Enrique Vila-Matas, Kassel non invita alla logica

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

Come un fusibile – la cui umile funzione consiste nel fondersi prima dell’intero circuito e, così facendo, avvertire della possibilità imminente di un guasto irreparabile – sta a un’autovettura, così la narrazione della breve spedizione dello scrittore catalano Vila-Matas a Kassel per prendere parte a Documenta 13 sta all’arguta e pervadente riflessione che egli ha condotto sull’avanguardia artistica e letteraria, colta nei suoi tentacolari aspetti sensoriali e performativi. La domanda che percorre l’intero romanzo (Feltrinelli, 2015) – autobiografico quanto un mcguffin – è assolutamente incentrata sull’esistenza o meno nel nuovo millennio di un’arte d’avanguardia. L’atteggiamento con cui in partenza Vila-Matas mette a dura prova la resistenza del suo fusibile partecipando alla collettiva tedesca è di sospensione del giudizio: prende parimenti le distanze sia da quanti ridono dell’arte contemporanea «proclamando con fatalismo ogni due per tre che per l’arte viviamo in un tempo morto» e, dunque, evitando di cimentarsi in opere di innovazione per timore di fallire; sia dagli artisti contemporanei che si autodefiniscono d’avanguardia e rischiano piuttosto di essere soltanto una mera «combriccola di ingenui, di sprovveduti che non si accorgono di niente, collaboratori del potere che nemmeno si rendono conto di esserlo».

Lo scrittore all’interno del romanzo si fa ‘opera’, dando corpo a un’installazione in cui finge di scrivere seduto al tavolino di un ristorante cinese. Attraverso tale simulazione intende certamente allontanare da sé ogni pregiudizio sull’arte del suo tempo proprio negli stessi anni in cui il dato biografico rivela il suo tentativo di rendere la scrittura meno ossessionata dalla letteratura grazie al confronto e allo scambio con le altre arti – siano esse i linguaggi della visione o la performance. In tale direzione del resto va inquadrata l’avventura del racconto Porqué ella no lo pidió, scritto da Vila-Matas per essere vissuto da Sophie Calle, e poi pubblicato in Italia in Esploratori dell’abisso (Feltrinelli, 2011).

 Tino Sehgal, This Variation, 2012, Documenta 13 Pierre Huyghe, Untitled, 2012, Documenta 13

E così, con una spumeggiante riflessione che non sa, o non può, tenersi debitamente lontana dall’ennesima teorizzazione delle derive/derivazioni di carattere duchampiano, Vila-Matas attraversa il buio parlato di Tino Sehgal, la corrente d’aria di Ryan Gandner, il binario sonoro di Susan Philipsz, l’humus fermentato di Pierre Huyghe, avvertendo il vertiginoso e inarrestabile scorrere della biglia sul piano inclinato della storia mentre si allontana sempre più dalla volontà primigenia di Arnold Bode (fondatore nel 1955 della prima Documenta) di «avvicinare finalmente l’arte agli operai». E ciononostante, intraprende fisicamente, narrativamente, spiritualmente l’impervia traiettoria della grande mostra d’arte per dimostrare, anzitutto a se stesso prima che ai lettori, che la creazione contemporanea non è soltanto «teoria camuffata da opera», ma è il tentativo di riscattare l’arte da ogni sedicente stallo, anche se questo significa rompere con l’idea classica di bellezza, o, anzi, forse proprio grazie a questa intrinseca possibilità. Si rende conto lo scrittore non soltanto che il fusibile – per continuare la nostra metafora – può avere un valore funzionale di per sé, ma che se si sposta lo sguardo dall’insieme diventa esso stesso motore generante, perché in grado di rispondere all’anelito dell’essere umano di cercare quello che ancora non si vede. Questo nucleo della riflessione sull’arte diventa nel romanzo epicentro narrativo, perché mentre accompagniamo lo scrittore nelle sue passeggiate speculative, che lo fanno perdere a Kassel e dentro le installazioni, assistiamo alla genesi delle sue risposte che prendono forma dai movimenti ecfrastici con cui narra le opere d’arte: nello stesso tempo si impegna a creare un suo doppio che meglio sa accomodarsi nei panni del finto scrittore da interpretare al ristorante cinese. Il romanzo dunque non si limita a raccontare un viaggio e a ‘mostrare’ delle opere che accadono, ma lascia anche intravedere le ironiche e malinconiche pieghe autobiografiche dell’uomo e ci conduce all’interno del personale laboratorio dello scrittore; crea personaggi reali con cui dibattere (in primis gli stessi organizzatori di Documenta 13) e si arrende alla presenza di un doppio in grado di non smarrirsi dentro la magniloquenza dell’arte contemporanea.

E però il centro magnetico del discorso narrativo di Vila-Matas non si concede facilmente al lettore, anzi si avviluppa intorno a complesse questioni che hanno a che fare col centro e la periferia dell’arte, col primato del poiein o delle idee, con il dentro e con il fuori, con l’accumulazione dei dettagli della realtà che allontanano progressivamente, nelle arti visive come nella letteratura, dalla verità e con la verità da scovare nella finzione, con l’arte che accade come la vita e con la vita che accade come l’arte, con i fili nascosti che possono o non possono legare Duchamp a Manet o Dalì a Giorgione, con le questioni estetiche e con le questioni conoscitive. E se tutto questo viene speso dall’autore – e qualche volta generosamente sperperato – a favore di un intricato dedalo di ‘narrazione visiva’, è solo per giungere ad indicare al lettore una sua ipotesi divenuta assioma: l’urgenza dell’arte di ogni tempo corrisponde infine all’umana necessità di «intensificare la sensazione di essere vivi».