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Quella di Sonia Bergamasco, pubblicata recentemente per la collana Gli struzzi di Einaudi, è un’agile autobiografia di circa centotrenta pagine che, fin dal titolo e dal progetto grafico (curato da Ugo Nespolo), mostra una specifica dichiarazione di intenti. Se in copertina si staglia, sullo sfondo bianco caratteristico di Einaudi, la silhouette di un corpo nudo femminile nell’atto di guardarsi allo specchio, il titolo Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice rende ancora più palese il focus del testo.

È infatti il corpo attoriale il perno su cui Bergamasco fa ruotare la sua breve narrazione autobiografica, da un lato, ricordando come il corpo sia lo strumento fondamentale della propria espressione artistica e di quella di qualsiasi attrice o attore, dall’altro, ricostruendo la storia di quello che è diventato, lungo gli anni, il suo corpo d’attrice.

Il testo spicca, se si guarda alle autobiografie delle attrici contemporanee, appunto per il modo assolutamente personale di intendere lo scrivere di sé, ovvero tenendo il racconto biografico saldamente ancorato alla descrizione delle pratiche attoriali. In nessun altro caso, se si eccettuano forse Fiato d’artista di Paola Pitagora (Sellerio, 2001) e La stanza dei gatti di Franca Valeri (Einaudi, 2017), è riscontrabile una tale minuziosa attenzione verso ciò che connota il mestiere di attrice; al punto che Un corpo per tutti sembra rimandare, più che alle recenti scritture del sé delle attrici, alle memorie delle Grandi attrici teatrali come, fra tutte, quelle di Adelaide Ristori.

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«La sera, quando vado a dormire, mi raggomitolo in fondo al letto per fare spazio ai corpi della foto, e parlo loro sotto le lenzuola» (p. 28). Così si conclude Primo amore, il secondo dei brevi testi che compongono L’immagine fantasma di Hervé Guibert (Contrasto, 2021), instaurando, fin da subito, una serie di coordinate all’interno delle quali la scrittura fotografica si fa corpo attraverso una dinamica che trascende l’attestazione di realtà o la dinamica memoriale. Emerge, piuttosto, in queste pagine, dalla forma quasi di brevi istantanee, flash, scatti fotografici che oscillano dall’aneddotica alla riflessione, un continua tensione verso un effetto contraddittorio che si esplica nella metafora di Pigmalione e, contemporaneamente, nel suo rovescio: il rapporto soggettivo, finanche fisico, che Guibert istaura con le immagini fotografiche sta a testimoniare di una tensione di vivificazione di ciò su cui lo sguardo si posa (i corpi a cui fare spazio sotto le lenzuola) e, insieme, di un desiderio di bloccare la realtà, farla immagine, osservarla come se fosse (o perché potrebbe essere) una fotografia; o, anche, come surrogato, traslato di un atto interdetto: lo scatto fotografico come sublimazione di un abbraccio, come trasfigurazione di una sessione vissuta «con la potenza sorda di un incesto» (p. 24).

L’immagine fantasma è un testo di difficile definizione, una raccolta di scritti brevi o brevissimi che ruotano tutti attorno a un’‘esperienza’ dell’immagine fotografica, nei registri discorsivi più diversi: in uno spettro che va dal mimetismo dell’articolo di giornale all’appunto sul diario fino al racconto familiare. Il desiderio è il principale prisma percettivo e la mano che guida la scrittura de L’immagine fantasma: la fotografia è «una pratica d’amore» (p. 18), un’emozione, «una forma di possesso meno violenta di un crimine» (p. 116), «un rimpianto» (p. 29), o un atto liberatorio (anche da uno sguardo vincolante, come nel caso del testo eponimo in cui sotto la guida del figlio la madre esce dallo sguardo costrittivo del marito); o ancora può essere il ricordo di un’emozione, che, tuttavia, è in grado di sopravvivere solamente se riattivato dalla scrittura (e infatti, e contro una tradizione consolidata, la fotografia, come atto di memoria, è impossibile). Se non è riappropriata attraverso lo sguardo desiderante della scrittura, l’immagine resta inattingibile: le stesse foto di famiglia, uno dei luoghi più fecondi dell’inventio letteraria almeno da mezzo secolo a questa parte (e che pure lo stesso Guibert ha sfruttato, per esempio in Suzanne et Louise, seppur facendone una storia di fantasmi), non dicono nulla, rimangono estranee, come «per un amnesico» (p. 31). Si dispiegano così le trame del controfattuale, della ricerca di un legame viscerale e erotico con la foto, nelle forme del voyeurismo, dell’eccitazione, dell’angoscia per l’attestazione di una scomparsa che è quella, in primo luogo, della vitalità corporea, della crudeltà della storia della degradazione dei corpi: «l’immagine è l’essenza del desiderio e desessualizzare l’immagine sarebbe ridurla alla teoria» (p. 97). E non si tratta di un desiderio neutrale, le riflessioni e i micro-récits di Guibert recitano il copione di un romanzo di formazione omosessuale: il desiderio incestuoso nei confronti della figura giovanile (e ormai sfiorita) del padre che si mescola alla volontà (simbolica) di uccisione, l’attaccamento alla madre, la pederastia, l’ossessione per i giovani corpi maschili, il voyeurismo, l’attenzione al feticismo (immagini come reliquie seppur conservate in una umile scatola di cartone perché il desiderio, in una linea che dal Vautrin balzachiano passa per Jean Genet fino a arrivare a Walter Siti mescola continuamente banalità, degrado e sublimazione).

