1.3. Tra i salotti dei telefoni bianchi. Dinamiche sociali e professionali nella produzione sentimentale del cinema di regime

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il salotto è per costituzione un ambiente domestico di ricezione degli ospiti, un luogo esclusivo in cui si svolgono processi relazionali e scambi di esperienze. Muovendosi simbolicamente fra i salotti (fittizi) del cinema di regime e i luoghi (reali) del dietro le quinte della produzione cinematografica, questo contributo esplora le trasformazioni sociali che vertono sul cambiamento del ruolo domestico e professionale della donna in Italia tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta. Le vicende ambientate nei salotti borghesi del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi diventano spunto per riflettere sulla posizionalità della donna all’interno della ‘casa del cinema’ e per osservare l’emergere di una tessitura professionale al femminile finora ignorata dai modelli storiografici. 

The drawing room is by definition a domestic environment devoted to receiving guests, an exclusive space where interpersonal relations are formed and experiences exchanged. Shifting symbolically between the (fictional) drawing rooms of the cinema of the regime and the (real) behind the scenes of film production, this contribution explores the social transformations which centre on the changing professional and domestic role of women in Italy between the end of the 1930s and the first half of the 40s. The events set in the bourgeois rooms of the so-called cinema of the white telephones prompt us to reflect upon the positionality of women within the ‘house of cinema’ and to observe the emergence of professional women’s networks which so far have been overlooked by existing historiographies. 

 

1. Premessa

Come sostengono le geografe Mona Domosh e Joni Seager in Putting Women in Place, lo spazio e la sua organizzazione non fanno semplicemente da sfondo neutrale ai drammi umani, ma ne influenzano la condizione e le relazioni (2001, pp. xxi-xxiii). La creazione, l’uso e la disciplina degli ambienti edificati (built environment), spazi intesi sia come entità fisiche in generale (space), sia come luoghi vissuti e associati alla sfera personale (place), sono determinati in parte da presupposti riguardanti ruoli e relazioni sociali. Secondo questo approccio, la ‘genderizzazione’ (gendering) degli spazi quotidiani (abitativi, professionali, ricreativi e così via), ossia il ruolo che lo spazio gioca nella formazione dei ruoli di genere, si presenta come elemento critico per identificare, e mettere in discussione, relazioni di potere fra i sessi di natura gerarchica, binaria e discriminatoria.

La categoria dello spazio diventa, in questo contesto, utile strumento di indagine storiografica per esaminare come l’industria cinematografica italiana rielabori e si rispecchi nei processi di modernizzazione sociale e di urbanizzazione dei costumi che attraversano il Paese tra gli anni Trenta e Quaranta. Un’ottica ‘spaziale’ permette anche di riflettere sulle dinamiche di genere che si sviluppano all’interno della filiera filmica nella sua complessa organizzazione artistica, tecnica ed economico-amministrativa.

 

2. Il panorama produttivo

L’articolato panorama produttivo del cinema italiano tra l’avvento del sonoro e la fine della seconda guerra mondiale è stato oggetto di ampio dibattito storiografico che qui non si ha la pretesa di rivisitare nella sua complessità. Durante la prima metà degli anni Trenta la filiera produttiva, raggiunta una fase di assestamento in seguito alla graduale conversione al sonoro delle strutture, degli impianti e della formazione tecnico-artistica, si avvia, con la fine del decennio, verso un’ulteriore espansione infrastrutturale dettata in parte, com’è noto, dall’istituzione del monopolio per l’acquisto, l’importazione e la distribuzione dei film stranieri e il conseguente ritiro delle majors americane dal mercato italiano. Esacerbato dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista e dalle restrizioni autarchiche, il grande sforzo costruttivo e produttivo incoraggiato dal governo (si calcola siano circa 96 i lungometraggi italiani distribuiti nel 1942, contro i 33 del 1937) si arresta bruscamente all’indomani dell’esautorazione di Mussolini nel luglio del 1943.

