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Durante la Seconda guerra mondiale il cinema italiano, che conosce una stagione piuttosto fervida, dovuta alla politica cinematografica del fascismo, tende a occultare i problemi del presente, privilegiando – come è noto – rappresentazioni evasive, stilizzate ed edulcorate della realtà. A uno sguardo più ravvicinato, tuttavia, è possibile cogliere alcuni indicatori del malessere serpeggiante; piccoli segnali che raggiungono la superficie dello schermo condensando desideri repressi, frustrazioni e bisogni. Tra questi il cibo si rivela un topos significativo atto a veicolare non solo in senso letterale la fame che attanaglia gli italiani ma, in quanto metafora, anche un anelito tutto femminile di libertà espresso tra lo spazio privato della cucina e quello pubblico del soggiorno. L’intervento mette in luce il legame tra le figure femminili e il cibo negli spazi domestici delle commedie cinematografiche del 1943, come spia del complesso rapporto con la realtà e come metafora dei limiti e delle possibilità offerte dalla stessa rappresentazione audiovisiva.

During World War II, Italian cinema, going through a rather fervent season due to the film policy of fascism, tended to conceal the problems of the present, favoring - as is well known - evasive, stylized and sweetened representations of reality. At a closer look, however, it is possible to grasp some indicators of the social malaise; small signals that reach the surface of the screen condensing repressed desires, frustrations and deep needs. Among these, food proves to be a significant topos apt to convey not only in a literal sense the hunger that grips Italians but, as a metaphor, also an all-female yearning for freedom expressed between the private space of the kitchen and the public space of the living room. The paper highlights the connection between female figures and food in the domestic spaces of 1943 film comedies, as an indicator of the complex relationship with reality and as a metaphor for the limits and possibilities offered by audiovisual representation itself.  

 

1. Mangiare con gli occhi

Tra le metafore più suggestive che siano mai state applicate allo schermo, quelle di ‘telo’ e ‘tovaglia’ godono di una recente quanto corposa fortuna. In quanto superficie ampia, lo schermo accoglie tutto ciò che viene apparecchiato per gli spettatori, e che concerne non soltanto gli elementi della rappresentazione, ma anche il modo in cui le cose si danno (o non si danno) a vedere. È pertanto sorprendente – per chi si accinga a una ricerca anche introduttiva al riguardo – quanto sia cospicua la presenza del cibo, della tavola nonché dell’atto del mangiare o del bere al cinema (Alberto, 2009; Bower, 2004; Keller, 2006). La vocazione realista del racconto cinematografico incrocia e si annette inevitabilmente una delle attività che scandiscono i tempi della giornata e della vita di ciascuno. Dalla dimensione rappresentativa a quella simbolica, poi, il passo è breve: i rituali di preparazione e di consumo del cibo esprimono identità e appartenenze socio-culturali che vengono interpretate dal pubblico in relazione a pattern consolidati (Gelsi, 2002; Lapertosa, 2002). Anche gli ambienti in cui questi hanno luogo, mentre àncorano i personaggi a spazi verosimili (la cucina dove si prepara il pranzo e la sala in cui è consumato; gli eleganti salotti in cui si beve champagne; oppure gli spazi pubblici, come i tabarin, le trattorie e i ristoranti), aggiungono contenuti che definiscono tratti di personalità e funzioni narrative secondo strati di complessità che vengono inconsciamente rielaborati dagli spettatori.