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Abstract: ITA | ENG

Strutturato come dispositivo fototestuale stratificato, che è al contempo reportage di viaggio, narrazione odeporica, racconto fotografico, guida turistica, Tutta la solitudine che meritate, formato dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, è un libro atipico ed eterogeneo in cui scrittura e immagine si combinano e si scombinano reciprocamente, dando vita a un palinsesto intermediale in cui il reale non è solo una dimensione da testimoniare, interpretare e documentare, ma diviene anche oggetto di una puntuale rifigurazione verbale e visiva. Alternando prospettive, sguardi, medium differenti, il libro interroga le possibilità di conoscenza, visione e rappresentazione di uno spazio altro, estremo – l’Islanda – problematizzando le risorse percettive insite nella letteratura e nella fotografia. Il saggio si propone di indagare le diverse modalità espressive, le strategie compositive opposte ma complementari con cui scrittura e immagine, in costante equilibrio tra raffigurazione e risemantizzazione, tra produzione e riproduzione dell’esistente, si approssimano, interagendo internamente, alla realtà circostante tentando di fornire prospettive rinnovate,  significativamente feconde, e nuovi indirizzi di senso e ricerca.

Structured as a layered phototextual device, that is at the same time travel reportage, odeporic narration, photographic narration, tour guide, Tutta la solitudine che meritate, formed by the texts of Claudio Giunta and the photographs of Giovanna Silva, is an atypical and heterogeneous book in which writing and image combine and break down each other, giving life to an intermedial schedule in which the real is not only a dimension to witness, interpret and document, but also becomes the subject of verbal and visual refiguration. Alternating perspectives, looks, different mediums, the book questions the possibilities of knowledge, vision and representation of another, extreme space – Iceland – problematizing the perceptual resources inherent in literature and photography. The essay aims to investigate the different modes of expression, the opposing but complementary compositional strategies with which writing and image, in constant balance between depiction and resemantization, between production and reproduction of the existing, approximate, interacting internally, to the surrounding reality trying to provide renewed perspectives, significantly fruitful, and new directions of meaning and research.

1. Spazi da scrivere

Questo lungo periodo, posizionato a metà di pagina 35, rappresenta una pregnante mise en abyme concettuale di Tutta la solitudine che meritate, volume composto dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, pubblicato nel 2014 nella collana ‘Travel Books’, gestita in cooperazione dalle case editrici Humboldt e Quodlibet. Il periodo summenzionato contiene, infatti, tra le righe il nucleo fondante dell’interrogativo che abita in maniera carsica le pagine e le immagini contenute in questo libro stratificato e composito, che è al contempo reportage di viaggio eterodosso, arguto baedeker, atipico diario iconografico, in cui le diverse sezioni – il racconto odeporico, la sezione fotografica, il dossier letterario, le informazioni pratiche per il viaggio (consigli utili per i voli, gli spostamenti, i pernottamenti, gli approvvigionamenti) – si integrano e si completano traendo sostegno dalla struttura globale dell’opera, in definitiva armonizzante e unitaria. Come indagare narrativamente e visualmente il tempo attraverso lo spazio e lo spazio attraverso il tempo personale del viaggio?

