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Le ricerche nell’ambito dei film festival studies sottolineano la centralità che i Film Festival, e in particolare i Women Film Festival, ricoprono nella promozione di registe indipendenti. Essi sono come una ‘casa’ nelle cui ‘stanze’ le registe possono confrontarsi tra loro e con gli spettatori (salotto), far nascere nuove idee e progettualità (cucina), avviare transazioni economiche (studio) e dare espressione alla propria identità, alle proprie aspirazioni e ai propri desideri (camera da letto). Ma da ambienti protettivi, i festival possono anche rischiare di diventare prigioni, nel momento in cui falliscono nel compito di far conoscere al pubblico più ampio le opere che promuovono. Il contributo si interroga sull’impatto che i Women Film Festival hanno sulla vita dei film e sulla carriera delle registe indipendenti attraverso il caso di Sguardi Altrove Film Festival. Del festival si ripercorrono le origini, gli obiettivi e le sezioni principali; i dati sulla distribuzione dei lungometraggi a regia italiana degli ultimi dieci anni e sulla carriera delle loro autrici sono un primo output per ricerche più articolate sui Women Film Festival.

Research in the field of film festival studies underlines the pivotal role of Film Festivals, and in particular of Women Film Festivals, in the promotion of independent female filmmakers. They are like a ‘home’ in whose ‘rooms’ female filmmakers can confront each other and spectators (living room), give birth to new ideas and projects (kitchen), engage economic transactions (studio), and give expression to their identity, aspirations and desires (bedroom). But from being protective environments, festivals can also risk becoming prisons, when they fail in the task of making the works they promote known to the wider public. The contribution questions the impact of Women Film Festivals on the lives of films and the careers of independent women filmmakers through the case of Sguardi Altrove Film Festival. The festival’s origins, purposes and main sections are traced; data on the distribution of Italian-directed feature films over the last ten years and on the careers of their authors are a first output for more articulated research on Women Film Festivals.

It’s not about knocking on closed doors. It’s about building our own house and having our own door.

Ava DuVernay, «Time», 14 settembre 2017

 

1. I film festival: la ‘casa’ del cinema indipendente

È frequente incorrere nella metafora della ‘casa’ a proposito dei film festival per indicare la sede elettiva di un cinema di qualità, soprattutto indipendente, che diversamente avrebbe poco spazio per esistere. Una ‘casa’ che possiamo immaginare, per continuare la metafora, organizzata in ‘stanze’ diverse: le sezioni del festival stesso, gli eventi che lo animano, le attività di cui è sede, ma anche, in senso più trasversale, le funzioni che assolve. Palcoscenico per i film e luogo di confronto e di incontro tra autore e spettatore (un salotto), fucina di nuove idee e di progettualità (una cucina), sede di transazioni e valutazioni economiche (uno studio), antro misterioso che racchiude identità, aspirazioni, desideri (una camera da letto). All’interno di questa ‘casa’ gli autori hanno modo di crescere, di misurarsi tra loro e con il pubblico, di imbastire o migliorare il proprio progetto. E come ogni ‘casa’ anche quella del festival si collega con il mondo esterno attraverso ‘porte’ e ‘finestre’, che talvolta risultano difettose o aperte verso vicoli ciechi: il film non arriva al pubblico e il suo autore resta sconosciuto ai più. Ecco allora che la ‘casa festival’, da ambiente sicuro e protettivo, di crescita e di espressione sincera del sé, rischia di diventare una gabbia, magari dorata, ma incapace di comunicare con quanto sta fuori.

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Il salotto è per costituzione un ambiente domestico di ricezione degli ospiti, un luogo esclusivo in cui si svolgono processi relazionali e scambi di esperienze. Muovendosi simbolicamente fra i salotti (fittizi) del cinema di regime e i luoghi (reali) del dietro le quinte della produzione cinematografica, questo contributo esplora le trasformazioni sociali che vertono sul cambiamento del ruolo domestico e professionale della donna in Italia tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta. Le vicende ambientate nei salotti borghesi del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi diventano spunto per riflettere sulla posizionalità della donna all’interno della ‘casa del cinema’ e per osservare l’emergere di una tessitura professionale al femminile finora ignorata dai modelli storiografici. 