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Negli anni 1964-1967, periodo che segue il miracolo economico (1958-1963) e anticipa “il lungo sessantotto” (1968-1970) - si impongono nella società italiana numerosi discorsi di pertinenza cinematografica incentrati sullo stile di vita di popolari attrici nel contesto borghese delle loro abitazioni di lusso. In un momento storico in cui la “ricchezza” si radica come valore discriminante, le testimonianze delle dive italiane riguardo le abitudini quotidiane e la gestione dello spazio domestico rivelano contraddizioni e ambiguità che mi sembra interessante indagare. Tanto più se lo spazio abitato è condiviso con un uomo influente (si pensi ai casi Sofia Loren-Carlo Ponti o Silvana Mangano-Dino De Laurentis), la cui presenza si configura come l’espressione di un patriarcato che proprio nell’intimità della condivisione degli spazi privati si fa regolatore della stessa dimensione divistica ed è, per questo motivo, difficile da scardinare. Ma anche quando la relazione privata sembra gestita in modo paritario (si pensi al caso Monica Vitti-Michelangelo Antonioni), le forme di appropriazione e controllo dello spazio domestico si caricano simbolicamente di tensioni che trovano inevitabilmente il loro riverbero nei discorsi mediatici e nella dimensione dell’arte.

In the years 1964-1967 - a period that followed the economic miracle (1958-1963) and anticipated 'the long sixty-eight' (1968-1970) - numerous discourses of cinematographic relevance centred on the lifestyle of popular actresses in the bourgeois context of their luxury homes imposed themselves on Italian society. In a historical moment in which 'wealth' took root as a discriminating value, the testimonies of Italian divas regarding their daily habits and the management of domestic space reveal contradictions and ambiguities that appear interesting to investigate. All the more so when the inhabited space is shared with an influential man (think of the Sophia Loren-Carlo Ponti or Silvana Mangano-Dino De Laurentis cases), whose presence is configured as the expression of a patriarchy that precisely in the intimacy of the sharing of private spaces becomes the regulator of the divine dimension itself and is, for this reason, difficult to unhinge. But even when the private relationship seems to be managed on an equal footing (think of the Monica Vitti-Michelangelo Antonioni case), the forms of appropriation and control of domestic space are symbolically charged with tensions that inevitably find their echo in media discourses and in the dimension of art.

A metà degli anni Sessanta, la cronaca della vita delle star italiane sui rotocalchi di maggiore diffusione popolare alimenta il radicamento di modelli di consumo che aspirano a emulare – senza toccarne le vette – quelli delle figure mediatiche maggiormente esposte.

Accogliendo la prospettiva dyeriana, secondo cui le star incarnano dialetticamente valori sociali dominanti e altri minacciati o in crisi (Dyer, 1979), l’immagine divistica di alcune attrici affermate del nostro cinema pare interpretare le contraddizioni del periodo di transizione dal miracolo economico (1958-1963) al «lungo sessantotto italiano» (1968-1970), effettuando una ‘riconciliazione magica’ di termini apparentemente incompatibili. È come se nella esibizione mediatica di un modus vivendi eccentrico e sontuoso, l’immagine di queste note attrici italiane sia stata definita attraverso antinomiche sfumature che rivelano tutta la complessità di un’epoca in via di trasformazione. Un’epoca in cui coesistono forzatamente vecchi schemi patriarcali e nuovi desideri di affermazione identitaria (Asquer, 2013). Useremo dunque il modello dyeriano per analizzare il modo in cui alcune di loro vengono mostrate quali manifestazione di tale evidente snodo problematico.

E assumeremo come focus della nostra indagine il racconto delle abitazioni di lusso di queste star, poiché ci sembra che nel resoconto della loro vita domestica si manifesti ontologicamente questa tensione. Non parliamo di case tradizionalmente borghesi, ma di luoghi inaccessibili ai comuni mortali, abitazioni sfarzose al punto da diventare iconiche quanto i personaggi che le abitano.

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In Un anno con tredici lune (1978) Fassbinder accentua l'importanza della dialettica tra interni ed esterni e inquadra con grande precisione l'inquieta smania di amore della protagonista Elvira. Il contributo prova a rileggere i modi della messa in scena alla luce della poetica dello spazio di Bachelard, nel tentativo di sottolineare l'importanza della casa come luogo di rifrazione del sé, oltre che come dispositivo della visione.  