Minaccia, esortazione o – come suggerisce Sabrina Ragucci – «oggettiva condizione della nazione»,[2] il titolo di questo elaborato dispositivo fototestuale non solo esibisce immediatamente le ragioni e le condizioni che popolano le fondamenta dell’esperienza raccontata, ma soprattutto illumina l’aspetto focale che viene messo in gioco quando si parla di Islanda, una nazione con densità abitativa media tra le più basse al mondo: la solitudine e le sue più manifeste declinazioni. Fondato sull’intreccio strutturale, coagulato e coeso, di elementi disparati – non fiction, memorialistica, fotografia, resoconto storico, trattato sul costume, dossier letterario, intervista, mappe –, Tutta la solitudine che meritate è un’opera fortemente intermediale e intertestuale, che fonda la propria ragion d’essere sulla riuscita dialettica interna che ne anima la progressione e ne consente una fruizione ad elastico. Nell’economia del libro testo e immagine si fanno correlativi di un racconto similare ma non sovrapponibile, attuando inevitabilmente strategie compositive differenti e mutevoli. L’alternarsi dualistico di diversi sguardi e punti di vista, in cui s’inserisce nel finale la presenza di ulteriori angolazioni e focalizzazioni – il Dossier Islanda, l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer – mette in gioco e problematizza reiteratamente le tre polarità proprie di ciascun regime scopico – immagine, dispositivo, sguardo –, collaborando a creare un palinsesto eterogeneo in cui ogni acquisizione interna ed esterna al libro è temporanea, relativa, suscettibile d’essere ampliata, contraddetta, obbligata ad essere rimessa in discussione nel prosieguo delle varie parti che si susseguono. La prima sezione, che ha lo stesso nome del libro, è dedicata interamente al resoconto esperienziale del viaggio intrapreso, inframmezzato rapsodicamente da immagini fotografiche (sedici su un totale di settantatré pagine) di piccolo formato, 5cm x 8cm, compendio visivo che puntella il testo e fornisce dimostrazioni iconograficamente fedeli e rispondenti alle constatazioni che il testo effettua nel suo farsi. In questa prima parte del volume le immagini, anche a causa della monocromia imposta dal bianco e nero, emergono di poco rispetto al corpo e alla trama segnica del testo che le circonda, svolgendo perciò un compito prettamente informativo. La storia di Giunta e Silva, la storia del loro viaggio, è un percorso nel macrospazio d’Islanda in cui «la potenza geodetica»[3] del tragitto funge da finestra aperta sul quotidiano dell’estremo Nord, alle propaggini terminali dell’abitabile, un tramite per comprendere i moti che serpeggiano al fondo di una terra che impone innanzitutto di resistere al bisogno intrinseco di socialità che si palesa con intensità e frequenza variabile in ogni essere umano, all’interno di un perimetro geografico che per naturale fisiologia topografica propone una costante verifica della possibilità di fare a meno dell’altro e degli altri. D’altronde, in Islanda il comportamento dell’uomo, ciclico, reiterato in forme pressoché identiche da centinaia di anni e ancora legato a primarie esigenze di sopravvivenza, è frutto di una meccanica ma salvifica coazione a ripetere, capace di autogenerarsi e autosostenersi a prescindere dai segnali spesso impalpabili del divenire esteriore. Qui il tempo, così come il fluire delle stagioni, è sfilacciato, alineare, indistinto e produce effetti meno evidenti sul circostante e sul contingente, tanto che alcuni anfratti così remoti da essere irraggiungibili sopravvivono in una dimensione di apparente astoricità, o per meglio dire, entro una dimensione della temporalità che trascende la storicità umanamente intesa, così come la temporaneità caratteristica degli spazi industrializzati, votati alla produzione e al consumo. La geografia umana e quella territoriale-ambientale sono direttamente proporzionali, ma è la seconda a decidere effettivamente le propaggini caratterizzanti della prima. Se il tempo della lunga durata rimane indifferente, altèro, è destinato a perdere valore ermeneutico e dev’essere perciò esplorato attraverso lo spazio, elemento dalle sottovalutate qualità euristiche che ne veicola le manifestazioni pregnanti nell’avvicendarsi degli ambienti e dei paesaggi. Lo spazio è allora destinato ad assurgere a «ecosistema esistenziale, in cui il soggetto percepisce sé stesso e le relazioni con gli altri che vi abitano».