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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →

 

Che Dante, Petrarca e Boccaccio siano stati architetti narrativi ritengo sia ormai fuori discussione. Tutte e tre sono stati in grado di creare grandi opere dalla struttura simmetrica e perfetta. Ciascuno a suo modo ha messo in atto una serie di strategie per dare vita a un’opera compiuta che rispondesse alle esigenze estetico-letterarie del proprio tempo.

Inutile dire che per quanto concerne la Divina Commedia è stato ampiamento dimostrato come Dante sia stato un perito architetto. Recentemente Roberto Antonelli (2011) ha ripreso la questione posta da Harald Weinrich (1994) su Dante come scrittore cosciente dell’organizzazione del proprio capolavoro; in altri termini, ci si è interrogati se le tappe del viaggio e i personaggi incontrati rientrino in un disegno macrostrutturale specifico. Indubbiamente la risposta è positiva e al saggio di Antonelli rimando per circostanziate dimostrazioni. Ciò che mi preme considerare è proprio la struttura della Commedia poiché essa è fondamentale per la lettura del V canto, nonché per la sua traduzione visuale.

In un saggio edito in Letture classensi Antonio Pioletti (2000) metteva in luce come il viaggio dantesco avesse una forte connotazione strutturante e come fosse funzionale agli incontri del poeta nel corso del suo itinerario. Lo stesso Michelangelo Picone (1988, p. 20), a proposito dei diversi tipi di cornice narrativa, includeva nel terzo tipo – racconti in itinere – proprio la Commedia, mettendo così in luce la fondante funzione della struttura viatorica. Se, quindi, il viaggio incornicia tutta l’opera, diventando il momento in cui si condensano i commenti di Dante e di chi l’accompagna, nonché l’incontro con le varie anime (livello 1), il momento successivo è costituito dalla narrazione di queste (livello 2) che raccontano una storia che si presenta, come osserva Pioletti (2000, p. 177), con «nessi interni causali e temporali, dotata quindi di una sua autonomia e caratterizzata da una durata breve». In taluni casi, ben documentati da Pioletti (2000, pp. 179-187), le storie narrate possono altresì fungere da cornici seconde (livello 3), cioè «come testi inclusi e includenti, in vario modo, altri microtesti» (Pioletti 2000, p. 179).

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  • Arabeschi n. 15→
  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

Il rapporto che la cultura letteraria e artistica occidentale intrattiene con Barbablù sta sotto il segno dell’ambivalenza: da una parte ne è attratta, dall’altra corre spesso ai ripari di questa attrazione, quasi a ricalcare nel complesso la dinamica narrativa su cui si innesta la vicenda dell’uxoricida fiabesco e della sua ultima moglie. Dimensione intrinseca alla storia, l’ambivalenza ne accompagna, d’altronde, la fortuna fin dal momento in cui Charles Perrault la codifica narrativamente e, con la pubblicazione delle Histoires du temps passé, avec des moralitez (1697), dà avvio al processo della sua sedimentazione nella memoria culturale europea.

Anche grazie al lavoro di artisti che illustrano numerose riedizioni del testo in Francia e in altri paesi, i personaggi e i momenti salienti del racconto si imprimono progressivamente nell’immaginario collettivo occidentale, che non smette di rielaborarli, conferendo loro, col passare del tempo, un’aura vieppiù esotica o estetizzante, significativamente assente nel testo e nelle sue primissime illustrazioni.

Vero è, comunque, che tra avvicinamento e distanziamento si muove già Perrault, in un gioco sottilmente ironico che non permette a nessuno dei due poli di prevalere. Conviene seguire a somme linee la sua operazione.