La produzione dei ‘telefoni bianchi’, formula definitoria per descrivere le vicende ingarbugliate e macchinose, ricche di scambi d’identità e di equivoci, ritorna spesso al centro del dibattito sull’eredità del cinema fascista. Come spiega Stefania Parigi, è il genere sentimentale il bersaglio privilegiato della critica, non solo all’indomani della Liberazione ma anche di quella coeva, per il carattere convenzionale e artificioso di questa produzione ‘da studio’ di cui si lamenta lo scollamento alla realtà (1991, pp. 213-250). Sullo sforzo classificatorio nell’inquadrare generi e sottogeneri di una «vastissima famiglia di film» si concentra David Bruni, riassumendo la forte tendenza all’eterogeneità e alla contaminazione dei temi ispirata a modelli diversi, tra cui stimoli di provenienza anglosassone (la screwball comedy americana, il poliziesco) e mitteleuropea (la nota commedia ‘all’ungherese’), ma anche a repertori storici, melodrammatici, musicali classici, folk, ecc. (2013, pp. 13-17). Una «polifonia del moderno», tematica e stilistica, che ha origine, secondo l’attenta lettura di Vincenzo Buccheri, nelle prime esperienze della Cines-Pittaluga (2004, pp. 65-71).

 

3. Quei luoghi mitici

 Come afferma Lucia Cardone, l’impianto scenografico ha giocato «un ruolo chiave nella diffusione e nell’affermazione del cinema degli anni Trenta» grazie alla sua capacità di «rendere illusoriamente vicino, anche per il pubblico popolare, il sogno di una felicità piccolo borghese alla portata di tutti» (2005, pp. 19-20). I set della commedia romantica del periodo offrono uno sguardo retrospettivo sul repertorio della modernità da cui attingevano architetti, scenografi e arredatori ispirati da correnti artistiche e movimenti architettonici in voga al tempo, quali il Novecento, l’International Style e il razionalismo italiano (Parigi 1991-92; Martin 2013). Tra i tanti scenografi accreditati nel periodo emergono Gastone Medin, protagonista indiscusso della progettazione scenografica di questi anni (centinaia i titoli, tra cui Il signor Max, 1937; Maddalena zero in condotta, 1940), ma anche Guido Fiorini (Belle o brutte si sposan tutte, 1939; Una famiglia impossibile, 1940), l’arredatore Gino Brosio (Due milioni per un sorriso, 1939; Due cuori sotto sequestro, 1941), lo scenografo Ottavio Scotti, spesso affiancato dall’arredatore Cesare Pavani (Mille lire al mese, 1939; Se io fossi onesto, 1942) e così via. Attività altamente genderizzata, la scenografia, se si pensa che solo una donna, Wanda (o Vanda) Rummo, è segnalata come assistente tra il 1930 e il 1943, ma in un dramma di ambientazione storica (Il ponte di vetro, 1940). Del resto, per le professioniste del comparto il genere storico sembra privilegiato, rispetto alla commedia, anche dalle tante costumiste attive nel periodo, tra le quali spiccano Marina Arcangeli, Maria De Matteis, Rosi Gori e Titina Rota.

Sono molteplici gli ambienti urbani, pubblici e privati, rappresentati nelle commedie e nei drammi sentimentali di questi anni, ideati e ricostruiti nei teatri di posa di Roma, Tirrenia e, occasionalmente, Torino: ambienti domestici (sale da pranzo, saloni, salotti), spazi educativi e lavorativi (scuole, banche, uffici), luoghi del divertimento (locali notturni, alberghi). Questi moderni ‘cantieri’ del film, parte proscenio illuminato e parte retroscena in penombra, diventano quindi terreno fertile per misurare il rilievo strategico che lo spazio assume nella produzione filmica e in particolare nelle dinamiche sociali e professionali che vi si dipanano. Tra questi interni, il salotto, ambiente carico di associazioni e riferimenti storico-politici e culturali, si presenta, nella rielaborazione stilistica e narrativa che ne fa il cinema di questi anni, un luogo particolarmente esemplare ed esemplificativo per illustrare il tema che qui si tratta.

 

4. La trasformazione del salotto

Come spiega Mariuccia Salvati in L’inutile salotto (1993), nel cammino percorso dalla cultura architettonica durante gli anni del fascismo, l’abitazione civile piccolo-borghese subisce una trasformazione dovuta al progressivo assottigliarsi del confine tra sfera pubblica e sfera privata. Custodi di quella frontiera tra pubblico e privato un tempo rappresentata dal salotto, sono le donne. Ed è proprio alla «donna muliebre», come ricordano anche Marina Addis Saba (1988) e Victoria De Grazia (1992), che si rivolgono la propaganda politica e la pubblicità diffondendo campagne-slogan e consigli assillanti sulla cura della casa e la risultante ‘igiene’ familiare. Illustrativa, a questo proposito, la trasformazione iconografica del ‘salotto buono’, ambiente esclusivo e signorile dell’ultimo Ottocento-primo Novecento, in uno spazioso soggiorno, oppure ridotto ad angolo-studio disposto tra divano e scaffali di libri quale si ritrova, ad esempio, nelle rubriche delle riviste femminili dedicate al tema dell’economia domestica [fig. 1].