[4] A differenza di quello che accade in gran parte del macrocosmo occidentale, in particolare negli ambienti urbani e metropolitani, dove si progredisce a rapide falcate verso un futuro di luoghi-non-luoghi, sedi «del tempo rettilineo della finitezza autofondata e autofinalizzata»,[5] in Islanda «lo spazio ha un significato esatto»[6] e i paesaggi vuoti – almeno per l’occhio di una persona abituata a ben altre percentuali di consumo di suolo –, omogenei e ripetitivi che lo caratterizzano sono una regola assoluta, un pegno imprescindibile, uno schiaffo inconsapevole alla brama antropomorfica di chi vorrebbe essere sempre posizionato in un luogo potenzialmente razionalizzabile, recettivo, servibile, collegabile opportunamente ad altre forme di vita, riconducibile in fondo a una percezione umanizzante del reale. In un contesto così strutturato, l’umano appare conseguentemente come un’eccezione e la solitudine che l’avvolge e lo accompagna è talmente palpabile, talmente presente da configurarsi non come uno stato emozionale – uno tra i tanti –, bensì come una condizione vincolante e irriducibile. Anche la natura, o almeno le declinazioni naturali a noi più vicine e assimilabili – boschi, foreste, fiori – sono sparute e refrattarie, quasi inesistenti. Ciò che continua a sorprendere Giunta, nonostante il numero dei suoi viaggi sull’isola stia per raggiungere la doppia cifra, è il fatto che «l’oggetto Islanda […] s’impone sui soggetti»,[7] di modo che la superficie elementare, essenziale, che ne riveste l’aspetto esteriore si presta poco a ermeneutiche forzose o coercitive, è poco suscettibile a sovradeterminazioni polisemiche atte a trasformare l’oggetto d’osservazione in simbolo o in allegoria. Non è una natura da idolatrare o alfabetizzare, rifugge gli astrattismi e le appropriazioni indebite. La materia pervadente che riveste spazi dilatati e sempre identici a sé stessi, distese aride e brune in cui nulla è a portata di mano, oppone una strenua resistenza a ogni facile tentativo di trascendenza, a ogni impulso di elevazione spirituale che per una collaudata quanto mistificante osmosi dovrebbe verificarsi senza eccezione in luoghi impervi e desolati. Giunta opera, assecondando un movimento antinomico a quello che percorre solitamente la letteratura di viaggio, una consapevole e puntuale operazione di demitologizzazione e defeticizzazione dei luoghi raccontati, li emancipa dalla «topografia dell’immaginario»,[8] per restituire loro, a costo di apparire prosastico, una verità altra, fattuale, decongestionata. Sembra che la prosa di Giunta, mai concettosa e sempre divertita, a tratti caustica, sostenuta da un registro piano e colloquiale che non lesina apostrofi dirette al lettore, tenda proprio a voler smorzare l’idealizzazione romantica e artificiosa che storicamente connette – almeno dal periodo del ‘sublime’ romantico in poi – in maniera stringente luoghi brulli, solitari, estremi, a pensieri profondi, sofferti e a intensi e proficui momenti di riflessività. L’afflato antilirico, anti-idillico e disincantato che sorregge e sostanzia il racconto-conversazione di Giunta è utile poi ad allargare l’indirizzo precipuo del narrato ad altre componenti argomentative che si accostano al flusso principale a mo’ di reticolo alveolare, come ad esempio i passaggi dal sapore trattatistico-documentario incentrati sulle manifestazioni più tipiche del turismo in salsa islandese e sulle costanti sociali e folkloristiche che scandiscono il rapporto tra stranieri e autoctoni, i brani analettici che rievocano viaggi precedenti e istituiscono un altalenante dialogo intratestuale e comparativo tra presente e passato, anacronie minime utili a rimarcare le divergenze sviluppatesi e ad estendere la prospettiva dello scrivente e del lettore, o le considerazioni personali che incrementano la presenza e la voce autoriale. Inoltre, le intersezioni di carattere ricognitivo storico-politico – indice primario e maggiormente riscontrabile di una tendenza diffusa alle digressioni e all’aneddotica –, non solo rispondono alla funzione di contestualizzare e tratteggiare un approssimativo quadro informativo, ma altresì arricchiscono il sostrato narrativo, ampliandone il portato e intensificandone l’interesse. I brevi intermezzi lirici – Rilke, Sereni, Borges – fungono invece da contraltare denotativo, dunque rivelatorio di una sensibilità acuitasi di fronte a certe persone, luoghi, eventi, alla scrittura piana e orizzontale di Giunta, attento, come già accennato, a evitare