Innanzitutto, in sintesi, il racconto: un uomo estremamente ricco chiede a una gentildonna sua vicina di dargli in moglie una delle sue due figlie, ma entrambe le ragazze sono riluttanti a causa della barba blu del pretendente (motivo per cui tutte le donne lo trovano spaventoso e rifuggono alla sua vista) e per il fatto che nessuno sa che fine abbiano fatto le sue mogli precedenti; invitate dall’uomo a passare alcuni giorni nella sua casa di campagna, passano insieme a lui, alla madre, a quattro amiche e ad alcuni giovani, otto giorni di piaceri, tanto che, alla fine, la figlia minore si convince che la sua barba non sia così blu e che egli sia un gentiluomo; accetta quindi di sposarlo e va a vivere nella sua dimora cittadina; dopo un mese, il marito le comunica di doversi assentare per un certo periodo e le consegna la chiave di tutti i suoi appartamenti, come anche delle stanze, dei forzieri e delle casse contenenti oro, argento e pietre preziose, affinché ne possa godere invitando anche amiche; con fare estremamente minaccioso, le vieta però di entrare in un unico stanzino collocato al pianterreno, di cui le consegna comunque la chiave; la donna non fa passare tempo in mezzo e alla partenza dell’uomo, mentre le amiche godono alla vista di tutte le ricchezze nelle altre stanze ai piani superiori, lei si precipita giù per le scale e, tremante all’idea delle possibili conseguenze della sua disobbedienza, apre la porta dello stanzino; appesi alle pereti e riflessi nel sangue scopre i corpi sgozzati delle precedenti mogli; in preda al terrore, fa cadere la chiave nel sangue e i tentativi successivi di ripulirla sono inutili: il sangue ricompare costantemente; al suo rientro, il marito le chiede di riconsegnargli tutte le chiavi e, vedendo la macchia su quella dello stanzino, comprende che la moglie ha infranto il divieto decretando così la propria morte; si accinge quindi ad ammazzarla, ma le concede sette minuti di tempo per la preghiera con cui la donna chiede di poter prendere commiato dalla vita; in realtà, sfrutta quei minuti per implorare la sorella Anne di salire sulla torre per vedere se i fratelli (mai citati prima) stiano arrivando per fare loro la visita promessa e per pregarli di affrettarsi; i fratelli (un dragone e un moschettiere), in effetti, arrivano, e, trafiggendolo con la spada, uccidono Barbablù che, con il coltello in mano, sta ormai per tagliare la gola alla moglie; ereditate tutte le ricchezze del marito, la donna le usa per maritare la sorella e per acquistare ai fratelli il grado di capitano; infine, si risposa con un gentiluomo che le farà dimenticare i brutti momenti passati con il primo marito.

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Il presente contributo intende centrare l’analisi sulla ‘funzione’ del libro nell’opera di Isgrò, con sondaggi relativi alla sua produzione narrativa. In particolare sarà preso in considerazione un campione ristretto di ‘pubblicazioni’ che si collocano nell’arco temporale di un decennio e che presentano, almeno esteriormente, le caratteristiche del più letterario dei generi, ovvero il romanzo. Mi riferisco al “romanzo elementare” Il Cristo cancellatore (1968), edito in quattro fascicoletti dalle Edizioni Apollinaire (1968), a L’avventurosa vita di Emilio Isgrò (il Formichiere 1975), provocatoriamente candidato al Premio Strega, e infine al romanzo “storico” Marta de Rogatiis Johnson (Feltrinelli 1977). Si tratta di tre “prodotti editoriali” diversi – il libro d’artista con cancellature nel primo caso, l’installazione in galleria nel secondo, il “tradizionale” romanzo nel terzo - che volutamente mettono in discussione sia la forma e la funzione del libro, che gli statuti canonici della narrazione (l’autore e l’intreccio), attraverso la tecnica dello straniamento e del distanziamento epico, intesi come modalità di riflessione critica sulla realtà e sulla funzione dell’arte all’interno della società.

This article proposes an analysis about the "function" of the book in Isgrò's work, with surveys relating to his narrative production. In particular, a small sample of "publications" falling within the time frame of a decade and presenting, at least outwardly, the characteristics of the most literary genre, the novel, will be considered. I refer to the "elementary novel" Il Cristo cancellatore (1968), published in four booklets by Edizioni Apollinaire (1968), to L'avventurosa vita di Emilio Isgrò (il Formichiere 1975), provocatively nominated for the Strega Award, and finally to the “historical” novel Marta de Rogatiis Johnson (Feltrinelli 1977). These are three different "editorial products" - the artist's book with erasure marks in the first case, the gallery installation in the second one, the "traditional" novel in the third one - which deliberately question both the form and function of the book and the canonical statutes of narration (the author and the plot), through the techniques of estrangement and epic distancing, intended as a way to critically ponder on the reality and the function of the Art within society.

