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«La sera, quando vado a dormire, mi raggomitolo in fondo al letto per fare spazio ai corpi della foto, e parlo loro sotto le lenzuola» (p. 28). Così si conclude Primo amore, il secondo dei brevi testi che compongono L’immagine fantasma di Hervé Guibert (Contrasto, 2021), instaurando, fin da subito, una serie di coordinate all’interno delle quali la scrittura fotografica si fa corpo attraverso una dinamica che trascende l’attestazione di realtà o la dinamica memoriale. Emerge, piuttosto, in queste pagine, dalla forma quasi di brevi istantanee, flash, scatti fotografici che oscillano dall’aneddotica alla riflessione, un continua tensione verso un effetto contraddittorio che si esplica nella metafora di Pigmalione e, contemporaneamente, nel suo rovescio: il rapporto soggettivo, finanche fisico, che Guibert istaura con le immagini fotografiche sta a testimoniare di una tensione di vivificazione di ciò su cui lo sguardo si posa (i corpi a cui fare spazio sotto le lenzuola) e, insieme, di un desiderio di bloccare la realtà, farla immagine, osservarla come se fosse (o perché potrebbe essere) una fotografia; o, anche, come surrogato, traslato di un atto interdetto: lo scatto fotografico come sublimazione di un abbraccio, come trasfigurazione di una sessione vissuta «con la potenza sorda di un incesto» (p. 24).

L’immagine fantasma è un testo di difficile definizione, una raccolta di scritti brevi o brevissimi che ruotano tutti attorno a un’‘esperienza’ dell’immagine fotografica, nei registri discorsivi più diversi: in uno spettro che va dal mimetismo dell’articolo di giornale all’appunto sul diario fino al racconto familiare. Il desiderio è il principale prisma percettivo e la mano che guida la scrittura de L’immagine fantasma: la fotografia è «una pratica d’amore» (p. 18), un’emozione, «una forma di possesso meno violenta di un crimine» (p. 116), «un rimpianto» (p. 29), o un atto liberatorio (anche da uno sguardo vincolante, come nel caso del testo eponimo in cui sotto la guida del figlio la madre esce dallo sguardo costrittivo del marito); o ancora può essere il ricordo di un’emozione, che, tuttavia, è in grado di sopravvivere solamente se riattivato dalla scrittura (e infatti, e contro una tradizione consolidata, la fotografia, come atto di memoria, è impossibile). Se non è riappropriata attraverso lo sguardo desiderante della scrittura, l’immagine resta inattingibile: le stesse foto di famiglia, uno dei luoghi più fecondi dell’inventio letteraria almeno da mezzo secolo a questa parte (e che pure lo stesso Guibert ha sfruttato, per esempio in Suzanne et Louise, seppur facendone una storia di fantasmi), non dicono nulla, rimangono estranee, come «per un amnesico» (p. 31). Si dispiegano così le trame del controfattuale, della ricerca di un legame viscerale e erotico con la foto, nelle forme del voyeurismo, dell’eccitazione, dell’angoscia per l’attestazione di una scomparsa che è quella, in primo luogo, della vitalità corporea, della crudeltà della storia della degradazione dei corpi: «l’immagine è l’essenza del desiderio e desessualizzare l’immagine sarebbe ridurla alla teoria» (p. 97). E non si tratta di un desiderio neutrale, le riflessioni e i micro-récits di Guibert recitano il copione di un romanzo di formazione omosessuale: il desiderio incestuoso nei confronti della figura giovanile (e ormai sfiorita) del padre che si mescola alla volontà (simbolica) di uccisione, l’attaccamento alla madre, la pederastia, l’ossessione per i giovani corpi maschili, il voyeurismo, l’attenzione al feticismo (immagini come reliquie seppur conservate in una umile scatola di cartone perché il desiderio, in una linea che dal Vautrin balzachiano passa per Jean Genet fino a arrivare a Walter Siti mescola continuamente banalità, degrado e sublimazione).

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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

De tous les contes populaires dont nous avons gardé la trace en Europe, l’histoire énigmatique de Barbe-Bleue porte en elle une force toute particulière d’attraction horrifique mêlée d’inquiétante étrangeté.