La produzione cinematografica del periodo partecipa a suo modo a questo processo di modernizzazione degli stili architettonici e del ménage abitativo piccolo-borghese che vede nel tradizionale salotto liberty un inutile habitat domestico e sociale di antico stampo. Il genere sentimentale in particolare, sia comico sia drammatico, ruotando intorno alla figura della giovane impiegata in carriera o della studentessa «dal potenziale sovversivo» (Reich 1995, p. 245), cattura i sintomi di una rottura generazionale e anticipa il fallimento di un progetto culturale totalitario e uniformizzante che, come nota ancora Cardone, camaleonticamente incoraggia la partecipazione femminile a eventi sportivi e adunate collettive ma dall’altro mira a relegare «le eroiche madri della patria» tra le mura domestiche (2005, p. 19).

Si prenda ad esempio Violette nei capelli (1942), commedia sentimentale dai toni melodrammatici tratta (non senza apprezzabili divergenze, come spiegano Laura Bocchiddi e Nadia Rondello, 2011) dall’omonimo romanzo di successo di Luciana Peverelli, impegnata attivamente anche alla stesura della sceneggiatura del film. È un ampio soggiorno di un appartamento condominiale, una living room polifunzionale, e non un tradizionale salotto dei ricevimenti il luogo concepito da Piero Filippone e arredato da Mario Rappini per il travolgente incontro della protagonista Carina, una giovane sartina orfana aspirante attrice filodrammatica (Lilia Silvi), con le due sorelle Oliva (Irasema Dilian), ballerina di teatro, e Mirella (Carla del Poggio), atleta e allenatrice sportiva [fig. 2].

La dissacrazione del mito aristocratico del salotto emerge più apertamente nel dramma sentimentale La principessa del sogno (1942), anch’esso tratto da un racconto di Peverelli e imperniato sulla differenza di classe (pure se in declinazione storico-fiabesca). Tra le sequenze più significative, spicca quella in cui la giovane orfana Elisabetta (Irasema Dilian), adottata di recente dalla padrona di casa, serve la cioccolata alle ricche signore in visita mentre queste disquisiscono indiscretamente di adozione, differenze di classe e animali da compagnia [fig. 3].

Costretta in un clima di guerra e di chiusura autarchica, la produzione sentimentale dei primi anni Quaranta ricalca, anche nella sua ambientazione extra urbana, la linea di ostilità contro il salotto borghese divulgata dalla pubblicistica del tempo. È il caso, ad esempio, delle commedie Il birichino di papà (1943) [fig. 4] e La vita è bella (1943) [fig. 5], ambientate in ville in aperta campagna dove il «fantasismo scenografico» (Parigi 1991, p. 217) della coppia Medin-Brosio esaspera la tradizionale fisionomia e funzionalità del salotto, frammentando lo spazio o mettendolo letteralmente a scompiglio non senza una malcelata vena critica.

 

5. Speculazioni da salotto

Se, come sostiene Salvati, «l’abolizione del salotto è il simbolo di una vera rivoluzione domestica imperniata prevalentemente sul ruolo della donna» (1993, p. 45), pare emblematico che sia proprio il salotto, tradizionalmente deputato non solo al ricevimento degli ospiti e degli estranei, ma anche alla discussione, al formarsi di un’opinione critica e di affinità ideologiche, il luogo domestico che deve sparire, per lo meno secondo la pubblicistica del regime. Questa progettata trasformazione sociale che gravita sul ruolo delle donne, fagocitata a sua volta dalla produzione cinematografica coeva, stimola a riflettere sulla ‘posizionalità’ delle donne all’interno della ‘casa del cinema’, non tanto sul piano della rappresentazione quanto piuttosto su quello relativo alla loro partecipazione attiva.