La dialettica dei sentimenti propria della ricerca artistica di Rainer Werner Fassbinder trova nella articolazione degli spazi uno dei nodi concettuali più interessanti, tanto da suggerire di rileggere la sua produzione nel segno di una vera e propria ‘cartografia’ dei luoghi. La lucida riflessione sui caratteri delle passioni umane, quasi sempre condizionate dal determinismo materialista della società, offre un’ampia gamma di soluzioni architettoniche, grazie anche alla continua tensione fra le città e le case, che non era sfuggita al giudizio di Deleuze. Per il filosofo francese, infatti, Fassbinder «elaborava i propri esterni come città-deserti, i propri interni sdoppiati negli specchi, con pochissimi punti di riferimento e una moltiplicazione di punti di vista senza raccordo» (Deleuze 2000, p. 145). La perentorietà di questa considerazione, di fatto uno dei pochi passaggi dedicati al regista tedesco, permette di ricavare un primo livello della topografia del suo cinema, cioè l’attrito fra dentro e fuori, pubblico e privato che si esplica a partire dalla frizione fra le trame del complesso urbano, spesso castranti nei confronti degli individui, e i dettagli delle stanze e dei palazzi, frazioni di soggettività divise e in lotta.

Riprendendo il modello spaziale elaborato da Bachelard, è possibile considerare le case disseminate lungo i bordi del cinema di Fassbinder come «strumento di analisi per l’anima umana» (Bachelard, p. 28). Lungi dall’essere l’emanazione di una condizione felice, come vorrebbe la poetica di Bachelard, le case fassbinderiane servono piuttosto a vivisezionare l’intimità dei personaggi, a far emergere il giogo di costrizioni e ricatti, di desideri e mancanze che ogni opera incarna. Nonostante il tratto per lo più claustrofobico dei film del regista, si pensi allo spazio millimetrico de Le lacrime amare di Petra von Kant o all’angustia mentale e materiale che opprime Veronika Voss, gli ambienti costruiti permettono di far deragliare la quarta parete e si trasformano in piccoli, e precisissimi, teatri anatomici. Fedele alla poetica del Kammerspiele, Fassbinder elegge gli interni domestici come elementi matrice di una visione certamente cupa, feroce, dell’esistenza, vissuta dalla maggior parte dei personaggi come traiettoria della disperazione, del disinganno, tipica della disposizione melodrammatica che resta alla lunga l’insegna più credibile dell’intera sua opera. L’esiguità dei mezzi di produzione non ha mai interferito con la pienezza dei segni espressivi, debitrici della lezione di Sirk per ciò che attiene al registro delle emozioni, e così ogni testo filmico ridisegna la simmetria (o la sproporzione) fra interni ed esterni attraverso sintagmi visivi e codici diegetici stratificati e a tratti debordanti. Proprio la concentrazione degli spazi e degli arredi, la veemenza dei destini e delle colpe, fanno sì che gli effetti della composizione di scene e sequenze obbediscano a una misura, a un equilibrio fra pieni e vuoti, tagli e raccordi, attese e tradimenti. A suggerire il nesso tra ‘relazioni pericolose’ e luoghi dell’abitare è in fondo lo stesso autore, come si legge tra le righe di una delle sue dichiarazioni più famose: «Sognare un amore vero è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c’è bisogno dell’ossigeno» (Fassbinder 2005, p. 21). L’amore ha a che fare con il perimetro della realtà, con le funzioni dell’esistere, con la logica delle sensazioni e dei corpi, e in questa tassonomia si infrange l’archetipo della rêverie teorizzata da Bachelard. La chiusa geometria delle stanze non esclude però la permeabilità dei punti di vista, e così grazie a un calcolato sistema di soglie le case di Fassbinder si trasformano in vere e proprie ‘macchine per vedere’, in dispositivi mobili che esaltano la densità delle immagini. Guardare l’altro, o l’immagine raddoppiata e sfocata di sé stessi, significa attivare un meccanismo di compensazione, un’istanza che giunge a sublimare perfino i dolori più accesi, perché in fondo quello del regista è un cinema della compassione.