La question de l’interprétation du texte intéresse autant le champ littéraire, musical ou cinématographique que celui de la psychanalyse qui interroge le conte dans sa capacité à mobiliser l’inconscient du lecteur. Barbe-Bleue nous tient en haleine parce qu’il est question du désir dans son rapport à ce qui est caché, opaque, voire contradictoire. Pour le psychanalyste les vérités que le conte dissimule se trouvent ailleurs que dans l’espace axiologique mais doivent plutôt se déchiffrer dans la structure narrative elle-même comme dans la récurrence de certains motifs lors des différentes tentatives de réécriture de Barbe-Bleue.

Ainsi la clef dont Perrault nous indique dans une concision elliptique saisissante qu’« elle était Fée » (Perrault 2014, p. 190) constitue le véritable marqueur symbolique du conte de Barbe-Bleue : la place d’adjectif attribut est remarquable ici, mettant en valeur le seul élément magique du conte [fig. 1]. Bruno Bettelheim, le premier psychanalyste à en proposer une interprétation, relie la clef et la tache de sang indélébile à l’acte sexuel et au registre de la défloration dans son caractère d’irréversibilité (Bettelheim 1976, p. 441-442). Or la clef tachée de sang, outre la référence à peine voilée à une position de pouvoir phallique, évoque aussi une altération définitive de sa forme imaginaire et met en évidence l’instabilité de l’objet derrière le signifiant au sens où le mot tue la chose. La tache indélébile est ce qui vient inscrire le manque au cœur de la fonction phallique signifiante et permet du même coup le passage au registre symbolique du déchiffrement et de l’élucidation par le langage. Dès lors, puisque la clef s’adresse à l’effort d’interprétation lui-même, nous sommes conduits légitimement à nous poser la question suivante : de quelle mutation subjective le texte princeps de Perrault cherche-t-il à rendre compte ?

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Presentato alla 72ª edizione del Festival di Cannes, l’ultimo film di Pedro Almodóvar Dolor y Gloria (2019) rappresenta un suggestivo affresco autobiografico, dove le immagini giocano un ruolo fondamentale per la vocazione artistica del protagonista Salvador. Districandosi tra flashback ed espedienti metatestuali, il presente contributo ripercorre le sequenze del film e ne individua modelli, tematiche salienti, scelte cromatiche. Così, i riferimenti al cinema di Pier Paolo Pasolini, ad esempio, si intrecciano alla dinamica che lega le immagini al desiderio, e la lettura del rapporto tra finzione e realtà si mescola alle rifrazioni di Salvador disseminate tra gli altri personaggi maschili.

Presented at the 72ͭ ͪ edition of the Cannes Film Festival, the last movie of Pedro Almodóvar Dolor y Gloria (2019) represents a suggestive autobiographical picture, where images play a fundamental role for the artistic inspiration of the protagonist Salvador. Extricating itself between flashbacks and metatextual expedients, the article goes back through the sequences of the movie identifying models, topics, chromatic choices. So, references to the cinema of Pier Paolo Paolini, for example, intertwine to dynamic that links images to desire; at the same way, the reading of the relationship between fiction and reality is mixed with Salvador’s refractions disseminated among other male characters.

Il disegno di un bambino che legge curvo su un libro: questo il centro del nuovo film di Pedro Almodóvar, un film che nasce da un’immagine, si costruisce intorno alle immagini, parla della possibilità di salvezza che le immagini contengono. Secondo Pasolini, la prima parola ascoltata risuonare in dialetto friulano, la parola «rosada», era la radice del suo amore per il friulano, per la lingua friulana, ma anche per il corpo dei parlanti, cioè per coloro che usavano una lingua orale per comunicare, una lingua non scritta. Per Mishima, era stata la visione delle gambe di un operaio che trasportava secchi d’acqua a fulminare l’infanzia con la rivelazione dell’amore omosessuale. Per Almodóvar al centro di tutto c’è questo disegno, dove colui che guarda (e disegna) il soggetto è nello stesso tempo oggetto d’amore.