 

 

Così Emilio Isgrò, nel suo intervento al convegno Il libro d’artista in Italia dal 1960 ad oggi (Biblioteca civica d’arte Luigi Poletti, Modena, 13 aprile 2000)[1]

descrive la rivoluzione copernicana che interessa il libro dalle avanguardie storiche sino a tutto il Novecento, e che ne modifica profondamente la struttura, la funzione, la diffusione, ma soprattutto – come denuncia la locuzione prescelta da Isgrò, librodartista – unisce senza soluzione di continuità il versante linguistico a quello più propriamente artistico, dando luogo ad un oggetto ‘ibrido’ nel quale i diversi codici interagiscono tra loro.

Nella seconda metà del secolo, dagli anni Sessanta in poi, in Italia si hanno numerosi esperimenti del genere che spesso sconfinano in imprese editoriali-artistiche ai margini del mercato, anzi in aperta contestazione con i canali ufficiali del prodotto artistico (l’editoria e le gallerie), e che vanno a delineare un’ampia zona di ‘esoeditoria’ nella quale convergono esperienze di vario genere, riconducibili all’ampia galassia della poesia verbovisiva, e dell’arte concettuale.[2] Il primo appuntamento italiano di livello internazionale dedicato a questo particolare tipo di ‘pubblicazioni’ è la sezione Il libro come luogo di ricerca, curata all’interno della XXXVI Biennale di Venezia da Renato Barilli e Daniela Palazzoli, con opere relative al biennio ’60-’70 di artisti «che hanno instaurato un rapporto nuovo con il libro»,[3] tra cui Vincenzo Agnetti, Robert Kosuth, Giulio Paolini, Franco Vaccari, Vincenzo Accame, Nanni Balestrini, William Burroughs, Sebastiano Vassalli, Cesare Zavattini, e lo stesso Isgrò. Nel medesimo anno Daniela Palazzoli inaugura nel mese di giugno, nello spazio L’uomo e l’arte di Milano, la mostra I denti del drago – le trasformazioni del libro nell’era di Gutenberg, che da Mallarmé in poi individua una linea di sperimentazione sulla forma libro, con esperienze che mescolano pagine d’artista, poesia visiva, libri e libri-oggetto. La partecipazione di Isgrò a entrambe le mostre con un’opera ‘concettuale’ (e si usa il termine con tutte le cautele del caso) come l’Enciclopedia Treccani, esposta per la prima volta nel 1970 presso la Galleria di Arturo Schwarz, rivela soltanto uno dei plurimi aspetti della sperimentazione sul libro portata avanti dal poeta-artista, che, in un lasso di tempo abbastanza ristretto, si muove contemporaneamente sia sul versante strettamente letterario – ad esempio con la raccolta di poesie lineari L’età della ginnastica[4] – che sul versante più radicale della negazione della parola e del libro, con le celebri cancellature.[5] E però i due aspetti non sono tra loro contrapposti, ma in rapporto dialettico all’interno di un percorso che ha al suo centro l’indagine della parola e delle sue potenzialità di significazione in rapporto al mondo, attraverso una ricerca artistico-letteraria serrata che comprende sia la momentanea ‘copertura’ della parola – come un ‘seme’[6] in attesa di germogliare – sia la libera combinazione in strutture poetiche e narrative nuove. Così il libro diviene di volta in volta ‘supporto’ tradizionale per ardite sperimentazioni linguistico-letterarie, e oggetto estetico, esposto in galleria alla stregua di un prodotto artistico, come il quadro, l’installazione, la scultura.