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La ‘rigenerazione’ e la ‘rinascita’, il ‘ricominciare’, il ‘ricostruirsi’ da capo sono parole chiave che spesso vengono associate al racconto della persona pubblica dell’attrice e presentatrice televisiva Ambra Angiolini. Associazioni che vengono proposte da altri, o direttamente da lei stessa, come è possibile riscontrare in molte interviste rilasciate in tempi recenti.

Così, nella video intervista per il magazine online «Déluge» nell’ottobre 2021, Angiolini commenta ironicamente la frase che accompagnava un suo post di auguri pasquali del 4 aprile 2021 – «Ho ricominciato così tante volte nella vita che Pasqua è diventata il mio secondo compleanno» – dicendo che si è trattato di uno dei «rari deliri di onnipotenza» della sua vita [fig.1]. In una recentissima intervista rilasciata a «Vanity Fair» nell’estate 2022, definisce questo suo sapersi «rifare da capo» (spesso dopo che la sua vita privata è stata resa pubblica senza il suo consenso) con queste parole: «l’ennesimo superpotere che è stato attribuito a questa mia esistenza targata Marvel». In entrambi i casi, Angiolini usa il tono giocoso e scanzonato, autocritico e autoironico allo stesso tempo, che oramai la contraddistingue. E, tuttavia, negli stessi momenti in cui abbraccia la fama di eterna e tenace ‘Araba Fenice’, tenta allo stesso tempo di smarcarsene, rivendicando non solo totale libertà e leggerezza nelle proprie relazioni private, ma anche un’agency nuova sulle sue scelte professionali, da sempre improntate all’ecclettismo tra televisione, radio, teatro e cinema.

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Mai come ora le immagini dei nostri corpi trovano nella casa la scena della propria autorappresentazione. Complice la pandemia, che ha reso l’ambiente domestico da una parte rifugio dal pericolo esterno, dall’altra unico possibile affaccio, grazie alle immagini dispositivo, a quel mondo fisicamente vietato. Due sole le questioni che sembrano pervadere le forme di auto-ritrattistica digitale se interrogate nel quadro dei modi di auto-mostrazione femminile tra le mura domestiche tramite i social media. Da una parte il segreto dall’altra parte la posa, due aspetti dell’essere che gravitano antiteticamente su lati opposti: il segreto nella sfera del privato, del recesso, del nascondimento, mentre la posa in quella del pubblico, dell’esibizione, del performativo.

The images of our bodies find the scene of their self-representation in the house. Thanks to the pandemic, which made the home environment, on the one hand a refuge from external danger, on the other the only possible view, thanks to the device images, to that physically forbidden world. Two issues seem to pervade the forms of digital self-portraiture when questioned in the context of the ways of female self-display at home via social media. On the one hand the secret, on the other the pose, two aspects of being that gravitate antithetically on opposite sides: the secret in the private sphere while the pose in that of the public, of the exhibition, of the performative.

 

 

Take a look at you and me

Are we too blind to see?

Do we simply turn our heads

And look the other way.

Elvis Presley, In the Ghetto


 

Paolo Sorrentino commenta così la scelta di celare fino alla fine la figura della sorella, che dietro alla porta del bagno diventa una presenza assente, invisibile eppure significativa. La sottrazione allo sguardo dei famigliari, che vengono tenuti all’oscuro dei rituali di preparazione della giovane donna che si fa bella per uscire, si riflette sulla sottrazione alla visione, come se quel corpo in trasformazione diventasse un segreto. Questa suggestione che arriva dall’ultimo film di Sorrentino, È stata la mano di Dio, ci porta a mettere a fuoco due questioni che sembrano pervadere alcune forme di auto-ritrattistica digitale se interrogate nel quadro dei modi di auto-mostrazione femminile tra le mura domestiche tramite i social media. Mai come ora le immagini dei nostri corpi trovano infatti nella casa la scena per la propria autorappresentazione. Complice la pandemia, che ha reso l’ambiente domestico da una parte rifugio dal pericolo esterno ma, dall’altra, anche unico possibile affaccio, grazie alle immagini dai nostri spazi privati, a quel mondo fisicamente vietato.

