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Il presente contributo intende centrare l’analisi sulla ‘funzione’ del libro nell’opera di Isgrò, con sondaggi relativi alla sua produzione narrativa. In particolare sarà preso in considerazione un campione ristretto di ‘pubblicazioni’ che si collocano nell’arco temporale di un decennio e che presentano, almeno esteriormente, le caratteristiche del più letterario dei generi, ovvero il romanzo. Mi riferisco al “romanzo elementare” Il Cristo cancellatore (1968), edito in quattro fascicoletti dalle Edizioni Apollinaire (1968), a L’avventurosa vita di Emilio Isgrò (il Formichiere 1975), provocatoriamente candidato al Premio Strega, e infine al romanzo “storico” Marta de Rogatiis Johnson (Feltrinelli 1977). Si tratta di tre “prodotti editoriali” diversi – il libro d’artista con cancellature nel primo caso, l’installazione in galleria nel secondo, il “tradizionale” romanzo nel terzo - che volutamente mettono in discussione sia la forma e la funzione del libro, che gli statuti canonici della narrazione (l’autore e l’intreccio), attraverso la tecnica dello straniamento e del distanziamento epico, intesi come modalità di riflessione critica sulla realtà e sulla funzione dell’arte all’interno della società.

This article proposes an analysis about the "function" of the book in Isgrò's work, with surveys relating to his narrative production. In particular, a small sample of "publications" falling within the time frame of a decade and presenting, at least outwardly, the characteristics of the most literary genre, the novel, will be considered. I refer to the "elementary novel" Il Cristo cancellatore (1968), published in four booklets by Edizioni Apollinaire (1968), to L'avventurosa vita di Emilio Isgrò (il Formichiere 1975), provocatively nominated for the Strega Award, and finally to the “historical” novel Marta de Rogatiis Johnson (Feltrinelli 1977). These are three different "editorial products" - the artist's book with erasure marks in the first case, the gallery installation in the second one, the "traditional" novel in the third one - which deliberately question both the form and function of the book and the canonical statutes of narration (the author and the plot), through the techniques of estrangement and epic distancing, intended as a way to critically ponder on the reality and the function of the Art within society.

 

 

Così Emilio Isgrò, nel suo intervento al convegno Il libro d’artista in Italia dal 1960 ad oggi (Biblioteca civica d’arte Luigi Poletti, Modena, 13 aprile 2000)[1]

descrive la rivoluzione copernicana che interessa il libro dalle avanguardie storiche sino a tutto il Novecento, e che ne modifica profondamente la struttura, la funzione, la diffusione, ma soprattutto – come denuncia la locuzione prescelta da Isgrò, librodartista – unisce senza soluzione di continuità il versante linguistico a quello più propriamente artistico, dando luogo ad un oggetto ‘ibrido’ nel quale i diversi codici interagiscono tra loro.

Nella seconda metà del secolo, dagli anni Sessanta in poi, in Italia si hanno numerosi esperimenti del genere che spesso sconfinano in imprese editoriali-artistiche ai margini del mercato, anzi in aperta contestazione con i canali ufficiali del prodotto artistico (l’editoria e le gallerie), e che vanno a delineare un’ampia zona di ‘esoeditoria’ nella quale convergono esperienze di vario genere, riconducibili all’ampia galassia della poesia verbovisiva, e dell’arte concettuale.[2] Il primo appuntamento italiano di livello internazionale dedicato a questo particolare tipo di ‘pubblicazioni’ è la sezione Il libro come luogo di ricerca, curata all’interno della XXXVI Biennale di Venezia da Renato Barilli e Daniela Palazzoli, con opere relative al biennio ’60-’70 di artisti «che hanno instaurato un rapporto nuovo con il libro»,[3] tra cui Vincenzo Agnetti, Robert Kosuth, Giulio Paolini, Franco Vaccari, Vincenzo Accame, Nanni Balestrini, William Burroughs, Sebastiano Vassalli, Cesare Zavattini, e lo stesso Isgrò. Nel medesimo anno Daniela Palazzoli inaugura nel mese di giugno, nello spazio L’uomo e l’arte di Milano, la mostra I denti del drago – le trasformazioni del libro nell’era di Gutenberg, che da Mallarmé in poi individua una linea di sperimentazione sulla forma libro, con esperienze che mescolano pagine d’artista, poesia visiva, libri e libri-oggetto. La partecipazione di Isgrò a entrambe le mostre con un’opera ‘concettuale’ (e si usa il termine con tutte le cautele del caso) come l’Enciclopedia Treccani, esposta per la prima volta nel 1970 presso la Galleria di Arturo Schwarz, rivela soltanto uno dei plurimi aspetti della sperimentazione sul libro portata avanti dal poeta-artista, che, in un lasso di tempo abbastanza ristretto, si muove contemporaneamente sia sul versante strettamente letterario – ad esempio con la raccolta di poesie lineari L’età della ginnastica[4] – che sul versante più radicale della negazione della parola e del libro, con le celebri cancellature.[5] E però i due aspetti non sono tra loro contrapposti, ma in rapporto dialettico all’interno di un percorso che ha al suo centro l’indagine della parola e delle sue potenzialità di significazione in rapporto al mondo, attraverso una ricerca artistico-letteraria serrata che comprende sia la momentanea ‘copertura’ della parola – come un ‘seme’[6] in attesa di germogliare – sia la libera combinazione in strutture poetiche e narrative nuove. Così il libro diviene di volta in volta ‘supporto’ tradizionale per ardite sperimentazioni linguistico-letterarie, e oggetto estetico, esposto in galleria alla stregua di un prodotto artistico, come il quadro, l’installazione, la scultura.