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La stamperia d’arte di Giorgio Upiglio, che apre ufficialmente nel 1962 nella sede di via Fara 9, nasce a Milano nel fervente clima del dopoguerra in cui si delineano nuove tendenze sia in senso più sperimentale, sia nell’ambito del rinnovamento della pittura, tra “naturalismo lombardo” e “informale segnico-gestuale”. La presenza di Wols e di Pollock a Milano - rispettivamente nella galleria del Milione nell’aprile 1949 e alla galleria del Naviglio nell’ottobre 1950 - ma anche il ritorno di Lucio Fontana dall’Argentina non passano inosservati e suggeriscono ai giovani artisti nuove sperimentazioni sulla superficie della tela, che diventa un vero e proprio “campo” d’azione. Anche l’ambito della grafica d’arte non è immune da tale impeto sperimentale. Nello studio di Giorgio Upiglio molti artisti, frequentatori del Bar Giamaica e alcune gallerie storiche come la Galleria del Naviglio, Il Milione o L’Annunciata e letterati, negli anni Sessanta trovano un luogo di incontro dove testare appunto tali nuovi linguaggi e tecniche, ma anche dialogare di arte e di politica, dei fenomeni di una società allora tutta tesa alla rinascita, allo sviluppo, attraversata dal miracolo economico e nello stesso tempo piena di contraddizioni. I pregiati fogli e in particolare i libri d’artista che escono dal torchio della stamperia non riproducono solo immagini, ma costituiscono veri e propri oggetti di sperimentazione, in cui l’immagine si associa alla parola e ai materiali più inconsueti. In particolare, il libro d’artista, diventa una forma di dialogo aperto tra la componente più materiale dell’oggettualità e degli strumenti realizzativi e quella immateriale del segno e della parola: sono luogo di incontro tra artisti figurativi e scrittori, come quello tra Giovanni Patani e Dino Buzzati o Wifredo Lam e René Char. I documenti autografi presenti nel Fondo Giorgio Upiglio dell’Archivio del Moderno a Mendrisio (CH) sono la fonte preziosa di una possibile ricostruzione di questa attività tra anni Sessanta e Settanta non ancora sufficientemente approfondita dalla critica d’arte.

The art print shop of Giorgio Upiglio, which officially opens in 1962 at the headquarters in via Fara 9, was born in Milan in the fervent post-war climate in which new trends are delineated both in a more experimental sense and in the context of the renewal of painting, between "Lombard naturalism" and "informal sign-gestural". The presence of Wols and Pollock in Milan - respectively in the Milione gallery in April 1949 and at the Naviglio gallery in October 1950 - but also the return of Lucio Fontana from Argentina do not go unnoticed and suggest to the young artists new experiments on the surface of the canvas, which becomes a real "field" of action. Even the field of art graphics is not immune to such experimental impetus. In Giorgio Upiglio's studio many artists, frequenters of the Jamaica Bar and some historical galleries such as the Galleria del Naviglio, Il Milione or L'Annunciata and literati, in the Sixties find a meeting place where they can test these new languages ​​and techniques, but also dialogue of art and politics, of the phenomena of a society then all tending to rebirth, to development, crossed by the economic miracle and at the same time full of contradictions. The precious sheets and in particular the artist's books that come out of the printing press do not reproduce only images, but constitute real experimental objects, in which the image is associated with the word and the most unusual materials. In particular, the artist's book becomes a form of open dialogue between the most material component of objectivity and of the realization tools and the immaterial component of the sign and the word: they are a meeting place for figurative artists and writers, such as the one between Giovanni Patani and Dino Buzzati or Wifredo Lam and René Char. The autograph documents in the Giorgio Upiglio Fund of the Archivio del Moderno in Mendrisio (CH) are the precious source of a possible reconstruction of this activity between the 1960s and the 1970s, not yet sufficiently detailed by the art critic.

 

 

«Nessuno meglio di Giorgio impersona la nuova figura del maestro artigiano [….] non come uomo-strumento, ma come collaboratore che con la sua generosa disponibilità a nuovi mezzi interrogativi, l’intuizione di possibili risposte e l’elaborazione di nuovi mezzi partecipa vitalmente alle invenzioni del processo creativo».[1]