Le due questioni in gioco sembrano essere da una parte il segreto e dall’altra la posa, due aspetti dell’essere che gravitano antiteticamente su lati opposti: il segreto nella sfera del privato, del recesso, del nascondimento, mentre la posa in quella del pubblico, dell’esibizione, del performativo. La sorella di Fabietto nasconde il proprio rituale di trasformazione, cela il processo di costruzione dell’immagine di Sé come donna, quell’immagine che una volta costruita diventa essenziale per mettersi in posa nel passeggio pubblico. Anche se Sorrentino, sul finire del film, finalmente decide di aprire la porta del bagno per farla sfilare, incedere a passi lenti verso la macchina da presa lungo il corridoio di una casa ormai vuota, per arrivare a mettersi in posa in un camera look, con il volto smarrito bagnato di lacrime [fig. 1].

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Unica donna a firmare il Manifesto del New American Cinema Group e co-fondatrice della Film-Makers’ Cooperative, Shirley Clarke (NYC 1919-Boston 1997) ha eletto la settima arte come privilegiata «stanza tutta per sé», dedicandosi con fervore alla causa del cinema indipendente e di ricerca. Già danzatrice e coreografa, è stata autrice di innovativi film di cinedanza e in stile cinéma-vérité, oltre che docente di cinema. Iniziò a fare film a New York nel 1953 con una cinepresa avuta come regalo di nozze, e contribuì da protagonista di spicco al rinnovamento del cinema statunitense e alle sue ‘espansioni’ con una variegata sperimentazione formale e tematica, nella costante tensione verso un’idea di arte partecipata e relazionale. La mia proposta intende ricostruire l’eclettica pratica artistica di questa filmmaker di rango, che dalla danza si spinge agli albori della videoarte: un esemplare impegno estetico e civile all’insegna del rigore, della passione e della originalità espressiva

The only woman who signed the New American Cinema Group Manifesto, co-founder of the Film-Makers’ Cooperative, Shirley Clarke (NYC 1919-Boston 1997) elected the seventh art as her privileged «room of one’s own», devoting herself fervently to the cause of independent and research cinema. Formerly a dancer and choreographer, she authored innovative cinédanse movies as well as movies in cinéma-vérité style, and was also a film teacher. She started her film career in New York in 1953 with a movie camera she had as a wedding gift, contributing as a prominent protagonist to the renewal of the US cinema and its ‘expansions’ with a varied formal and thematic experimentation, in constant tension towards an idea of participatory and relational art. My proposal is meant to reconstruct the eclectic artistic practice of this high-ranking woman filmmaker, which goes from dance to the dawn of videoart: an exemplary aesthetic and civil commitment under the banner of rigor, passion and expressive originality.

Faccio questo lavoro per rendermi felice

Shirley Clarke

 

Unica regista tra i 22 firmatari del Manifesto del New American Cinema nel 1960, cofondatrice della Film-Makers’ Cooperative nel 1962, Shirley Clarke (Brimberg, NYC 1919 – Boston 1997) è stata protagonista del rinnovamento cinematografico statunitense fin dagli esordi ispirati alla sua formazione di danzatrice e coreografa (con Martha Graham, tra gli altri) [fig. 1].

Di famiglia agiata e la maggiore di tre figlie, Shirley era una ribelle già da bambina. Fece ottimi studi universitari e nel 1942, per sottrarsi al severo controllo paterno, sposò un fotolitografo di nome Bertram Clarke, padre della sua unica figlia Wendy, dal quale divorziò nel 1963. Nei primi anni Cinquanta intraprese un nuovo percorso creativo, scegliendo il cinema come privilegiata «stanza tutta per sé», e inaugurando la sua carriera di filmmaker con cortometraggi di cinedanza, ai quali collaborò il marito, e che presto avrebbero lasciato il posto a lungometraggi in parte ispirati al cinéma-vérité. Nel 1955 si iscrisse all’Institute of Film Techniques di New York. Allieva di Hans Richter, ebbe tra i compagni di classe Jonas Mekas, come lei habitué delle programmazioni della Cinema 16 Film Society di Amos Vogel. Fece parte della Independent Film-Makers Association (1953-1955), che la inserì nel milieu artistico del Greenwich Village animato da Maya Deren, Stan Brakhage, Lionel Rogosin e lo stesso Mekas.