patetismi e a non scadere nel sentimentalismo retorico in cui rischia di rimanere irretito nel descrivere le toccanti vicende che si celano dietro le vite sorprendenti degli interlocutori con cui entra in contatto. Del resto, uno dei fenomeni più frequenti che pare innescarsi durante la visita o il soggiorno in Islanda è uno sfasamento profondo della percezione e dello sguardo, una sproporzione tra ciò che ci si immagina e la realtà tangibile. Entro le spire di un’atmosfera sospesa e rarefatta, quello che appare allo sguardo interpretante dello straniero, abituato a determinati sistemi di pensiero e valutazione, non è ciò che realmente è; il processo attivo nel soggetto percipiente, dal momento che percepire è «sempre percepire da un qualche programma d’azione all’interno di un mondo che è già fortemente intriso di valore per chi lo abita»,[9] tende a confondere, a corrompere e a trasfigurare il noumeno, lo scheletro fondante del percepito, assegnandogli significati impropri e imprecisi. È l’uomo ad applicare alla fenomenologia del reale un consolidato canone di bellezza, a decriptare i segni dell’altro da sé attraverso un pregresso bagaglio di conoscenze e mediante il filtro del proprio immaginario. La cognizione di tutto ciò che si pone al di fuori deriva dal filtraggio continuativo introdotto dalle nostre categorie di interpretazione e riflessione, dalle nostre articolate tassonomie e ingegnose casistiche, eppure, da secoli l’Islanda pare soprassedere agli assalti, alle catalogazioni, alle mode passeggere. In Islanda l’uomo acquisisce chiara consapevolezza del proprio fallimento, il fallimento di non poter essere altro che sé stesso e di non poter possedere nient’altro rispetto a quello che possiede già. L’isola decentralizza l’uomo, lo marginalizza, lo allontana dalla cabina di comando a cui è ancorato e lo restituisce alla sua esiguità, alla sua caducità. La natura in Islanda è un sostitutivo ‘logico’ delle forme artistiche, storicamente latenti in un paese che non ha mai avuto un ceto aristocratico o alto borghese che potesse permettersi un’esistenza dedita all’arte e al mecenatismo. Essa appare magnificente e intimorente, ma ciò che davvero la declina e la trasfigura, mutandone l’aspetto e la fisionomia, è la luce, una luce che scolpisce e influenza l’osservazione esterna, ne orienta il sentimento e ne estende il momento dell’appercezione. Il paesaggio in Islanda, luogo in cui la morte e la privazione sono elementi storicamente ordinari, parla un linguaggio muto, capace però di determinare l’umore di chi lo guarda e lo attraversa, decretandone gli apici e le svolte improvvise. Per questo motivo, per non dipendere eccessivamente da un clima né amico né nemico, che conduce l’essere umano a riconsiderare le virtù insite nel limite e nella stasi, a raggiungere l’apogeo della frugalità, è necessario coltivare l’interiorità, ispessire il proprio baricentro intimo, le proprie risorse caratteriali. Giunta si sofferma a più riprese sulla paradossale seduzione esercitata dal monotono, dal ripetitivo, una seduzione espressiva che trasla dal piano tematico a quello formale mediante i vuoti, le espunzioni del discorso intrapreso e non attraverso i pieni, le forzature illustrative e conative. In un mondo socializzato e aperto, globalizzato e interconnesso, in cui ogni fenomeno pretende d’essere significativo e di destare attenzione, le parole di Giunta, sovraesponendo fedelmente la dignità dell’ordinario, costituiscono un sincero e sentito elogio del marginale, del contro-egemonico, dell’antiestetico, del normale. Il Dossier Islanda che segue la sezione iconografica è un innesto ibrido, di carattere letterario, costituito da tre microaree: un commento critico a Gente indipendente (1935) di Halldór Laxness (premio Nobel per la letteratura nel 1955), un commento critico a Letters from Iceland (1937) di W. H. Auden e al libro eponimo di Jean Young, e infine l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer, artista svizzero particolarmente legato all’Islanda. Questa sezione aggiuntiva permette non solo di gettare nuova luce, con la relativa dose di paragoni e differenziazioni, sul passato della terra islandese, ma anche di estendere e impreziosire il ventaglio di lettura, conoscenze e discernimento. Rappresenta, inoltre, una modalità comparativa di attraversamento del reale che si avvale della sonda letteraria e artistica, spesso capace di rivelare ciò che la realtà medesima tende a nascondere.