Con tali parole il pittore Leo Lionni descrive Giorgio Upiglio (1932-2013), tra i protagonisti della stampa d’autore italiana del secondo dopoguerra, promotore di un’attività che ha coinvolto l’ambiente artistico italiano con artisti, scrittori e artigiani di livello internazionale. Partecipe del fervente clima del dopoguerra, Upiglio ha aperto a Milano una stamperia di grafica originale seguendo la sua passione per l’arte nata nella tipo-litografia di famiglia Atlas, fondata dal padre Emilio e dallo zio Raffaele Cervone. Vi era entrato a soli 13 anni e qui nel 1950 aveva acquistato il primo torchio calcografico per sperimentare la stampa d’autore. La sua attività avrà un successo durato una vita, fino alla chiusura dello studio dopo la sua scomparsa. La sua attività prende avvio con la nascita, l’11 aprile 1962, della società[2] di stampa d’arte Grafica Uno, dalle iniziali del suo nome, che si scioglierà tre anni dopo, quando la stamperia, con la chiusura dell’officina di famiglia, si trasferisce nella sede storica di via Fara. Upiglio potrà contare sulla collaborazione di alcuni amici artisti che avevano cominciato a realizzare le prime opere grafiche nella sede di famiglia come Gianni Brusamolino, Piero Leddi e Renato Volpini, oltre che sull’assistenza tecnica dell’abile litografo Dante Caldara, conosciuto appunto nell’officina Atlas.[3] Accanto a lui, fin dai primi anni, ci sarà anche la moglie Rita Gallé, gallerista[4] e collaboratrice nel lavoro della stamperia, con cui condivide la passione per la grafica, e lo stampatore e artista Giancarlo Pozzi, suo stretto collaboratore ininterrottamente dal 1966. Con due torchi calcografici e qualche pietra, Upiglio comincia quindi a collaborare con artisti, poeti e scrittori per realizzare pregiate edizioni di litografie, cartelle e libri d’artista, spesso connotati dalla stessa esigenza di novità e sperimentazione, che accomuna molti artisti di quella generazione. Non bisogna dimenticare che Milano tra la fine della guerra e l’inizio degli Sessanta è caratterizzata da un fervente clima artistico, che vede la nascita di molti gruppi di ricerca: dai nucleari ad Azimut e al Gruppo del Cenobio fino alle ricerche cinetico-visuali del Gruppo T e del Gruppo Enne, e lo sviluppo di un sistema dell’arte favorito da gallerie attive in ambito internazionale: dalla storica galleria del Milione, alla galleria di Barbaroux, l’Annunciata, il centro San Fedele, la galleria del Naviglio, la galleria Apollinaire.

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La pratica di trasporre in immagini la Commedia prende avvio molto presto e corre parallela a quella del secolare commento, frutto della medesima esigenza – percepita sin da subito – di corredare il testo dantesco di note integrative e appunti interpretativi utili a un lettore sprovvisto di strumenti atti a comprendere a pieno la complessità del poema ed evidentemente disorientato dalla portata straordinariamente innovativa dell’opera di Dante. Se, ai suoi esordi, l’illustrazione della Commedia svolge una precisa funzione di orientamento alla lettura e i primi prodotti manoscritti sono in grado di restituirci il peculiare approccio critico dei più antichi lettori dell’opera (essenzialmente impegnati a inquadrare il poema dantesco entro il sistema dei generi letterari), la storia della trasposizione visiva della Commedia si evolve nei secoli in plurime direzioni, riflettendo di volta in volta gusti, ideali, nuove urgenze di artisti e lettori.

La ricostruzione di una parabola evolutiva tanto affascinante e complessa è oggi offerta dal Dante per immagini di Lucia Battaglia Ricci, che indaga – non senza una rigorosa classificazione terminologica, atta a distinguere le diverse tipologie della traduzione in immagine dell’opera letteraria, e alcune importanti riflessioni di metodo – la lunga storia della ricezione del poema in ambito figurativo. Il lettore può così seguire, guidato dal nutrito apparato di tavole che arricchisce il volume, l’evolversi nel tempo dell’interesse di artisti e committenti per il poema di Dante e ripercorrere le tappe di un lungo percorso di trasposizione in figura del viaggio oltremondano narrato nella Commedia, dagli anni Trenta circa del Trecento, a sole poche lune dalla scomparsa del poeta, sino ai nostri giorni, con prevedibili proiezioni oltre i confini del volume stesso, lungo le linee di una storia di lettura e visualizzazione del poema molto probabilmente destinata a non interrompersi mai.