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Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020). È non a caso la natura ‘performativa’ del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo in primo luogo come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

The cinema of the real has often been interested in the domestic space, translating its investigation into a self-narrating instance by the subjects/authors of a documentary form ready to welcome the intimacy of the individual story. Daniele Dottorini, taking up the thought of David Shields, writes that «the more a work becomes autobiographical, intimate, confessional, embarrassing, the more it fragments» (Dottorini 2020). It’s not a case that the ‘performative’ nature of the contemporary documentary seems to be the most suitable for welcoming, in the meshes of a filmic frame experienced by intermedial relationships between formats, ambiguous relationships between filmic image and off screen, hybridizations between reality and fiction, the same disjointed inner journey that each subject is called to make when he talks about himself on the outside. Reporting what is ‘home’ means in most cases accepting that its definition deconstructs itself into a spectrum of fragments that deny it any spatial perimeter in the name of an opening to what happens ‘beyond the walls’ or more essentially beyond the singular tale of the narrator. Starting from three documentaries guided by a female gaze, Alice Guareschi’s Autobiografia di una casa (2002), Daniela De Felice’s Casa (2013) and Alice Rohrwacher’s Quattro strade (2020), this essay proposes to reflect on how the narration of one’s own home often takes place by relying on the other’s story, recognizing one’s living space primarily as a material exposed to those who, from a symbolic ‘outside’, modify, work and protect its borders.

Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020, p. 53). È, non a caso, la natura «performativa» (Nichols 2014) del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo, in primo luogo, come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

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Nel mio intervento vorrei parlare di un lavoro del 1988 di Mona Hatoum: Measures of Distance. Il video racconta per immagini la possibilità di uno scambio intimo fra esistenze che si snodano lontane.  Le vicende di una madre e una figlia, divise prima dalla guerra e poi dalla storia (la famiglia di Hatoum è palestinese), vengono colte in un momento di apparente ricomposizione, ma lasciano delle misure di distanza che si sono fatte reali nel progressivo allontanarsi dei mondi personali e privati. Hatoum riproduce e trasferisce sullo schermo le lettere scritte a mano che percorrevano la distanza da Beirut a Londra fra lei e la madre. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge a voce alta e in inglese. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un viaggio in Libano. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione fra madre e figlia, discorsi intorno alla vita, l’amore, la sessualità, il matrimonio. Il corpo materno, forte, è ripreso in modo da mostrare anche la sua fragilità e si confonde con lo sfondo dell’immagine.  Le lettere che scorrono sullo schermo – in una lingua per molti inaccessibile in Occidente – sono tramite e divisione, una gabbia di caratteri che mettono in contatto madre e figlia ma le lasciano distanti nello spazio. Legate da un rapporto che è rappresentato per la sua intimità, le due donne sanno di vivere mondi separati. In questa scena minuta, in un angolo della casa, Hatoum prende lo spazio per disporre gli elementi principali di una geopolitica che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive: il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato. Il percorso di Hatoum si muove in varie opere intorno ai temi della casa, ma se in molti lavori, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, l’avvicinamento ai temi del domestico avviene attraverso la poetica del perturbante, in questo video la costruzione di una sorta di hammam domestico e privato libera le possibilità di uno scambio intimo e duraturo.

