fuori.
È partendo da questa metafora che il mio contributo vuole riflettere sul ruolo che i Women Film Festival (da ora WFF) ricoprono per le registe indipendenti, e sull’impatto che tali manifestazioni hanno rispetto all’ingresso delle loro opere nel mercato cinematografico e audiovisivo (Armatage 2009; Carocci 2016; Kamleitner 2019; Maule 2016; Van Hermet 2011; White 2015).
Le statistiche sulla presenza delle donne nel settore cinematografico e audiovisivo globale, ormai ampiamente dibattute, ci dicono che nel mondo solo il 16% dei film circolanti, a prescindere dal canale utilizzato, è a regia femminile, ed è ancora più bassa la percentuale di quelli che arrivano nelle sale, appena il 2% (Verhoeven, Coate, Zemaityte 2019). Insomma, se poche sono le registe che riescono a realizzare il proprio film, ancora meno sono quelle che arrivano a un pubblico ampio. Rispetto al settore festivaliero i dati confermano questo quadro: se la percentuale di registe che vi partecipa è più alta rispetto a quella di chi appare nella top 250 dei maggiori incassi dell’anno, è comunque inferiore a quella maschile (Lauzen 2021). Non solo: due terzi delle registe che appaiono in un festival internazionale sono autrici di documentari e non arrivano mai al lungometraggio di finzione. Infine, sono soprattutto i registi che concorrono nelle sezioni principali, spesso vincendole. Nonostante questo, i festival continuano a essere percepiti come l’ambiente privilegiato per il cinema indipendente femminile e a giocare un ruolo fondamentale nella (ri)costruzione del canone della storia del cinema (Mulvey 2016).
Quanto detto rispetto ai film festival nella loro globalità non si applica, tuttavia, ai WFF – ‘case’ per antonomasia della creatività femminile, spazi in questo senso protettivi ma anche sovversivi – dove la percentuale di registe partecipanti è esponenzialmente più alta che altrove. Il rovescio della medaglia è però la limitata visibilità che questi eventi possiedono rispetto ad altri film festival e il rischio è, dunque, di chiudere al loro interno le registe anziché farle conoscere al mondo.
2. I Women Film Festival: una su mille ce la fa?
I WFF nascono nei primi anni Settanta e sono un chiaro portato del movimento femminista: molti di questi eventi iniziano su iniziativa di attiviste, che intravedono nel cinema uno strumento di riflessione, di espressione della propria condizione e di lotta (Rich 1998). Sebbene i WFF possano spiegarsi anche alla luce del generale rinnovamento dell’istituzione festivaliera iniziato negli anni Sessanta, ne sono forse più una risposta polemica che uno degli effetti (Kamleirner 2019). Vale a dire che essi sono interpretabili come la reazione delle donne alla delusione per i compromessi cui il Sessantotto era giunto e alla constatazione di come il circuito festivaliero, nonostante i propositi iniziali, si fosse rinnovato solo apparentemente e, rispetto alle questioni di genere, fosse ancora appannaggio degli uomini, sia in veste di partecipanti che di professionisti coinvolti nell’organizzazione e nella gestione.
La storia dei WFF attraversa fasi diverse, anche in risposta all’evoluzione del movimento femminista. Molti vivono il tempo di un’edizione e altri spariscono alla fine dei Settanta; dopo un decennio di crisi riprendono forza negli anni Novanta e negli ultimi anni, invece, fioriscono soprattutto nei Paesi del Global South e in via di sviluppo. In Italia si contano sulle dita di una mano: dal più longevo, il Festival Internazionale Cinema e Donne di Firenze nato nel 1978, al giovanissimo DocuDonna (dal 2018) [figg. 1-2]. Come all’estero, anche i festival italiani nascono da un’urgenza politico-sociale e lottano, di edizione in edizione, per continuare a esistere (il caso di Cinema e Donne, costretto a saltare l’edizione 2021 per mancanza di finanziamenti, è emblematico a questo proposito).
Anche se simili nelle intenzioni generali, i WFF differiscono per dimensioni, programma, impatto, obiettivi. Ciò che invece li accomuna è la posizione marginale occupata all’interno del sistema festivaliero. Tale condizione è determinata non tanto, o non solo, dal loro esiguo numero – poco più di 160 nel mondo, appena il 2% del totale (Evans 2021) – o dall’essere festival tematici – rivolgersi a nicchie di spettatori non significa necessariamente stare ai margini della scena o del mercato –, quanto dalla necessità di essere soprattutto un luogo di espressione identitaria e dunque di intessere una relazione costante tra proposta culturale, contesto e comunità di riferimento, con dinamiche non dissimili da altri festival ‘identity-base’, come i festival LGBTQ+. Detto in altre parole, i WFF vengono percepiti – soprattutto dal mercato – come ‘case’ di film che, veicolando una causa, mettono in secondo piano la qualità estetica dell’opera.