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L’articolo offre un’analisi di Salons, libro poco noto nella produzione di Giorgio Manganelli, che riunisce trentacinque articoli pubblicati nel corso del 1986 su «FMR». I corsivi commentano delle immagini, sottoposte a Manganelli dall’editore Franco Maria Ricci: raramente assimilabili a vere recensioni, si sviluppano piuttosto come libere digressioni, che spesso implicano un discorso metaletterario o ripercorrono temi cari all’autore. L’impianto del libro, apparentemente rigoroso, in realtà policentrico e imprevedibile nella distribuzione dei contenuti, risponde ad una sensibilità barocca e ricorda la metafora (tratta dalla topica) del libro come meravigliosa architettura. Spesso il rapporto didascalico fra figura e testo viene eluso, o il punto di congiunzione rimane implicito. In molti casi Manganelli, a partire da un particolare aspetto della figura, la proietta entro il perimetro della sua ‘teologia negativa’, in tutta la sua complessità e contraddittorietà. Nel libro ricorre inoltre una questione centrale nell’estetica contemporanea, la relazione fra linguaggio figurativo e verbale: Manganelli tende a subordinare il primo al secondo, oppure a farli coincidere sotto la comune bandiera della retorica. 

This paper analyses Salons, a lesser-known book by Giorgio Manganelli, which brings together thirty-five articles, all previously published (in 1986) on the journal «FMR». Instead of being mere comments on the pictures selected by the publisher, Manganelli’s articles unfold as a series of digressions and reflections on literature. In the first part, I will tackle the organization of Salons showing how a multicentre structure underlies its ostensible geometry and develops the Baroque metaphor of the book as a stunning architecture. Thereafter, I will provide some examples of the, often purposely hidden, interaction between text and images. I In particular, I will show that Manganelli sometimes focuses on a detail of the artwork to develop his own ‘negative theological’ view, subordinating the visual language to the written language as much as bringing them together under the common flag of rhetoric.

 

 

Quali erano le idee di Giorgio Manganelli sulle arti figurative? Se si cercassero nelle interviste le testimonianze dirette dei suoi giudizi, non si troverebbe molto. Laddove, infatti, egli fa costante riferimento alla musica,[1] le arti visive sembrano essere volutamente eluse, anche quando le domande dei giornalisti sembrerebbero stimolarlo ad affrontare il tema.

Da questo tuttavia non si deve dedurre un suo disinteresse per l’argomento: è anzi più plausibile pensare a un consapevole ‘depistaggio’ (procedimento a cui l’autore non sarebbe affatto nuovo). Se infatti, tralasciando le interviste, si ripercorre la produzione letteraria manganelliana, è possibile intuire una passione per l’arte a lungo coltivata e meditata. Negli Appunti critici del 1948-1949, il Nostro nomina Walter Pater dimostrando di conoscerlo a fondo (l’aveva incontrato nei suoi studi di anglistica, forse per tramite di Praz);[2] altrove, in reportage di viaggio e articoli su giornale, egli invoca ripetutamente l’arte a similitudine con la natura, in virtù della qualità di ‘spettacolo’ che è propria di entrambe.[3]

L’opera che tuttavia ci consegna il quadro più completo del rapporto di Manganelli con la visualità è un’altra. Nel 1986, appena un anno dopo la seconda edizione del suo provocatorio manifesto (La letteratura come menzogna, prima ed. 1967), egli riceve da Franco Maria Ricci l’incarico di ‘corrispondente d’arte’ per la rivista «FMR»: da questa commissione risulteranno trentacinque prose, riunite e pubblicate l’anno successivo con il titolo di Salons.[4] Un nome che evoca Diderot e i suoi reportage per Correspondance littéraire (1759-1781), ma ovviamente con fine decostruttivo e ironico. Infatti, laddove nei suoi Salons Diderot aveva seguito con attenzione lo sviluppo della pittura moderna, ‘battezzando’ la nuova figura del critico d’arte, la selezione di opere che Ricci sottopone alla penna di Manganelli sembra obbedire ai soli criteri dell’inattualità e della disomogeneità. Dal tessuto art nouveau alla tabacchiera di fine Settecento, dalla statua africana a Renato Guttuso, questo libro-almanacco ricorda, più che un’esposizione d’arte, una raccolta di preziosi souvenir di viaggio: un viaggio completamente immaginario, escogitato dallo scrittore in realtà immobile alla sua scrivania, e che forse vuole echeggiare (di nuovo con un forte contrasto) i viaggi in terre lontane che Manganelli realmente aveva intrapreso, nella sua lunga carriera di scrittore e di corrispondente.[5]