In this paper I would like to talk about Mona Hatoum’s work, Measure of Distance, issued in 1988. Through the images, the video shows the possibility of an intimate exchange between existences unfolding far away from each other. The events of a mother and daughter, divided first by the war and then by history (Hatoum’s family is Palestinian), are captured in a moment of apparent recomposition, which, nevertheless, leaves ‘measures of distance’ that have become real in the progressive distancing of their personal and private world. Hatoum reproduces and transfers to the screen the handwritten letters that traveled from Beirut to London, through the distance separating her from her mother. The transcription of the Arabic characters of the letters runs accompanied by a voice – that of the artist – who reads them aloud and in English. In the background, we see the image of her mother, taken in the shower by Hatoum herself during a trip to Lebanon. The reading of the correspondence alternates with fragments of conversation between mother and daughter, talks about life, love, sexuality, marriage. The strong maternal body is taken up in such a way as to show her fragility as well and blends into the background of the image. The letters that scroll across the screen – in a language inaccessible to many in the West – are connections and division, a cage of characters that connect mother and daughter but leave them distant in space. Linked by a relationship that is represented by its intimacy, the two women know they live in separate worlds. In this minute scene, in a corner of the house, Hatoum takes the space to arrange the main elements of a geopolitics that already in the Eighties heralded the complexity with which the present coexists: the weight of wars, migrations, exile, cultural identities, the domination of the West in a globalized world. The path of Hatoum moves in various works around the themes of the house. However, while in many of her works, especially those issued at the end of the nineties, the approach to the themes of the domestic takes place through the poetics of the uncanny, in this video the construction of a sort of domestic and private hammam frees up the possibilities of an intimate and lasting exchange.

1. Introduzione

Measures of Distance è un lavoro di Mona Hatoum di grande delicatezza, perfetto per una riflessione sulla libertà con cui, dopo il «taglio femminista» (per usare un’espressione di Carla Lonzi), è possibile entrare e sostare nello spazio domestico – concettualmente e concretamente – senza temere l’ombra della grande ala dell’angelo del focolare. Il lavoro ci consegna una nozione di intimità che supera e sfida, in piena continuità con il femminismo degli anni Settanta, i tradizionali steccati che pretendevano di separare la sfera personale da quella pubblica. In questo video del 1988 l’operazione di Hatoum, a partire dalla costruzione di un dispositivo complesso, è quello di legare rappresentazione e soggettività, immergendosi nel racconto di una relazione madre-figlia, in cui proprio il tema dell’intimità serve come punto di passaggio per una riflessione che non è esagerato definire geo-politica. Gli elementi principali di una configurazione del mondo che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive – il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato – sono richiamati dalla sovrapposizione di elementi visivi e sonori. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un ritorno a casa, in Libano, nel 1981.

Figlia di genitori palestinesi rifugiati in Libano, Hatoum ha replicato una vicenda di esilio. Trovatasi a Londra al momento dello scoppio della guerra civile in Libano del 1975 e impossibilitata a tornare nel suo Paese, la sua condizione è stata a lungo quella di apolide. È stato detto che Measures of Distance è uno dei pochi lavori, se non l’unico, con un intento chiaramente autobiografico: l’intensità dei materiali e l’uso che ne fa l’artista lo rendono una vera e propria auto-etnografia (Kahn 2007). Hatoum parla di esilio scegliendo di raccontare la distanza che si è creata fra lei e la madre, senza temere ricadute nostalgiche, né riduzioni del discorso a una dimensione privata e femminile, limitata e separata così come vorrebbe la tradizione. Hatoum riproduce, dunque, e trasferisce sullo schermo, le lettere scritte a mano della madre che percorrevano la distanza da Beirut a Londra. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge quelle stesse lettere in inglese con un tono che tradisce la tristezza e la nostalgia. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione in arabo tra madre e figlia, registrati dal vivo.

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Thème Je (2011) di Françoise Romand è un ironico e implacabile autoritratto di famiglia tra interno ed esterno, tra cinema e vita, tra storia e Storia. Dalla cucina alla camera da letto, dal giardino al bagno, la videocamera di Romand percorre tutte le stanze come fossero dimensioni del sé e interroga le presenze reali o fantasmatiche che le abitano (madre, padre, sorella, zii, amanti) per dare forma a una dichiarazione d’amore corale al cinema e alla vita. Quasi sconosciuta in Italia, Romand ha mosso i primi passi nel cinema a metà anni Ottanta con documentari di produzione televisiva come Mix-Up ou Méli-Mélo (1986) e Appelez-moi Madame (1987), che indagavano storie di famiglia con un linguaggio più vicino a quello di Jacques Tati che al cinéma vérité. Poi ha optato per l’autoproduzione, girato la macchina da presa su di sé per realizzare un video-diario che trova una propria forma cinematografica del tutto originale.

Françoise Romand’s The Camera I (2011) is an witty and relentless family autoportrait shot between interiors and exteriors, cinema and life, lifestory and History. From the kitchen to the bedroom, from the garden to the bathroom, Romand’s camera explores domestic spaces as if they were dimensions of her own self inhabited by real and ghostly characters (her mother, father, sister, uncle, lovers) whom she interrogates and in so doing gives shape to a polyphonic love declaration to cinema and life itself. Almost unknown in Italy, Romand started her carrier in the mid-Eighties with tv-produced documentaries such as Mix-Up (1986) and Call me Madame (1987), which told family stories with a cinematic language closer to Jacques Tati’s than to cinema verité. Later on, she had to opt for auto-production and decided to turn the camera to herself in order to make a video-journal completely original and personal in form and content.

Quasi sconosciuta in Italia, eccetto per alcuni passaggi al Festival Cinema e donne di Firenze e per la retrospettiva dedicatale a Torino nel 2019, Françoise Romand ha mosso i primi passi nel cinema alla metà degli anni Ottanta con alcuni documentari di produzione televisiva incentrati sulla questione dell’identità: Mix-Up ou Méli-Mélo (1986), Appelez-moi Madame (1987) e Les miettes du purgatoire (1992) indagavano storie di famiglia insolite (uno scambio in culla, una riassegnazione di genere in tarda età, la convivenza di figli anziani con genitori longevi) per mezzo di un linguaggio creativo più vicino a quello di Jacques Tati che al cinéma vérité. La riflessione cinematografica sulle pieghe complesse della soggettività è proseguita poi con due opere di finzione: Passé Composé (1994) sull’incontro tra un uomo che cerca di ricostruire il proprio passato e una donna affetta da amnesia e Vice vertu et vice versa (1996) su due vicine di casa insoddisfatte che, approfittando della loro somiglianza fisica, decidono di scambiarsi le vite l’una di prostituta e l’altra di disoccupata. Quando la televisione ha cominciato a erodere i margini entro cui riusciva a svilupparsi un cinema libero ed eccentrico come il suo, Romand ha optato per l’autoproduzione. Sintomatica è la gestazione complicata di Si toi aussi tu m’abandonnes (2004), storia di un giovane adottivo e delle difficoltà relazionali con la famiglia d’accoglienza, che non è mai andato in onda nella versione director’s cut (Birgé 2007 e Uslu 2017). A quel punto, ormai, la regista aveva già deciso di girare la macchina da presa su di sé e realizzare quello che poi è diventato Thème Je (2011), un video-diario scritto in punta di caméra-stylo che fa tesoro dell’eredità di capolavori del genere come Walden (1969) e Lost Lost Lost (1976) di Jonas Mekas o Les plages d’Agnès (2008) di Agnès Varda, elaborando tuttavia una forma e una poetica personali. Si tratta di un ironico e implacabile autoritratto delle proprie relazioni e opere compiutosi nell’arco di oltre dieci anni, dal 1999 al 2010, attraverso diverse fasi di riprese e soprattutto di montaggio. Il titolo è un gioco di parole che rovescia l’enunciato «Je t’aime» senza però tradirlo poiché il film è a tutti gli effetti una dichiarazione d’amore alla vita e alle possibilità creative del cinema. La versione inglese del titolo è a sua volta un gioco di parole: The camera I significa ‘la camera io’ o ‘la camera sé’ ma, siccome il pronome personale I è un omofono di eye (occhio), allora l’allusione è al kinoglaz da cui Romand osserva e filma il proprio mondo.

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