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Il cinema underground europeo sta tentando di organizzare la propria

distribuzione internazionale, tenendo presenti i principi di autonomia e

libertà che lo oppongono al cinema commerciale. 

Quei principi  rappresentano la sua ideologia fondamentale,

cioè non farsi strumento di un sistema,

non adattarsi a un gusto e a un consumo.

Anna Lajolo

 

1. Contesto e profilo

Cinema underground, sotterraneo; fisiologicamente indipendente e quindi non ascrivibile ai circuiti ufficiali della visibilità.

‘Commerciale’ era infatti un termine che stonava; non piaceva a nessuno dei cineasti confluiti, nel novembre del 1968, a Monaco di Baviera, per il primo convegno del cinema indipendente europeo: sei giorni di taglio festivaliero, con discussioni e proiezioni quotidiane, dove «i rappresentanti delle cooperative e gruppi dei diversi paesi hanno discusso la possibilità di creare un centro europeo, una supercooperativa di distribuzione» a favore della circolazione di «film meno richiesti, ma non meno importanti».

È Anna Lajolo, a cui appartengono il virgolettato e la citazione di apertura, a sintetizzare in un articolo intitolato Il cinema sotterraneo europeo alla ricerca di un’intesa – pubblicato su «L’Unità» il 22 novembre 1968 – quanto esposto in quella occasione dai filmmaker italiani, intervenuti al grande raduno di Monaco in rappresentanza della propria struttura di appartenenza, la Cooperativa Cinema Indipendente, CCI, fondata a Napoli l’anno precedente e a sua volta parte di un contesto comunitario più ampio. Nell’arco degli anni Sessanta, infatti, sulla scia di una controcultura libera, anarchica e rivoluzionaria – già affermatasi negli Stati Uniti nel decennio precedente –, nel continente europeo, Italia compresa, aveva iniziato a diffondersi a macchia d’olio una «internazionale poetica e protestataria» – come avrebbe potuto definirla Gianni Toti (l’espressione è sua ed è stata da lui usata nel 1967 in riferimento alla diffusione del fenomeno della poesia sotterranea) – che univa esigenze anticonformiste e antisistema in ambito letterario, teatrale, visivo e, appunto, anche cinematografico e audiovisivo.

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Abstract: ITA | ENG

Nella città l’inferno di Renato Castellani rappresenta dal punto di vista della performance un caso di collaborazione a quattro mani tra la sceneggiatrice, Suso Cecchi D’Amico, e l’attrice, Anna Magnani; con la messa a punto del personaggio di Egle, l’istrionica detenuta del carcere delle Mantellate interpretata dall’attrice. Il contributo prenderà in analisi alcune scene delle due stesure delle sceneggiature, conservate presso il fondo Castellani del Museo Nazionale del Cinema, in cui il lavoro di scrittura dell’una per l’altra sottende da un lato una profonda conoscenza della Magnani, andando oltre lo stereotipo, e dall’altro una sicurezza avvalorata dalla profonda amicizia che legava le due donne, che ha permesso alla Magnani di valorizzare le potenzialità del suo lavoro attoriale, qui giocato sulla capacità di inserirsi nella scrittura della D’Amico potenziando la performance con l’assoluta padronanza della scena e l’uso dell’idioletto che contraddistingue il personaggio di Egle. 

…and the Wild Wild Women by Renato Castellani represented a case of collaboration between the screenplay and the performance as the result of the deep knowledge and friendship that connected the screenwriter, Suso Cecchi D’Amico, and the performer, Anna Magnani, that is flown into Egle’s character. The proposal is going to analyze some scenes of the two scripts, stored in the Castellani’s archive collection at the National Museum of Cinema, where this collaboration emerges and promoting and strengthening Magnani’s performance. 