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In più occasioni Calvino insiste sull’ispirazione visiva dei tre racconti fantastici che compongono i Nostri antenati. Lo scrittore ligure non ammette però che accomuna le tre immagini di partenza la stessa sfera metaforica, ovvero la corporeità e le limitazioni alle quali è sottoposta. L’intervento intende esaminare le declinazioni di questa scrittura per immagini che ruota intorno all’idea di superamento dei limiti della corporeità, quale metafora del «realizzarsi come esseri umani». Le metamorfosi a cui è sottoposto il corpo nel Cavaliere inesistente e la loro rappresentazione vengono analizzate come caso esemplare di questo processo creativo che sta alla base della trilogia di Calvino.

Italo Calvino has often pointed out that the three novels of the trilogy Our Ancestors have their primary inspiration in specific images. He, however, has never remarked that the three visual sources belong to the same metaphorical field: the body and its limits. The article examines how Calvino’s literary development of those images revolves around the central issue of overcoming physical limitations as a metaphor for “self-realisation as human beings”. The metamorphoses of the body in The Nonexistent Knight and their literary representation are here investigated as a foremost example of this pivotal process at the core of Calvino’s trilogy.

 

1. Il volto degli antenati

L’attività di autoriflessione di artisti e scrittori è fenomeno ben noto e prezioso per la critica letteraria, dal momento che negli spazi di autocommento spesso si annidano rivelazioni illuminanti sui testi e la loro genesi.[1] Se in molti casi gli autori sono stati parchi nel fornire commenti alle proprie opere, Italo Calvino, per contro, si è dedicato a tale attività in modo potremmo dire sistematico e cospicuo. L’autore ligure non soltanto ha frequentato in modo estensivo la forma saggio, autoinvestigando attraverso gli strumenti della saggistica le proprie scelte poetiche, ma in più occasioni ha dichiarato intenti e significati dei suoi scritti in introduzioni e prefazioni prodighe di dettagli e spiegazioni sui testi che accompagnavano.

La Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno è forse lo scritto più noto della produzione calviniana di autocommento. Non meno rilevanti e illuminanti, però, sono altri testi prefatori, come ad esempio i due scritti, uno edito e l’altro emerso grazie ai Meridiani mondadoriani, che illustrano genesi e significati della trilogia araldica dei Nostri antenati.

Nel 1960, in occasione della pubblicazione dei tre romanzi in un volume complessivo, Calvino sente infatti la necessità di illustrare le ragioni che fanno di queste opere un ciclo unitario e compiuto. I volumi che compongono i Nostri antenati, benché nati in momenti lievemente differenti (’52, ’57, ’59) – e fortemente ancorati alle circostanze storiche in cui vennero concepiti –, condividono una matrice genetica comune, sulla quale Calvino insiste sia nella versione edita della Postfazione sia nello scritto che non venne pubblicato: questi romanzi – come molte altre opere calviniane – non sono nati da concetti ben distinti e chiari per l’autore, che attraverso la trasfigurazione fantastica li ha voluti descrivere, sono sorti invece da tre immagini, dalle quali poi hanno preso forma delle questioni che in seguito rimangono sempre centrali per Calvino.

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Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esperimenti di traduzione scenica di favole e miti con risultati compositivi davvero interessanti. Anche Emma Dante non è rimasta insensibile al fascino della fiaba e con Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve e La bella Rosaspina addormentata si accosta all’elemento fiabesco ironizzando e capovolgendo stereotipi di genere e luoghi comuni (le tre fiabe sono poi confluite in un interessante progetto di riscrittura testuale e visiva per i tipi Baldini&Castoldi, grazie alle tavole illustrate di Maria Cristina Costa). Il saggio punta l’attenzione su questi tre spettacoli che ripropongono gli stessi ingredienti delle sue messe in scena: recitazione, provocazione, corpo, fisicità, immaginazione, parola. 

Over the last few years, the experimentation of turning fables and myths into stage productions has grown in number with very interesting results. Even Emma Dante has not been insensitive to the charm of the fairy tale, and with Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve and La bella Rosaspina addormentata, approaches the fairy tales ironically, flipping stereotypes of gender and changing locations (the three fairy taleshave then come to an interesting textual and visual rewrite project for the Baldini & Castoldi types, thanks to the illustrated tables of Maria Cristina Costa). This essay focuses on the three shows that are part of that constant search in which Dante inserts all her performing elements: acting, provocation, body, imagination, word. 

1. C’era una volta…

«Le fiabe sono vere» scriveva Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe italiane, «sono, prese tutte insieme […], una spiegazione generale della vita…». Il teatro ha accolto fin dalle origini la suggestione di temi e storie ‘orali’ e nel corso della sua evoluzione ha messo a punto strategie retoriche sempre più convincenti nella resa di fiabe e racconti. Se il mythos tragico ha costituito la matrice autentica della fondazione di una prassi drammaturgica e scenografica, il Rinascimento ha contribuito alla codificazione di un nuovo genere che già nella sua titolazione richiama la forza e la pregnanza delle fabulae. La «favola pastorale» rappresentava infatti il tentativo di contemperare elementi propri della tradizione classica con un vitale slancio compositivo legato agli umori e alle sfrenatezze di corte; si trattava di delectare il pubblico attraverso exempla di ordine moraleggiante: il teatro era già inteso come arte fecondamente paideutica. Il barocco avrebbe aggiunto a tale quadro paradigmatico l’ossessione per quella ‘poetica della meraviglia’ che, oltre a stimolare una straordinaria profusione di ‘effetti speciali’, richiamava da vicino le atmosfere incantevoli di leggende e archetipi mitologici.

La progressiva costituzione di repertori fiabeschi rende gli intrecci tra favole e teatro ancor più stringenti al punto che è difficile separare nettamente i due ambiti: la magia della scena fa sì che ogni storia si trasformi in sogno (o in incubo), come del resto testimonia la grandezza delle invenzioni shakespeariane. Dobbiamo arrivare all’Ottocento per assistere ad una grande fioritura della fiaba. Il danese Andersen, i fratelli tedeschi Grimm, il russo Afansjeu ci hanno lasciato le più belle fiabe del secolo. In Italia, Collodi riscrive nei suoi Racconti delle fate le fiabe immortali del francese Perrault, dando ad esse una vivacità tutta toscana. Luigi Capuana, pur essendo il caposcuola del verismo, considera le fiabe come una porta da tenersi sempre aperta sull’irrazionale e sul fantastico. Infine, Giuseppe Pitrè, sempre interessato alle tradizioni regionali italiane, trascrive nelle sue Novelle antiche fiabe raccolte dalla viva voce della gente.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

«Per aver fatto la scoperta che ho fatto d’esser fratello d’una sorellina buona come te, – rispose Pinocchio – sarei contento d’aver lasciato tutte le terre di questo mondo!»; così, con la scelta del protagonista di trattenersi sulla Luna e con il definitivo ricongiungimento alla sorella selenita di nome Rosina, da cui il burattino era stato accidentalmente separato alla nascita, si conclude Pinocchio nella luna, pubblicato nel 1924 (alcuni repertori segnalano una prima stampa nel 1919), presso la casa editrice Bemporad, dal padre scolopio Tommaso Catani (1858-1925). Insegnante di storia naturale alle Scuole Pie di Firenze e prolifico autore di testi scolastici e di libri per ragazzi, Catani aveva già dato alle stampe nel 1910, presso lo stesso editore, il «romanzo umoristico» Rosellino nella Luna. Mutati il titolo e i nomi di alcuni personaggi (Pinocchio e Rosina sostituiranno Rosellino e Terrina), variatane in parte la struttura narrativa (originariamente organizzati in tre parti, i trentaquattro capitoli saranno poi preceduti da didascalie riassuntive) e inseriti sparsi richiami alle Avventure collodiane, l’autore riproponeva la storia con l’aggiunta di sedici tavole a colori realizzate dal fiorentino Corrado Sarri (1886-1944), illustratore di un’edizione di Pinocchio uscita nel 1923 per i tipi della Società Editrice Toscana (su licenza temporanea della Bemporad), e poi più volte ristampata.

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