Il bambino si chiama Salvador (non a caso: è colui che deve essere salvato, ma anche colui che salva) e vive in una cueva cioè in una grotta platonica dentro la quale avviene la scoperta di una vocazione artistica e nello stesso tempo privata, proprio come per Mishima, di fronte al corpo nudo di un giovane operaio analfabeta. Sarà questo operaio, Edoardo, a ritrarre Salvador mentre legge, illuminato dall’alto da un’apertura che consente di guardare il cielo (Almodóvar si ricorda benissimo di Cosa sono le nuvole?, il film platonico e filosofico di Pasolini). Salvador è un bambino istruito, sa leggere e scrivere, ed è lui che insegna all’operaio a scrivere dicendogli, in modo semplice, che tracciare le lettere è come disegnare, dal momento che ogni lettera è un’immagine. Scrittura e immagini: Almodóvar stringe così, senza esitazione, il nodo che sta alla base della sua vocazione artistica.

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Attraverso due opere letterarie che intrecciano l’autobiografia al racconto di memoria collettiva, si ripercorre la costruzione dell’identità di genere dello scrittore ‘prostituto’ Francesco Grasso intrecciata strettamente all’identità di un quartiere, a partire dai confini che separano ed escludono tanto uno spazio fisico quanto uno spazio identitario. In questa ricostruzione si vuole dimostrare come la parola scritta acquisisca un valore ‘sovversivo’ perché permette a chi scrive di svelarsi proprio nell’atto estetico in cui il corpo è invisibile, a differenza delle altre opere audiovisive (cinema, web serie, teatro), dove la visualità a cui il corpo è esposto spinge a una rivelazione che finisce per essere un doppio velarsi.

Through two literary works that intertwine autobiography with the collective memory, the gender identity’s construction of the writer 'prostitute' Francesco Grasso is closely traced back to the neighborhood’s identity, starting from the boundaries that separate and exclude so much one physical space as an identity space. In this reconstruction we want to demonstrate how the written word acquires a 'subversive' value because it allows the writer to reveal himself precisely in the aesthetic act in which the body is invisible, unlike the other audiovisual works (cinema, web series, theater), where the visuality to which the body is exposed leads to a revelation that ends up being a double veil.

 

 

1. Le altre e il quartiere per parlare di sé

Francesco Grasso – che utilizza il nome Franchina non soltanto nella sua vita da travestito ma anche quando diventa personaggio di un film, di uno spettacolo teatrale, di una web serie, di un’intervista televisiva, di una canzone – comincia a scrivere nel 2000, in seguito alla grande retata che chiude le case del quartiere San Berillo nella città di Catania dove si prostituisce, dando così vita alla sua prima opera Davanti alla porta. Testimonianze di vita quotidiana nel quartiere catanese di San Berillo, pubblicato nel 2010 (con una seconda edizione nel 2012) dal Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Martino”, a cui farà seguito Ho sposato San Berillo, pubblicato nel 2018 da Trame di quartiere.

Le due opere si presentano entrambe come un insieme di piccoli quadri che hanno la duplice veste di scrittura autobiografica, centrata anzitutto sulla ricostruzione dell’identità di genere e di orientamento sessuale dell’autore, e di restituzione della dimensione spaziale in cui tale identità e tale orientamento hanno avuto modo di essere esplicitati, tracciati, costruiti, vissuti. A seconda di come vengano di volta in volta intrecciati e gerarchizzati questi due propositi, al lettore potrà apparire ora più forte il ‘patto autobiografico’ ora più incalzante il carattere ‘topo-cronachistico’ che mette in luce strutture temporali più complesse dell’immediata visione retrospettiva della scrittura autobiografica.[2] In tutt’e due le opere c’è di certo la volontà di raccontare qualcosa che si è vissuto: in Davanti alla porta i tratti autobiografici sono da rintracciare come pennellate leggere che impregnano l’intero sfondo dei 15 brevi racconti di «esperienze, sensazioni ed emozioni, fatti drammatici, comici, paradossali [vissuti] insieme alle altre»;[3] in Ho sposato San Berillo, invece, il racconto di sé diventa dipinto materico ordinato secondo un percorso cronologico e rintracciabile già, oltre che nell’imperante prima persona del titolo, da altri due elementi paratestuali: i titoli dei capitoli e l’uso del corsivo. Scorrendo l’indice di Davanti alla porta ci si rende subito conto di come non ci sia traccia dell’autore, quasi a dar l’impressione che l’opera abbia una sorta di carattere antropologico (Il quartiere, La legge Merlin, I clienti, Persone ed episodi, La discriminazione, L’igiene, La femminilità, etc.). In Ho sposato San Berillo, per contro, troviamo alcuni titoli dei capitoli eloquentemente riferiti all’autore/personaggio (Non lavarti con troppa frequenza, La strada ha scelto me, Una Franchina e un Michele, Se ho amato qualcuno, io non lo ricordo). All’interno poi dei capitoli in cui l’autore narra di sé si trova una distinzione tra una prima parte e una seconda, quest’ultima caratterizzata dall’uso del corsivo, al fine di rendere esplicito al lettore che dalla narrazione cronachistica di eventi autobiografici si passa alla riflessione e alle considerazioni dell’autore.