The drawing room is by definition a domestic environment devoted to receiving guests, an exclusive space where interpersonal relations are formed and experiences exchanged. Shifting symbolically between the (fictional) drawing rooms of the cinema of the regime and the (real) behind the scenes of film production, this contribution explores the social transformations which centre on the changing professional and domestic role of women in Italy between the end of the 1930s and the first half of the 40s. The events set in the bourgeois rooms of the so-called cinema of the white telephones prompt us to reflect upon the positionality of women within the ‘house of cinema’ and to observe the emergence of professional women’s networks which so far have been overlooked by existing historiographies. 

 

1. Premessa

Come sostengono le geografe Mona Domosh e Joni Seager in Putting Women in Place, lo spazio e la sua organizzazione non fanno semplicemente da sfondo neutrale ai drammi umani, ma ne influenzano la condizione e le relazioni (2001, pp. xxi-xxiii). La creazione, l’uso e la disciplina degli ambienti edificati (built environment), spazi intesi sia come entità fisiche in generale (space), sia come luoghi vissuti e associati alla sfera personale (place), sono determinati in parte da presupposti riguardanti ruoli e relazioni sociali. Secondo questo approccio, la ‘genderizzazione’ (gendering) degli spazi quotidiani (abitativi, professionali, ricreativi e così via), ossia il ruolo che lo spazio gioca nella formazione dei ruoli di genere, si presenta come elemento critico per identificare, e mettere in discussione, relazioni di potere fra i sessi di natura gerarchica, binaria e discriminatoria.

La categoria dello spazio diventa, in questo contesto, utile strumento di indagine storiografica per esaminare come l’industria cinematografica italiana rielabori e si rispecchi nei processi di modernizzazione sociale e di urbanizzazione dei costumi che attraversano il Paese tra gli anni Trenta e Quaranta. Un’ottica ‘spaziale’ permette anche di riflettere sulle dinamiche di genere che si sviluppano all’interno della filiera filmica nella sua complessa organizzazione artistica, tecnica ed economico-amministrativa.

 

2. Il panorama produttivo

L’articolato panorama produttivo del cinema italiano tra l’avvento del sonoro e la fine della seconda guerra mondiale è stato oggetto di ampio dibattito storiografico che qui non si ha la pretesa di rivisitare nella sua complessità. Durante la prima metà degli anni Trenta la filiera produttiva, raggiunta una fase di assestamento in seguito alla graduale conversione al sonoro delle strutture, degli impianti e della formazione tecnico-artistica, si avvia, con la fine del decennio, verso un’ulteriore espansione infrastrutturale dettata in parte, com’è noto, dall’istituzione del monopolio per l’acquisto, l’importazione e la distribuzione dei film stranieri e il conseguente ritiro delle majors americane dal mercato italiano. Esacerbato dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista e dalle restrizioni autarchiche, il grande sforzo costruttivo e produttivo incoraggiato dal governo (si calcola siano circa 96 i lungometraggi italiani distribuiti nel 1942, contro i 33 del 1937) si arresta bruscamente all’indomani dell’esautorazione di Mussolini nel luglio del 1943.

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In questo breve saggio presento una riflessione su alcune fonti storiche che documentano il contributo delle donne alla produzione cinematografica in Italia tra il 1930 e il 1960. Questa ricerca fa parte di un progetto più ampio sulla storia degli stabilimenti cinematografici in Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, intitolato STUDIOTEC: Infrastructure, Culture and Innovation in Britain, France, Germany and Italy 1930-60[1] e finanziato dal Consiglio Europeo per la Ricerca. Il gruppo di colleghi e colleghe che collabora al progetto STUDIOTEC, guidato dalla storica inglese Sarah Street, si muove lungo quattro assi principali, studiando in prospettiva comparatista e transnazionale la struttura architettonica e l’infrastruttura dei luoghi adibiti alla produzione cinematografica; la creatività e la sperimentazione tecnologica all’interno degli stabilimenti; le relazioni sociali e professionali esistenti tra le varie componenti della forza lavoro impiegata negli stabilimenti; i fattori politici e economici che hanno influenzato il settore.