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Il Manifesto 1985, ideato dal critico Enrico Cocuccioni, è un video di quasi cinque minuti dedicato alla computer art. Nato come testo critico dal linguaggio fortemente allegorico, è stato dapprima tradotto in uno storyboard e poi trasformato in un video, usando le stesse tecnologie a cui esso è dedicato. Realizzato nel centro di produzione video più all’avanguardia nell’Italia degli anni Ottanta, la SBP CGE, il video affronta il problema della rappresentazione artistica nel panorama delle comunicazioni di massa e dei nuovi media. Il saggio analizza il passaggio dal testo scritto al linguaggio dinamico del video, interrogandosi sulla trasformazione del genere letterario del manifesto da parte delle tecnologie digitali. Attraverso altri esempi, riflette inoltre sul recupero del manifesto programmatico, un tipo di testo ampiamente usato dai movimenti d’avanguardia e molto raro negli anni Ottanta. 

Manifesto 1985, conceived by the critic Enrico Cocuccioni, is an almost five minutes video devoted to computer art. Born as a critical text with a deeply allegorical language, it was first translated into a storyboard and then it became a video, made with the same technology that it deals with. Realized in the most innovative Italian video production centre of the Eighties (SBP CGE), the video deals with the problem of the artistic representation in the landscape of mass communication and new media. The paper analyses the passage from written text to the dynamic language of video as well as the transformation of the manifesto as a literary genre by digital technologies. Through other examples, it also reflects on the rehabilitation of the programmatic manifesto, a kind of text extensively used by the avant-garde movements and very rare during the Eighties.

 

1. Tra testo e immagini.

Il 30 marzo 1985 il Lavatoio Contumaciale di Roma ospita il dibattito La critica dell’arte: confronti, a cura di Filiberto Menna e Lamberto Pignotti.[1] In questa occasione Enrico Cocuccioni presenta il Manifesto critico. L’arte tra videostasi e neosofia, un testo con cui annuncia un’arte che non può solo ripiegare sul passato, ma deve aprirsi alle nuove tecnologie.[2] Sebbene non vi sia un esplicito riferimento, dal testo si evince un’allusione alla scena artistica che in quegli anni stava prendendo forma attorno all’uso del computer e di cui Cocuccioni in Italia è tra i primi a occuparsi in qualità di critico.[3] Lo scritto sarà poi tradotto in uno storyboard con una piccola variazione nel titolo (Manifesto 1985. L’arte tra videostasi e neosofia), corredato da puntuali e lunghe didascalie, in previsione di una sua traduzione in video.[4] Qualche mese più tardi è in questa nuova forma visiva e dinamica che sarà presentato al VideoArt Festival di Locarno (3 – 7 agosto 1985), privo del sottotitolo L’arte tra videostasi e neosofia e accompagnato da un nuovo testo intitolato Un manifesto critico in videoclip.[5] Come spiegato da Cocuccioni in quest’intervento, il video è frutto di una rielaborazione del manifesto teorico e intende «evocare, in forma sintetica e metaforica, quasi con un linguaggio da spot pubblicitario, l’attuale condizione storica dell’arte in rapporto alla nuova realtà tecnologica».[6]