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San Berillo web serie docè il prodotto di un laboratorio audiovisivo condotto dalla visual artist Maria Arena nel quartiere catanese di San Berillo, una sorta di no man’s land abitata per lo più da sex workers e immigrati. Grazie all’attivazione di dinamiche relazionali basate sulla condivisione di esperienze, il format riesce a indagare le traiettorie esistenziali di una comunità che tenta di riabilitare il proprio modus vivendi attraverso feconde pratiche di rigenerazione urbana. Le due stagioni della serie coniugano la mobilità e la leggerezza del web con la profondità di sguardo del documentario e offrono una inedita cartografia di corpi e storie. L’intervento mira a ricostruire la poetica queer che ha ispirato l’architettura del progetto, da intendersi come strategia di messa in forma di un’alterità che attraversa le strade, i muri e i volti degli abitanti del quartiere, da sempre in lotta per una piena affermazione di sé.

The San Berillo web serie doc is the product of an audio-visual laboratory led by Maria Arena, a visual artist, in the San Berillo neighbourhood in Catania – practically a no man's land mostly inhabited by migrants and sex workers. By promoting relational dynamics on the basis of shared experiences, this format successfully portrays the existential trajectories of a community trying to rehabilitate its way of life through fertile practices of urban renewal. The series' two seasons combine the fluidity and simplicity of the web with the in-depth gaze of a documentary, thus offering an innovative map of bodies and stories. This presentation aims to rewire the queer poetics which inspired the architecture of the project, intended as a strategy to embody an "alterity" which runs through the streets, the walls and the faces of this suburb's inhabitants, always fighting for a fuller self- affirmation.

San Berillo Web Serie Doc è l’esito di un laboratorio di video-documentazione votato al recupero – attraverso una pratica di comunità – del ‘senso del luogo’ dello storico quartiere catanese San Berillo.[1] L’attività ha coinvolto nel corso di tre anni un gruppo composito di ragazzi che hanno condiviso un’esperienza formativa per certi aspetti inedita, perché caratterizzata da un approccio multidisciplinare e da una reale interazione con lo spazio[2].

Il progetto si inserisce nel piano di rigenerazione urbana guidato e sostenuto dalla Associazione Trame di quartiere,[3] protagonista di un’infaticabile attività di studio e sensibilizzazione nel cuore di Catania. Grazie all’intuito di Maria Arena, visual artist già autrice del docu-film Gesù è morto per i peccati degli altri (2015) selezionato alla 55ª edizione del Festival dei popoli di Firenze, i vicoli, i muri, i corpi e le storie che pulsano a San Berillo hanno trovato una via di ri-composizione formale che conferisce alle micronarrazioni lo statuto di «immagini della memoria»[4] e assegna loro la consistenza di «database interattivo».[5]

Le due stagioni della serie, disponibili su un canale youtube dedicato[6], coniugano la liveness e l’interattività del web[7] con la profondità di sguardo del documentario e puntano sull’attivazione di dinamiche relazionali basate sulla condivisione di esperienze e di ‘estratti di vita’. I tanti attori sociali coinvolti (abitanti, immigrati, docenti, attivisti, sex workers) offrono testimonianze emblematiche della condizione di marginalità in cui versa il quartiere e, allo stesso tempo, rilanciano la necessità di una risemantizzazione di spazi, abitudini e memorie.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

A ricordarci che le Ê»questioni di pelleʼ hanno una rilevanza di genere, una testata come Ê»BellaWeb.itʼ allorquando si preoccupa non solo di fornire alle sue lettrici – e ai suoi eventuali lettori – opportune indicazioni sulla cura dell’epidermide femminile ma anche di informare sulle locuzioni correlate. Nel riportare il significato della formula «non sto più nella pelle», sulla scorta del Dizionario dei modi di dire Hoepli, ne riconduce la genealogia alla nota favola di Fedro «dove la rana per diventare più grossa si gonfia fino a scoppiare» [fig. 1].