Documentare la struttura e le dinamiche produttive all’interno dei vari stabilimenti cinematografici operanti in Italia tra il 1930 e il 1960 non è impresa facile, specialmente in contingenze, come quelle attuali, in cui l’accesso agli archivi locali, di stato, audiovisivi e di enti bancari o a collezioni private è limitato. Nonostante il generoso sostegno remoto di archivisti e colleghi in varie città italiane, dagli inizi della pandemia di COVID-19 a oggi (settembre 2021), mi sono spesso trovata a muovermi, in smart working, in direzioni alternative rispetto alla consueta esplorazione delle fonti d’archivio. Se questa lunga fase preliminare di indagine da remoto ha sicuramente posticipato la consultazione di fonti archivistiche utili a documentare non solo «la costruzione dell’artificio» (Cardone, Cuccu 2005) in Italia durante il periodo sotto analisi ma anche la sua organizzazione, d’altra parte, il lavoro di ricerca online ha messo in luce la presenza, o assenza, di fonti digitalizzate o meno, che documentano la divisione del lavoro all’interno degli stabilimenti cinematografici e che possono contribuire a esplorare il contributo delle donne alla produzione cinematografica nazionale.

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Marina Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata fa ingresso nel mercato cinematografico in un decennio inquieto e di grande fermento del cinema italiano. Nei primi anni Sessanta è legata all’orizzonte distributivo, accompagnando la crescita della società Euro International Films attraverso scelte ardite (tra cui L’uomo del banco dei pegni, 1967; Bella di giorno, 1968; Helga, 1968), che ottengono però un certo riconoscimento culturale in una fase di inedita mobilità interna all’industria del periodo postbellico (Corsi 2001; Brunetta 2009; Nicoli 2017). La sua firma come produttrice è legata al cinema d’autore e ‘di qualità’ (a titolo di esempio: Metti, una sera a cena, 1969; Teorema, 1969; Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970; La classe operaia va in paradiso, 1971; Mimì metallurgico ferito nell’onore, 1972) della seconda metà del decennio fino ai primissimi anni Settanta, momento in cui il cinema italiano raggiunge il suo picco produttivo e commerciale prima del successivo declino (De Bernardinis 2009) [figg. 3-4-5].

In virtù di una tale parabola, connotata da un milieu cosmopolita e da strategie di mercato espansive portate avanti secondo un’ottica internazionale che spesso si appoggia ai possibili accordi di coproduzione, Cicogna viene spesso definita la «prima produttrice europea». Al netto dell’importanza che va riconosciuta al suo intervento sul terreno della produzione cinematografica italiana, in particolar modo nel quinquennio tra il 1968 e il 1973, questa affermazione sollecita in prima istanza le culture della produzione (Caldwell 2008) e, di conseguenza, l’uso delle fonti, aprendo una riflessione sul rapporto tra documentazione e forma narrativa o, come scrive Ginzburg (2006), tra verità, finzione e menzogna, tra «etico» ed «emico». Gli appunti che seguono intendono collocare all’interno di questo frame lo sguardo su Marina Cicogna, anche a partire dal recente processo di riscoperta della sua importanza come pioniera della produzione cinematografica. L’obiettivo non è, dunque, quello di celebrare il successo e l’autonomia di Cicogna nell’orizzonte regolato dai ‘capitani d’industria’, così come appare ovvio fotografando il periodo in esame, quanto piuttosto rintracciare quegli elementi che permettano di formulare delle ipotesi di indagine microstorica, per contribuire a una lettura più ampia del terreno culturale della produzione cinematografica italiana successiva al boom economico.

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