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L’industria ha dato dunque il colpo di grazia all’avanguardia imbalsamandola poi ad uso e consumo della massa. Con l’aria che spira non mi sembra affatto azzardato affermare che descrivere la situazione dell’arte d’oggi è descrivere la situazione dell’arte “dopo l’avanguardia”. La prospettiva che si apre dinanzi all’artista è dunque quella del superamento dell’avanguardia, superamento che si preannuncia nel segno della razionalità e della comunicazione.

Lamberto Pignotti, intervento al convegno Arte e Comunicazione (Firenze, 24 maggio 1963)

 

 

Nel 2013, cinquant’anni dopo la fondazione del Gruppo 70 – avvenuta allo storico incontro fiorentino Arte e comunicazione, nel maggio del 1963 –, un convegno, un’esposizione e poi un volume hanno ripercorso quell’esperienza all’interno del panorama di allora, nell’ambito di una più ampia ricerca sulle interrelazioni tra parola e immagine nel secondo Novecento italiano e fino al 2012 (www.verbapicta.it). Articolato in cinque sezioni, oltre a quella introduttiva, La poesia in immagine / L’immagine in poesia, curato da Teresa Spignoli, Marco Corsi, Federico Fastelli e Maria Carla Papini (Pasian di Prato [Udine], Campanotto, 2014), reca in copertina un’immagine che ben rappresenta la propensione multimediale e interdisciplinare del Gruppo in questione: si tratta di uno scatto dall’happening Poesia e no 3, messo in scena nel 1965 dai poeti Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini e Lucia Marcucci, assieme agli artisti Antonio Bueno ed Emilio Isgrò, fra i principali protagonisti di quella breve ma intensa stagione creativa, le cui valenze ed eredità solo negli ultimi anni si è cominciato a vagliare in modo più sistematico.

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Come un fusibile – la cui umile funzione consiste nel fondersi prima dell’intero circuito e, così facendo, avvertire della possibilità imminente di un guasto irreparabile – sta a un’autovettura, così la narrazione della breve spedizione dello scrittore catalano Vila-Matas a Kassel per prendere parte a Documenta 13 sta all’arguta e pervadente riflessione che egli ha condotto sull’avanguardia artistica e letteraria, colta nei suoi tentacolari aspetti sensoriali e performativi. La domanda che percorre l’intero romanzo (Feltrinelli, 2015) – autobiografico quanto un mcguffin – è assolutamente incentrata sull’esistenza o meno nel nuovo millennio di un’arte d’avanguardia. L’atteggiamento con cui in partenza Vila-Matas mette a dura prova la resistenza del suo fusibile partecipando alla collettiva tedesca è di sospensione del giudizio: prende parimenti le distanze sia da quanti ridono dell’arte contemporanea «proclamando con fatalismo ogni due per tre che per l’arte viviamo in un tempo morto» e, dunque, evitando di cimentarsi in opere di innovazione per timore di fallire; sia dagli artisti contemporanei che si autodefiniscono d’avanguardia e rischiano piuttosto di essere soltanto una mera «combriccola di ingenui, di sprovveduti che non si accorgono di niente, collaboratori del potere che nemmeno si rendono conto di esserlo».

Lo scrittore all’interno del romanzo si fa ‘opera’, dando corpo a un’installazione in cui finge di scrivere seduto al tavolino di un ristorante cinese. Attraverso tale simulazione intende certamente allontanare da sé ogni pregiudizio sull’arte del suo tempo proprio negli stessi anni in cui il dato biografico rivela il suo tentativo di rendere la scrittura meno ossessionata dalla letteratura grazie al confronto e allo scambio con le altre arti – siano esse i linguaggi della visione o la performance. In tale direzione del resto va inquadrata l’avventura del racconto Porqué ella no lo pidió, scritto da Vila-Matas per essere vissuto da Sophie Calle, e poi pubblicato in Italia in Esploratori dell’abisso (Feltrinelli, 2011).

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