L’apologo, nella sua componente pedagogico-punitiva, non sembrerebbe in linea con la definizione data invece dell’«attesa frenetica di qualcosa di piacevole con grande gioia e impazienza», oppure della «manifestazione di una tale eccitazione da sembrar sul punto di schizzare fuori dalla pelle, incapaci di trattenersi». L’accostamento è però funzionale a rilevare il portato stratificato dell’espressione, facendoci muovere così tra le pieghe delle parole come tra le pieghe della pelle, invece che schiacciarci nella chiusura perentoria della definizione. Da un lato si richiama infatti la valenza identitaria connessa al binomio essere/apparire, dove la muta è riconducibile tanto a una condizione di costrizione che porta a Ê»scoppiareʼ, quanto a un cambiamento espressamente ricercato, volto a lacerare la pellicola che dà forma e quindi anche riconoscibilità in un ordine simbolico; dall’altro, si espone il ventaglio emozionale che induce o accompagna tale muta, dal momento che le pelli, tutt’altro che materiale inerte, vibrano e respirano.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

1. Il racconto

A dare spessore umano al film è una profonda relazione tra il movimento del plot e lo sviluppo interiore del personaggio a partire da una Ê»ferita inconsciaʼ che affligge il protagonista all’inizio del suo percorso, scrive la sceneggiatrice hollywoodiana Dara Marks. La ferita di Viola e Dasy non è inconscia, ma fisica. La superficie del corpo doppio, un’anomalia genetica che porta con sé un’indefinita identità di genere, si incarica di rendere visibile ed esteriore lo sviluppo interiore delle coprotagoniste. L’incidente scatenante che consente il loro Ê»risveglioʼ coincide con la rivelazione che il padre mente per sottometterle e guadagnare dalle loro esibizioni canore: al contrario di quanto i genitori avevano sempre affermato separarsi è possibile, serve solo del denaro. Per procurarselo avrà inizio la fuga. Ma soltanto una di loro, Dasy, desidera scindersi dal corpo della gemella, e soltanto il gesto d’amore di Viola permetterà al personaggio doppio di rinnovarsi [fig. 1].

Il viaggio interiore inizia quando la doppia protagonista intraprende il percorso che la porterà a rigenerare corpo e voce della creatura multipla. Secondo quanto teorizzato da Maureen Murdock, l’avventura di questa singolare eroina dal doppio corpo ha inizio con il rifiuto della madre, appendice passiva paterna. Viola e Dasy scappano su un motorino e partono alla ricerca della loro nuova identità [fig. 2]. Ma è solo l’inizio del viaggio: un gommone le porta verso un’esperienza traumatizzante di seduzione maschile su un panfilo, da cui le due fuggono tuffandosi in mare. Così perdono il denaro, sottratto a un sedicente discografico di nome Marco Ferreri, necessario per sostenere l’operazione di divisione dei loro corpi. È in questo momento che ha inizio il ribaltamento dei ruoli fra le due coprotagoniste, dentro un’acqua scura dove le banconote si disperdono in mare: Dasy, la leader che si scontra con il padre, cede il ruolo attivo a Viola, la gemella remissiva che decide di sfidare la sorte gettandosi in mare. È la prima esperienza di morte. Quando padre e sacerdote le ricatturano dopo il naufragio, durante una cerimonia rituale religiosa, anzi pagana, Dasy torna motore dell’azione pugnalandosi. La seconda esperienza di morte conduce il racconto al suo punto di svolta, cioè al rinnovamento dell’eroina doppia. La macrosequenza conclusiva è un happy end affidato ai corpi e alle voci delle due sorelle ormai separate. Nella discesa della parabola che coincide con la liberazione dalla Ê»ferita fisicaʼ delle coprotagoniste, tutto avviene in un’unica scena di una decina di minuti narrativamente reticente: momento di trasformazione, climax e risoluzione finiscono quasi per coincidere.