È dalla fine degli anni Novanta, infatti, che gli studiosi e le stesse autrici denunciano il rischio che i WFF diventino dei ‘ghetti’ che, anziché permettere alle registe di emergere e di confrontarsi con il mondo, ne ratificano la marginalità (Loist 2012; Van Hermet 2011; Rich 1998; White 2006). Non esistono tuttavia al momento ricerche di ampio respiro che traccino i percorsi distribuitivi dei film partecipanti a un WFF e i possibili nodi di relazione dei WFF tra loro e con altre manifestazioni (sul modello Ehrich, Burgdorf, Samoilova, Loist 2022). Si tratta di studi ancora tutti da scrivere e che dovrebbero, a mio avviso, rivolgere lo sguardo anche alla presenza di registe nei festival più noti, per cercare di capire quanto effettivamente la diffidenza verso i WFF sia frutto di pregiudizio o meno.
In questa sede vorrei dunque tentare una prima ricognizione, molto parziale, rispetto a uno dei più significativi esempi italiani di WFF: Sguardi Altrove Film Festival [fig. 3]. La manifestazione nasce nel 1993 a Milano, con il nome Donne Altrove Film Festival, per iniziativa di Gabriella Guzzi, psicologa che utilizza il film come strumento per lavorare sulla depressione femminile. Le donne non sono solo il target di riferimento: il festival vuole promuovere lo sguardo delle registe e soprattutto creare una maggiore consapevolezza sulla condizione femminile nel mondo contemporaneo. Quest’ultimo obiettivo spinge l’attuale direttrice artistica, Patrizia Rappazzo, a cambiare il nome del festival nel 1996 in Sguardi Altrove, con l’intenzione di «aprire lo sguardo, non innalzare steccati» (Moresco 2016), ammettendo, anche se in numero ridotto, opere di registi. Sguardi Altrove va controcorrente rispetto ad altri WFF, ma in questo modo si rende più appetibile per autori e autrici interessati a essere valutati per il loro talento, senza mai venir meno l’attenzione specifica per l’universo femminile, in tutte le sue forme ed espressioni. Attualmente il festival ospita due sezioni principali: ‘Nuovi sguardi’, dedicata a lungometraggi di finzione e documentari, e ‘Sguardi (s)confinati’, dedicata ai cortometraggi, e diverse secondarie, tra cui ‘Azzurro pallido’ (dal 2021), ossia film a regia maschile dedicati a rappresentazioni non stereotipate delle donne.
Per quanto attiene all’impatto che il festival ha sul destino delle registe e dei film che qui vengono presentati, si è scelto, per ragioni di spazio e disponibilità di fonti, di concentrare l’analisi sugli ultimi dieci anni della manifestazione (2013-2022), sul solo concorso lungometraggi e sulle autrici italiane. Le carriere delle registe e i dati sulle loro opere sono stati attinti da IMDB e dai database Lumière e Lumière VOD dell’European Audiovisual Observatory. Nel periodo considerato il concorso ha ospitato 85 lungometraggi, di cui sei (il 7%) di registe italiane. La metà sono documentari, nessuno risulta vincitore del premio principale, tre hanno avuto una distribuzione theatrical, ma con magri risultati, e due hanno partecipato ad altri festival italiani. Attualmente due film sono disponibili su piattaforme italiane e uno, Dal profondo (Valentina Pedicini, 2013) [fig. 4], è presente in 67 piattaforme di 23 Paesi europei. Quest’ultimo è il film che ha raccolto i risultati più incoraggianti dopo il festival, anche rispetto alla carriera della regista: se infatti solo la metà delle colleghe ha continuato a realizzare opere dopo Sguardi Altrove, Valentina Pedicini è passata al lungometraggio di finzione con Dove cadono le ombre (2017), presentato alle Giornate degli Autori di Venezia, e di nuovo al documentario con Faith (2019), candidato ai David di Donatello e nella rosa di opere prescelte per il neonato progetto internazionale di promozione del cinema italiano scritto e diretto da donne denominato WICIP (Women Italian Cinema – An Inclusive Project) (Gervasini, 2022). La scomparsa prematura della regista nel 2020 ha chiuso tragicamente il suo arco creativo.
Questi pochi dati, che andrebbero quanto meno messi a confronto con quanto accade a film a regia femminile che partecipano a festival di altro tipo, sembrano confermare il sospetto che poche registe riescano a superare la soglia dei WFF per entrare nel mercato. Sono necessarie, a mio avviso, azioni concrete che coinvolgano tutto il circuito festivaliero, come il Pledge for Parity and Inclusion in Film Festivals presentato dal Collettivo 50/50 a Cannes nel 2018 e che ha raccolto, a oggi, l’adesione di 156 festival (<https://collectif5050.com/en/festivals-that-have-signed-the-pledge/>). Una goccia nel mare rispetto alle migliaia di festival nel mondo, ma comunque un primo segnale verso il cambiamento. Alla luce di questo quadro, dunque, i WFF sono ‘case’ ancora più necessarie, perché sede di espressione libera del cinema indipendente femminile. La ricerca, quindi, può accrescere l’attenzione su di loro, attivando uno sguardo critico e consapevole in grado di rinnovarne l’operato.
Bibliografia
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