Esaurito il terreno concreto dell’evidenza storica, il complesso retaggio storico-culturale del salotto, simbolo epocale della polarità tra pubblico e privato, permette di traslare sul piano della «speculazione», del «what if» o del «what might have been», come ha osservato recentemente Allyson Nadia Field (2022). Parafrasando Field, cosa potrebbe emergere se per un momento si relegasse la metodica ricerca empirica nel ristretto angolo-studio e si provasse a ridisegnare uno spazio più ampio che recuperi e riattivi narrazioni ed esperienze represse non ancora raccontate? Offrendo ospitalità a questo approccio generativo e rigenerante, si intende quindi esplorare il confine tra la dimensione reale e fittizia dei salotti del cinema fascista, proponendo una riflessione sui rapporti di potere e sulle differenze di genere e di classe quali si sviluppano all’interno dell’industria cinematografica negli ultimi anni del regime.

Le trasformazioni sociali che vertono sul cambiamento dei ruoli delle donne, filtrate dal genere sentimentale, diventano allora spunto per osservare l’emergere di una tessitura professionale femminile finora ignorata dai modelli storiografici, i quali spesso riconducono il protagonismo femminile sugli schermi del periodo alla sola dimensione narrativa e spettacolare (Casadio, Laura, Cristiano, 1991; Bìspuri, 2020). Sono in particolare gli anni della guerra e della chiusura autarchica a favorire l’entrata nella ‘casa del cinema’ di diverse categorie di lavoratrici, attive alla sceneggiatura, alla regia e all’edizione, promuovendo legami professionali dentro e fuori dagli ambienti in cui si è tradizionalmente specializzata la manodopera femminile (sartoria, colore, montaggio). Si profilerà, ad esempio, il connubio lavorativo tra Maria Teresa Ricci Bartoloni e Ines Donarelli (ma anche quello tra Maria Basaglia e Dolores Tamburini, o tra Luisa Alessandri e Gisa Radicchi Levi). Intrecci professionali che, speculativamente, trovano ambientazione tra i salotti in trasformazione della commedia degli equivoci.

 

Bibliografia

M. Addis Saba, ‘La donna muliebre’, in M. Addis Saba (a cura di), La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio, Firenze, Vallecchi Editore, 1988, pp. 1-71.

E. Bìspuri, Il cinema dei telefoni bianchi, Roma, Bulzoni Editore, 2020.

L. Bocchiddi, ‘Luciana Peverelli e il cinematografo: la visione del sogno’, in L. Cardone, S. Filippelli (a cura di), Cinema e scritture femminili. Letterate italiane fra la pagina e lo schermo, Roma, Iacobelli editore, 2011, pp. 142-165.

D. Bruni, Commedia anni Trenta, Milano, Il castoro, 2013.

V. Buccheri, Stile Cines. Studi sul cinema italiano 1930-1934, Milano, Vita e Pensiero, 2004.

L. Cardone, ‘Il cantiere del film: Antonio Valente tra innovazione tecnologica e ricerca figurativa’, in L. Cardone, L. Cuccu (a cura di), Antonio Valente. Il cinema e la costruzione dell’artificio, Pisa, Edizioni ETS, 2005, pp. 11-27.

G. Casadio, E. G. Laura, F. Cristiano, Telefoni bianchi. Realtà e finzione nella società e nel cinema italiano degli anni Quaranta, Ravenna, Longo Editore, 1991.

D. Domosh, J. Seager, Putting Women in Place. Feminist Geographers Make Sense of the World, New York, The Guilford Press, 2001.

V. De Grazia, How Fascism Ruled Women, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1992.

A.N. Field, ‘Acts of Speculation’, Feminist Media Histories, 3, vol. VIII, 2022, pp. 1-7.

S. Martin, Scenografia e scenografi, Milano, Il castoro, 2013.

S. Parigi, ‘Commedie in rivista. La critica nella stampa specializzata 1930-1943’, in M. Argentieri (a cura di), Risate di regime. La commedia italiana 1930-1944, Venezia, Marsilio Editori, 1991, pp. 213-50.

S. Parigi, ‘L’architetto cosmopolita’, Immagine. Note di Storia del Cinema, 19, inverno 1991-92, pp. 1-10.

J. Reich, ‘Reading, Writing, and Rebellion: Collectivity, Specularity, and Sexuality in the Italian Schoolgirl Comedy 1934-43’, in R. Pickering-Iazzi (a cura di), Mothers of Invention. Women, Italian Fascism, and Culture, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1995, pp. 220-251.

N. Rondello, ‘La scrittura di Luciana Peverelli tra cinema e mélo’, in L. Cardone, S. Filippelli (a cura di), Cinema e scritture femminili. Letterate italiane fra la pagina e lo schermo, Roma, Iacobelli editore, 2011, pp. 119-141.

M. Salvati, L’inutile salotto. L’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.