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1. La metafora animale

Tutto il cinema di Ferreri può essere letto come una sorta di grande bestiario grottesco sulle disavventure del corpo nello scenario della contemporaneità; i suoi film sembrano illustrazioni quasi ‘fumettistiche’ (per la loro paradossalità e paradigmaticità) delle teorie sul potere biopolitico che Foucault elabora soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta. I dispositivi economico-sociali-tecnologici-culturali vengono indicati come strumenti alla base dell’assoggettamento, della subordinazione e della disciplina dei corpi, senza distinzioni di genere. Per Ferreri le dinamiche della storia comportano l’allontanamento dell’essere umano dalla propria costituzione animale, la costrizione e la perdita progressiva della dimensione corporea, identificata come l’unico luogo autentico di una conoscenza strettamente connessa all’esperienza e al suo tessuto multiforme di materie, bisogni, desideri, sogni.

Nel configurare le devastazioni operate dalla storia sul corpo, l’autore rappresenta il soggetto maschile come un’entità instabile e disperata. Se, da una parte, l’uomo continua a forgiare il corpo della donna in quanto superficie di segni perfettamente rispondente all’esigenza di un controllo e di una dominazione – facendone di volta in volta una macchina feticistica, un manichino (Marcia nuziale, 1966), una cosa inerte (Dillinger è morto, 1969), un simulacro sostitutivo (I Love You, 1986), una carne di consumo (La carne, 1991) – dall’altra è anch’egli vittima del sistema che autorizza il suo ruolo di carnefice; è, in definitiva, un soggetto sopraffattore e allo stesso tempo sopraffatto dagli stessi dispositivi di relazioni e di dominio che tenta di amministrare.