 

 

 

Le parole di Suso Cecchi D’Amico poste in esergo offrono un ritratto di Anna Magnani in cui la lucida obiettività di talune affermazioni («non era bella […] le gambe erano magre e leggermente storte […]») viene del tutto sopravanzata dal tono poetico e immaginifico della descrizione («spesso cupa come il suo cane lupo color dell’ebano […]»), e dal suo chiudersi sull’improvviso emergere di tratti di splendore («aveva un décolleté splendido, come pure lo erano le mani e i piedi […]»), sino alla resa incondizionata di fronte al suo fascino («Dovunque entrasse in scena, non guardavi altri che lei»). Un ritratto delineato da parte di qualcuno che proprio scrivendo per lei, in qualche modo Ê»di leiʼ, aveva sviluppato con l’attrice e la donna un rapporto di profonda intesa e amicizia, durato molti anni e rievocato in numerose occasioni. Un’amicizia fatta di fiducia, in particolare da parte della Magnani nei confronti di Suso, che confidava nella scrittura della sceneggiatrice, avvertendola rispettosa della sua personalità più che dello stereotipato personaggio Ê»Magnaniʼ e, soprattutto, delle sue qualità di attrice, spesso previste, anticipate, ma mai imposte nei ruoli scritti per lei; una collaborazione che inizia con L’Onorevole Angelina (L. Zampa, 1947) e prosegue con Bellissima (L. Visconti, 1951), Camicie rosse (G. Alessandrini, 1952), l’episodio Anna Magnani (L. Visconti, 1953) in Siamo donne, Nella città l’inferno, di cui si parlerà in questo contributo, e che si conclude con Risate di gioia (M. Monicelli, 1960). Ma se sono note le tappe di un rapporto che conosce una fase calante proprio in concomitanza con l’ultimo film di Monicelli, e che si nutre del sodalizio artistico ma anche di quello umano (con la Magnani che coinvolge l’amica nelle sue crisi sentimentali, nelle incomprensioni con i registi, nelle sue partenze – quella per l’America –, nelle sue Ê»ruzzeʼ notturne), non sempre sono state osservate nel dettaglio le relazioni tra la scrittura dell’una per l’altra, e la performance dell’attrice.

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Come un fusibile – la cui umile funzione consiste nel fondersi prima dell’intero circuito e, così facendo, avvertire della possibilità imminente di un guasto irreparabile – sta a un’autovettura, così la narrazione della breve spedizione dello scrittore catalano Vila-Matas a Kassel per prendere parte a Documenta 13 sta all’arguta e pervadente riflessione che egli ha condotto sull’avanguardia artistica e letteraria, colta nei suoi tentacolari aspetti sensoriali e performativi. La domanda che percorre l’intero romanzo (Feltrinelli, 2015) – autobiografico quanto un mcguffin – è assolutamente incentrata sull’esistenza o meno nel nuovo millennio di un’arte d’avanguardia. L’atteggiamento con cui in partenza Vila-Matas mette a dura prova la resistenza del suo fusibile partecipando alla collettiva tedesca è di sospensione del giudizio: prende parimenti le distanze sia da quanti ridono dell’arte contemporanea «proclamando con fatalismo ogni due per tre che per l’arte viviamo in un tempo morto» e, dunque, evitando di cimentarsi in opere di innovazione per timore di fallire; sia dagli artisti contemporanei che si autodefiniscono d’avanguardia e rischiano piuttosto di essere soltanto una mera «combriccola di ingenui, di sprovveduti che non si accorgono di niente, collaboratori del potere che nemmeno si rendono conto di esserlo».

Lo scrittore all’interno del romanzo si fa ‘opera’, dando corpo a un’installazione in cui finge di scrivere seduto al tavolino di un ristorante cinese. Attraverso tale simulazione intende certamente allontanare da sé ogni pregiudizio sull’arte del suo tempo proprio negli stessi anni in cui il dato biografico rivela il suo tentativo di rendere la scrittura meno ossessionata dalla letteratura grazie al confronto e allo scambio con le altre arti – siano esse i linguaggi della visione o la performance. In tale direzione del resto va inquadrata l’avventura del racconto Porqué ella no lo pidió, scritto da Vila-Matas per essere vissuto da Sophie Calle, e poi pubblicato in Italia in Esploratori dell’abisso (Feltrinelli, 2011).

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