Hervé Guibert, L’immagine fantasma

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

«La sera, quando vado a dormire, mi raggomitolo in fondo al letto per fare spazio ai corpi della foto, e parlo loro sotto le lenzuola» (p. 28). Così si conclude Primo amore, il secondo dei brevi testi che compongono L’immagine fantasma di Hervé Guibert (Contrasto, 2021), instaurando, fin da subito, una serie di coordinate all’interno delle quali la scrittura fotografica si fa corpo attraverso una dinamica che trascende l’attestazione di realtà o la dinamica memoriale. Emerge, piuttosto, in queste pagine, dalla forma quasi di brevi istantanee, flash, scatti fotografici che oscillano dall’aneddotica alla riflessione, un continua tensione verso un effetto contraddittorio che si esplica nella metafora di Pigmalione e, contemporaneamente, nel suo rovescio: il rapporto soggettivo, finanche fisico, che Guibert istaura con le immagini fotografiche sta a testimoniare di una tensione di vivificazione di ciò su cui lo sguardo si posa (i corpi a cui fare spazio sotto le lenzuola) e, insieme, di un desiderio di bloccare la realtà, farla immagine, osservarla come se fosse (o perché potrebbe essere) una fotografia; o, anche, come surrogato, traslato di un atto interdetto: lo scatto fotografico come sublimazione di un abbraccio, come trasfigurazione di una sessione vissuta «con la potenza sorda di un incesto» (p. 24).

L’immagine fantasma è un testo di difficile definizione, una raccolta di scritti brevi o brevissimi che ruotano tutti attorno a un’‘esperienza’ dell’immagine fotografica, nei registri discorsivi più diversi: in uno spettro che va dal mimetismo dell’articolo di giornale all’appunto sul diario fino al racconto familiare. Il desiderio è il principale prisma percettivo e la mano che guida la scrittura de L’immagine fantasma: la fotografia è «una pratica d’amore» (p. 18), un’emozione, «una forma di possesso meno violenta di un crimine» (p. 116), «un rimpianto» (p. 29), o un atto liberatorio (anche da uno sguardo vincolante, come nel caso del testo eponimo in cui sotto la guida del figlio la madre esce dallo sguardo costrittivo del marito); o ancora può essere il ricordo di un’emozione, che, tuttavia, è in grado di sopravvivere solamente se riattivato dalla scrittura (e infatti, e contro una tradizione consolidata, la fotografia, come atto di memoria, è impossibile). Se non è riappropriata attraverso lo sguardo desiderante della scrittura, l’immagine resta inattingibile: le stesse foto di famiglia, uno dei luoghi più fecondi dell’inventio letteraria almeno da mezzo secolo a questa parte (e che pure lo stesso Guibert ha sfruttato, per esempio in Suzanne et Louise, seppur facendone una storia di fantasmi), non dicono nulla, rimangono estranee, come «per un amnesico» (p. 31). Si dispiegano così le trame del controfattuale, della ricerca di un legame viscerale e erotico con la foto, nelle forme del voyeurismo, dell’eccitazione, dell’angoscia per l’attestazione di una scomparsa che è quella, in primo luogo, della vitalità corporea, della crudeltà della storia della degradazione dei corpi: «l’immagine è l’essenza del desiderio e desessualizzare l’immagine sarebbe ridurla alla teoria» (p. 97). E non si tratta di un desiderio neutrale, le riflessioni e i micro-récits di Guibert recitano il copione di un romanzo di formazione omosessuale: il desiderio incestuoso nei confronti della figura giovanile (e ormai sfiorita) del padre che si mescola alla volontà (simbolica) di uccisione, l’attaccamento alla madre, la pederastia, l’ossessione per i giovani corpi maschili, il voyeurismo, l’attenzione al feticismo (immagini come reliquie seppur conservate in una umile scatola di cartone perché il desiderio, in una linea che dal Vautrin balzachiano passa per Jean Genet fino a arrivare a Walter Siti mescola continuamente banalità, degrado e sublimazione).

Lo sguardo erotico è, inoltre, per Guibert l’attivatore della scrittura, e non è difficile leggere alcune dichiarazioni sul corpo erotico come affermazioni metaletterarie: «Non riesco a soddisfarmi del corpo pornografico poiché non mi offre che cattivi orgasmi, orgasmi rapidi: viene al mio posto. Il corpo erotico è di una buona pasta: posso lavorarlo come voglio, rigirarlo, fargli dire altro rispetto al suo testo, duplicarlo, e lui risponde senza fatica, si stacca dalla carta per riempire la mia testa» (p. 111). Allo stesso modo funziona la scrittura di Guibert su queste immagini assenti: immagini che talvolta il lettore non riesce nemmeno a figurarsi tanto la descrizione è ancorata a questa volontà di rigirare, duplicare, alterare piuttosto che riprodurre. Solo la scrittura può fare i conti con la malinconia che si apre nello spazio psichico dominato dall’immagine, solo la scrittura può riempire i buchi dell’oblio. Non interessa a Guibert l’ekphrasis esatta, non interessa nemmeno la foto come documento, come testimonianza, come attestatrice di vita o di morte (è lontano, in questo senso, sia dal Roland Barthes della Camera chiara, con cui pure intrattiene una relazione di cui dà conto Emanuele Trevi nell’Introduzione all’edizione italiana, sia dal Manifesto Photobiographique di Gilles Mora e Claude Nori). Per Guibert, semmai la fotografia è ‘anche’ un atto di assimilazione, che ha a che fare con qualcosa di osceno che lega desiderio e morte – una sorta di petite mort, per l’appunto (non sarà un caso che la madre, posta davanti all’obiettivo fotografico per un ritratto riacquista la sua bellezza ma è, al contempo, «maestosa, come una regina davanti a un’esecuzione capitale», p. 21).

L’osceno è, forse, un’altra possibile chiave di lettura per questo libro che fa i conti continuamente con l’interdetto, con l’immagine vietata, con quello che la foto non dice, o meglio che dice ‘fra’ l’immagine e lo sguardo, o che evoca nella sua crudele assenza (come quella di una foto non scattata, o meglio scattata «a salve» (p. 23) o di un’immagine impossibile da scattare perché perduta, sfiorita, morta: oscena, di nuovo, sembra la richiesta fatta a Roland Barthes di poter scattare una foto di sua madre malata, richiesta che arriva, fatalmente, il giorno successivo la morte della donna). L’immagine fantasma è, allora, ciò che è assente, non si vede, è quello che è perduto, che è traslucido; ma è anche quello che infesta e spaventa, o fa disperare; quello, infine, che si dispiega nello spazio mentale costruito dallo sguardo per dare consistenza all’impalpabilità dello spettro. Così un vuoto, un istante perduto perché non fotografato diventa «una sorta di movimento inverso al risveglio dopo un incubo: invece di svanire, la sessione-sogno diventava ora nell’assenza di impressione del negativo la realtà di una sessione-incubo» (p. 23). Davanti all’immagine che manca si dispiega un orizzonte apparentemente contraddittorio: una realtà sopravvive, si imprime come forma dell’assenza e occasione di racconto, di scavo nell’io, nella propria disperazione, ossessione, nel proprio desiderio.