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1955. Tosca, Mafalda, Gina, Silvana, Loretta: le ragazze di San Frediano corrono intorno a Bob e, senza saperlo ancora, corrono verso il boom [fig. 1]. Quando, negli anni dei Pane e amore, la commedia si appresta a spostarsi in città, queste povere ma belle della Firenze popolare e corale di Pratolini, interpretate da Rossana Podestà, Giovanna Ralli, Marcella Mariani, Giulia Rubini e Luciana Liberati, con la loro esuberante vivacità anticipano nel lungometraggio d’esordio di Zurlini i ruoli di Marisa Allasio e di Alessandra Panaro, e inaugurano l’interesse del regista per le figure femminili. Se il film è Ê»dedicatoʼ al giovane rubacuori dalle presunte fattezze del divo hollywoodiano e agli altri Bob come lui, sono queste donne poco più che adolescenti, con i loro corpi snelli, i loro desideri confusi e l’unica certezza di voler conquistare l’amore di Andrea, a tessere un racconto che ne metterà piuttosto in luce le menzogne, i facili inganni, l’inettitudine. Ma nessun matrimonio allieterà il finale di questa unica commedia di Zurlini, che termina davanti a un treno e in una stazione, uno dei luoghi più cari al regista bolognese, segnato dall’impossibilità dei rapporti e dalla ineluttabilità del commiato: Bob non partirà con la facoltosa stilista e, forse, non lascerà mai il vicolo e la sua officina, mentre, forse ancora, una di quelle ragazze ha già preso in mano la valigia con la speranza di mutare il suo destino. Anche in Italia, intanto, sono arrivati i 45 giri, sta per arrivare il juke-box e i bar diventano un’altra cosa: Guendalina dell’omonimo film (1957) e i suoi amici ci passano i pomeriggi, e la spiaggia è ormai il luogo delle vacanze, delle canzoni e degli incontri. Zurlini avrebbe dato molto a questo suo ritratto di adolescente, che Ponti preferì invece affidare a Lattuada. Il Ê»noiʼ dei giovani di cui scrive Capussotti si declina qui in un conflitto che non è solo generazionale ma di classe, passando attraverso i corpi e il corpo, poi a lungo amato, di Jacqueline Sassard. Come le altre giovani straniere del cinema italiano del decennio a venire, Sassard vestirà ruoli inconsueti e ribelli in una modalità ritenuta meno offensiva rispetto a quelle norme patriarcali ormai troppo strette per le ragazze della Ê»prima generazioneʼ, indicando piuttosto nuovi modelli di indipendenza e libertà per le giovani spettatrici. Nel film che Zurlini riesce a girare soltanto cinque anni dopo, Sassard-Rossana è una delle ragazze di una comitiva in vacanza a Riccione. In quell’estate del ʼ43 che racconta Estate violenta (1959), primo capitolo della Ê»trilogia adriaticaʼ, e che era stata anche del regista, i giovani, scrive Morreale, somigliano a quelli degli anni Sessanta e di un filone balneare che proprio in quegli anni riprende vigore, ma il registro zurliniano è, come sempre e per sua stessa ammissione, disperato. Se Rossana, che vorrebbe le attenzioni di Carlo – un ventenne figlio di un gerarca che come i suoi amici è riuscito a tenersi a distanza da una guerra che qui sembra lontana, ma che non manca di apparire in tutta la sua violenza –, è una ragazza spigliata e di carattere che crede di sapere cosa significhi Ê»fumare una sigaretta in dueʼ [fig. 2], la Roberta di Eleonora Rossi Drago (una delle ex-ragazze di Miss Italia), vedova di una medaglia d’oro, madre di una bambina e figlia di una donna tirannica e austera (come non ricordare Perdutamente tua?), scopre per la prima volta nei suoi trent’anni la passione e l’amore. In questo melodramma borghese e d’autore, che intreccia il familiare e il materno, il bellico e il noir e che sembrerebbe privilegiare il protagonista maschile in un racconto di formazione dove, come accadrà nei film successivi, l’impossibilità dell’incontro tra i soggetti, condannati, come dice Canova, a non poter sperare, si misura sul piano dell’età e/o anche della classe sociale (La ragazza con la valigia, 1961) e dove la sfera privata non sfugge dal misurarsi con gli imperativi del sociale e della storia, è la figura sensuale e altera di Roberta ad acquistare un rilievo inatteso. Così la sequenza del ballo, un momento ricorrente e decisivo nella filmografia del regista, non è in realtà che il punto di implosione, sulle note di Temptation e poi di Mario Nascimbene, di un racconto di rumore e furore che ha inizio con gli esiti devastanti di una guerra osservata prima che vissuta, e che diviene elemento intrusivo e scatenante già nel corso del primo incontro sulla spiaggia. In questa storia tracciata dagli sguardi il paesaggio, San Marino e la progettata visita al Castello di Gradara che fu di Paolo e Francesca, è il teatro necessario alla messa in scena di un crescendo di emozioni leggibile sulla pelle. Un teatro scarno, deserto, vuoto come nelle inquadrature di Antonioni, a sottolineare lo spaesamento e la solitudine dei personaggi, ma che, come le marine ricorrenti nella trilogia, risuona della nostalgia di qualcosa di originario e di irrimediabilmente perduto. Qui gli occhi rivolti al cielo come nei film del maestro Rossellini non scoprono i miracoli delle stelle ma i bengala che illuminano la notte, pietrificando come in un incantesimo i giovani spettatori. E in questa ri-creazione di una relazione d’incanto, la notte, una notte che appartiene alla guerra e alla luna, si premura di nascondere e rivelare, affidando agli occhi di Roberta e al suo scambio di sguardi con Carlo che balla con Rossana [fig. 3], poi ai morbidi movimenti del suo corpo e delle sua braccia quando balla con lui, la regia del segmento che si conclude con l’atteso bacio in giardino sorpreso dall’arrivo della ragazza. Così la spiaggia deserta, divisa tra la notte e l’alba, diviene il luogo di incontri sempre più scandalosi e inaccettabili e Rossi Drago (già protagonista di Le amiche) può ricordare la Vitti di L’avventura con la sabbia tra i capelli [fig. 4]. Piste di sabbia, come le chiama Borri, a disegnare il percorso di Zurlini e del regista ferrarese, ma, nel caso del Nostro, esse riconducono al punto di partenza, a un ritorno spettrale che mai sarà così esplicito come nella Rimini di La prima notte di quiete (1972). Il 25 luglio manda per aria, insieme alla Casa del Fascio e alla carriera di Caremoli padre, l’inerzia vacanziera di Riccione e di un’intera classe sociale. La fuga in treno della coppia verso la villa di Rovigo e una presunta libertà naufraga sotto un rumore di bombe più violento del furore della passione. Se Roberta rinuncia al suo voler essere qualcos’altro oltre che madre [fig. 5], Carlo si avvia lungo i binari dell’incertezza, per raggiungere il Ê»brancoʼ o, futuro Dominici del terzo capitolo della trilogia, per starne fuori per sempre, straniero nella sua stessa casa, nella sua stessa terra. Addii.

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