Giuliana Cunéaz (Aosta, 1959) è un’artista del tutto originale nel panorama delle arti elettroniche e digitali (viene definita media artist) italiane. Il nucleo forte del suo lavoro è caratterizzato dal dialogo e dal confronto con la scienza, intesa sia come apporto di riflessioni e cambiamento dei paradigmi del nostro pensare, sia – e forse soprattutto – come inarrestabile bellezza e suggestione evocativa delle immagini scientifiche, rivisitate e ricreate grazie alle ultime tecnologie digitali, fino al 3D e al virtuale. Definirla media artist è riduttivo, in quanto il suo lavoro – dagli esordi nei primi anni Ottanta – prende le mosse da studi artistici (Accademia di Belle Arti di Torino) ed è segnato dalla commistione di nuove tecnologie e di oggetti e di materiali che esulano da quest’ambito: la luce, innanzitutto (in dialogo con l’ombra), ma anche pietra, polvere dorata, carta, marmo, ferro, coni riflettenti. Questo dialogo si esprime in alcune opere anche attraverso un più ampio richiamo a figure e a temi del passato, che affiorano dal mito e dalla leggenda. Ad esempio, nell’installazione Il silenzio delle fate (1990). Qui, mi scrive Giuliana Cunéaz, «affronto, attraverso lo studio delle leggende legate al territorio della Valle d'Aosta, la natura misteriosa e inquietante di queste creature femminili (spesso capricciose, vanitose e irascibili) in relazione al nostro immaginario e ai luoghi. Le fate, figure sempre in bilico tra l’immateriale e l’umano, sono indubbiamente emanazioni della natura. È interessante notare, (sempre attraverso le leggende) come dietro alla bellezza e al fascino spesso nascondono una deformità (piede caprino o coda d’asino) che cercano di mascherare. Un altro aspetto è l’innamoramento verso un essere umano che generalmente poi le abbandona lasciandole nella disperazione o anche come possano partorire solo orchi che cercano di sostituire con bimbi rapendoli in fasce nelle culle...» (Cunéaz 2021).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

Il Manifesto 1985, ideato dal critico Enrico Cocuccioni, è un video di quasi cinque minuti dedicato alla computer art. Nato come testo critico dal linguaggio fortemente allegorico, è stato dapprima tradotto in uno storyboard e poi trasformato in un video, usando le stesse tecnologie a cui esso è dedicato. Realizzato nel centro di produzione video più all’avanguardia nell’Italia degli anni Ottanta, la SBP CGE, il video affronta il problema della rappresentazione artistica nel panorama delle comunicazioni di massa e dei nuovi media. Il saggio analizza il passaggio dal testo scritto al linguaggio dinamico del video, interrogandosi sulla trasformazione del genere letterario del manifesto da parte delle tecnologie digitali. Attraverso altri esempi, riflette inoltre sul recupero del manifesto programmatico, un tipo di testo ampiamente usato dai movimenti d’avanguardia e molto raro negli anni Ottanta. 

Manifesto 1985, conceived by the critic Enrico Cocuccioni, is an almost five minutes video devoted to computer art. Born as a critical text with a deeply allegorical language, it was first translated into a storyboard and then it became a video, made with the same technology that it deals with. Realized in the most innovative Italian video production centre of the Eighties (SBP CGE), the video deals with the problem of the artistic representation in the landscape of mass communication and new media. The paper analyses the passage from written text to the dynamic language of video as well as the transformation of the manifesto as a literary genre by digital technologies. Through other examples, it also reflects on the rehabilitation of the programmatic manifesto, a kind of text extensively used by the avant-garde movements and very rare during the Eighties.

 

1. Tra testo e immagini.

Il 30 marzo 1985 il Lavatoio Contumaciale di Roma ospita il dibattito La critica dell’arte: confronti, a cura di Filiberto Menna e Lamberto Pignotti.[1] In questa occasione Enrico Cocuccioni presenta il Manifesto critico. L’arte tra videostasi e neosofia, un testo con cui annuncia un’arte che non può solo ripiegare sul passato, ma deve aprirsi alle nuove tecnologie.[2] Sebbene non vi sia un esplicito riferimento, dal testo si evince un’allusione alla scena artistica che in quegli anni stava prendendo forma attorno all’uso del computer e di cui Cocuccioni in Italia è tra i primi a occuparsi in qualità di critico.[3] Lo scritto sarà poi tradotto in uno storyboard con una piccola variazione nel titolo (Manifesto 1985. L’arte tra videostasi e neosofia), corredato da puntuali e lunghe didascalie, in previsione di una sua traduzione in video.[4] Qualche mese più tardi è in questa nuova forma visiva e dinamica che sarà presentato al VideoArt Festival di Locarno (3 – 7 agosto 1985), privo del sottotitolo L’arte tra videostasi e neosofia e accompagnato da un nuovo testo intitolato Un manifesto critico in videoclip.[5] Come spiegato da Cocuccioni in quest’intervento, il video è frutto di una rielaborazione del manifesto teorico e intende «evocare, in forma sintetica e metaforica, quasi con un linguaggio da spot pubblicitario, l’attuale condizione storica dell’arte in rapporto alla nuova realtà tecnologica».[6]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →