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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

Il contributo prende in esame il lungometraggio d’animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia, diretto da Lorenzo Mattotti nel 2019 e basato sull’omonimo testo di Dino Buzzati. Nella prima parte il film viene letto in rapporto alla precedente produzione figurativa dell’artista bresciano, da sempre impegnato nella creazione di opere che, come il fumetto, contaminano linguaggi sia verbali che visivi. Nella seconda, invece, si analizza il legame che unisce l’operato artistico di Mattotti a quello di Buzzati, autore che, sin dalla stesura de La famosa invasione degli orsi in Sicilia nel 1945, si è distinto per aver sperimentato un’originale commistione tra parola e immagine. Avendo creato alcuni ‘scarti’ con l’opera primigenia, possiamo affermare che quella operata da Mattotti è una felice rilettura della fiaba di Buzzati, che apre il ‘mondo degli orsi’ alla conoscenza di un vasto pubblico.

This article examines the feature-length animation The famous invasion of bears in Sicily by Lorenzo Mattotti (2019), which is based on the same titled work by Dino Buzzati. In the first section, I will link Mattotti’s latest movie to the interweaving of verbal and visual languages in his previous production, especially comics. In the second, I will discuss Mattotti’s appreciation for Buzzati, one of the first Italian authors to originally interweave word and image. Then, I will analyze Mattotti's reinterpretation of Buzzati's fairy tale and his ability to communicate the symbolic complexity of the 'world of bears' to a large audience.  

Il film d’animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia, diretto da Lorenzo Mattotti, basato sull’omonimo testo di Dino Buzzati e apparso nelle sale italiane lo scorso 7 novembre 2019, potrebbe rientrare a tutti gli effetti, per la forza sovversiva e per l’intreccio tra memoria e ricerca, all’interno della costellazione di opere prodotte dal collettivo artistico Valvoline, fondato a Bologna nel 1983, in cui Mattotti ha mosso i primi passi insieme a Giorgio Carpinteri, Daniele Brolli, Marcello Jori, Igort e Jerry Kramsky. Pronti a saccheggiare tutto ciò che in qualsiasi ambito artistico potesse servire loro, Mattotti e gli altri hanno dato vita a un vero e proprio magazzino di oggetti unici e accostamenti singolari, come l’ideazione di un orologio prodotto da Swatch, le immagini raccolte nel volume Un weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli o le uova in porcellana disegnate da Jori per Alessi. Anche il fumetto è al centro della ricerca di Valvoline e durante gli anni Ottanta le tavole a colori realizzate dal gruppo sono apparse su riviste come Alter Alter, Frigidaire, Linus e Vanity. La vocazione di questi autori pare allora straripare, trovando un terreno privilegiato per la loro ricerca irriverente nelle molteplici possibilità espressive di un linguaggio, quello del fumetto, meno legato ai canoni dell’arte ufficiale, più alternativo e controcorrente.

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La pratica di trasporre in immagini la Commedia prende avvio molto presto e corre parallela a quella del secolare commento, frutto della medesima esigenza – percepita sin da subito – di corredare il testo dantesco di note integrative e appunti interpretativi utili a un lettore sprovvisto di strumenti atti a comprendere a pieno la complessità del poema ed evidentemente disorientato dalla portata straordinariamente innovativa dell’opera di Dante. Se, ai suoi esordi, l’illustrazione della Commedia svolge una precisa funzione di orientamento alla lettura e i primi prodotti manoscritti sono in grado di restituirci il peculiare approccio critico dei più antichi lettori dell’opera (essenzialmente impegnati a inquadrare il poema dantesco entro il sistema dei generi letterari), la storia della trasposizione visiva della Commedia si evolve nei secoli in plurime direzioni, riflettendo di volta in volta gusti, ideali, nuove urgenze di artisti e lettori.

La ricostruzione di una parabola evolutiva tanto affascinante e complessa è oggi offerta dal Dante per immagini di Lucia Battaglia Ricci, che indaga – non senza una rigorosa classificazione terminologica, atta a distinguere le diverse tipologie della traduzione in immagine dell’opera letteraria, e alcune importanti riflessioni di metodo – la lunga storia della ricezione del poema in ambito figurativo. Il lettore può così seguire, guidato dal nutrito apparato di tavole che arricchisce il volume, l’evolversi nel tempo dell’interesse di artisti e committenti per il poema di Dante e ripercorrere le tappe di un lungo percorso di trasposizione in figura del viaggio oltremondano narrato nella Commedia, dagli anni Trenta circa del Trecento, a sole poche lune dalla scomparsa del poeta, sino ai nostri giorni, con prevedibili proiezioni oltre i confini del volume stesso, lungo le linee di una storia di lettura e visualizzazione del poema molto probabilmente destinata a non interrompersi mai.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

Tradotto in più di ventotto lingue, tra cui persiano, giapponese, coreano e addirittura due lingue norvegesi, il Pinocchio di Roberto Innocenti, uscito nel 1988, ha segnato un’inversione di tendenza rispetto all’operazione compiuta sin dagli anni Quaranta da Walt Disney, che aveva scalzato Carlo Collodi dal suo ruolo di autore e imposto nel mondo la sua icona del burattino. Le tavole dipinte ad acquarello, con una perizia straordinaria, da Innocenti ripercorrono la storia autentica del burattino ambientandola nella sua terra madre, una Toscana ottocentesca raggelata e segnata dalla miseria e dalla fame. Si riscoprono così la profondità e l’inquietudine del testo originale, insieme alla sofferenza e alla violenza che erano state bandite dalla versione americana. Nel 2005 Innocenti si è di nuovo cimentato col testo collodiano: le tavole più recenti presentano una chiave interpretativa che si discosta da quelle precedenti, rivelando dimensioni meno drammatiche e impiegando colori più limpidi per descrivere, nelle più diverse forme e con straordinaria competenza architettonica, la dimensione urbana e contadina della Toscana.

Anche la tedesca Sabine Friedrichson, pubblicò il suo Pinocchio nel 1988. In origine le sue illustrazioni dovevano accompagnare l’edizione rielaborata Der neue Pinocchio di Christine Nöstlinger. Dopo essersi resa conto dei cambiamenti che l’autrice viennese aveva apportato al testo collodiano, la Friedrichson decise di ritirare il proprio lavoro, che poteva funzionare solo in un’edizione fedele al testo di Collodi. L’illustratrice si concentra infatti su un singolo dettaglio ingrandito al punto da far sparire tutto il resto, oppure forza la prospettiva in modo da cogliere solo uno scorcio in una diagonale estremamente audace. La scena dell’impiccagione, ad esempio, si focalizza sui piedi agilissimi che non toccano più terra, mentre sullo sfondo si vede solo la casetta bianca divenuta una villa tradizionale toscana.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 Mentre i primi illustratori di Pinocchio, Mazzanti (1883) e Chiostri (1901), tendono a rappresentare la Fata come una donna comune, intensificando il processo di naturalizzazione del fantastico già in atto nel testo, gli illustratori successivi cercano di fare emergere altri aspetti di questo personaggio così eclettico, che si presta alle più svariate rappresentazioni e interpretazioni. Attilio Mussino, ad esempio, nella prima edizione a colori di Pinocchio (1911), si serve proprio del colore per fare emergere il fantastico, con una punta di ironia, disegnando in alcune immagini una Fata interamente azzurra, pronta però ad assumere forme e cromatismi diversi a seconda delle situazioni. Altri illustratori, come Luigi e Maria Augusta Cavalieri (1924) o Vittorio Accornero (1942), esaltano l’atmosfera magica e fiabesca della prima apparizione della Fata, ricorrendo all’iconografia tradizionale in cui le fate indossano cappelli a punta e lunghi abiti lussuosi. Questa Fata di straordinaria bellezza può addirittura assumere le sembianze di una diva del cinema nelle immagini di Bernardini (1924), Bianchi (1926) o Cervellati (1946).

Lontane dall’atmosfera magica o dal divismo cinematografico sono invece le immagini di Sto (Sergio Tofano, 1921), Angoletta (1951) e Jacovitti (1945 e 1964, escluse le versioni a fumetti), che inscenano una versione comica o parodica della Fata. Nel Pinocchio di Sto – l’inventore del signor Bonaventura – la Fata è personaggio secondario, che compare solo due volte: la prima come presenza angelica dall’abito bianco, ma vista da dietro, la seconda come donna comune che regge la brocca sulla testa mentre rivolge uno sguardo di rimprovero a uno sgomento Pinocchio [fig. 1a]. Bruno Angoletta, il creatore della recluta Marmittone, disegna una Fata boccoluta dalle labbra pitturate, un po’ diva ma in versione casalinga, che indossa un abitino con maniche corte a sbuffo e colletto inamidato [fig. 1b]. Ma è Jacovitti a distanziarsi dalle immagini più seriose del personaggio, disegnando una Fata decisamente brutta che pure nel suo palazzo con candelabri e colonne tortili indossa un grembiulino bianco [fig. 2]: per fare diventare donna comune quella fata ordinaria, gli basta sistemare la sua coroncina di fiori a ornamento di un buffo cappello.

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