Il film d’animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia, diretto da Lorenzo Mattotti, basato sull’omonimo testo di Dino Buzzati e apparso nelle sale italiane lo scorso 7 novembre 2019, potrebbe rientrare a tutti gli effetti, per la forza sovversiva e per l’intreccio tra memoria e ricerca, all’interno della costellazione di opere prodotte dal collettivo artistico Valvoline, fondato a Bologna nel 1983, in cui Mattotti ha mosso i primi passi insieme a Giorgio Carpinteri, Daniele Brolli, Marcello Jori, Igort e Jerry Kramsky. Pronti a saccheggiare tutto ciò che in qualsiasi ambito artistico potesse servire loro, Mattotti e gli altri hanno dato vita a un vero e proprio magazzino di oggetti unici e accostamenti singolari, come l’ideazione di un orologio prodotto da Swatch, le immagini raccolte nel volume Un weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli o le uova in porcellana disegnate da Jori per Alessi. Anche il fumetto è al centro della ricerca di Valvoline e durante gli anni Ottanta le tavole a colori realizzate dal gruppo sono apparse su riviste come Alter Alter, Frigidaire, Linus e Vanity. La vocazione di questi autori pare allora straripare, trovando un terreno privilegiato per la loro ricerca irriverente nelle molteplici possibilità espressive di un linguaggio, quello del fumetto, meno legato ai canoni dell’arte ufficiale, più alternativo e controcorrente.
Lorenzo Mattotti sa bene tutto ciò. Sin dagli inizi della sua carriera medita su una maniera nuova di raccontare, sul ritmo che segno e colore possono battere all’interno della tavola e ancora sulla possibilità di far deflagrare, tramite la figurazione, i ‘grandi’ della letteratura come Stevenson, Collodi o Twain. Di fatto, la traiettoria dei suoi lavori pare focalizzarsi verso un nodo centrale: trasformare il fumetto tradizionale in uno spazio nuovo, che riesca ad attingere ad altri linguaggi e abbracciare una forma più lunga, quella del romanzo disegnato. Il fumetto proprio negli anni Ottanta si prepara, del resto, a cambiare aspetto e formato, a entrare, cioè, nelle librerie come creazione autonoma e originale, servendosi di storie riconducibili al genere romanzesco e stravolgendo il rapporto tra autore e contenuto. Si pensi, al riguardo, alla serie a fumetti di Alack Sinner del duo Muñoz-Sampayo (1975) e a Maus di Art Spiegelman (1980).
Nella produzione sterminata di Mattotti il fumetto straripa in territori sconosciuti e si fa arricchire dalle potenzialità espressive di altri linguaggi, dando vita a nuovi generi che vanno al di là dal semplice romanzo per immagini. Alcuni esempi possono essere la storia biografica di un esploratore e cartografo veneziano nell’opera Caboto (1992), le narrazioni mute dei carnets in opere come La stanza (2003) o Nell’acqua (2005), la serie dei Pittitpotti (2003), album dedicati alla prima infanzia, e le sei storie brevi di Lettere da un tempo lontano (2005). Giustamente osserva Luca Raffaelli che «è difficile dividere l’arte di Mattotti. Esiste davvero un Mattotti fumettista, un Mattotti illustratore, e poi pittore, animatore, scenografo?».[1] Esiste, in realtà, un solo autore, abile a piegare i linguaggi per trovare di volta in volta un sovra-senso che amplifichi, trascendendole, le diverse forme del racconto.
L’incontro con Buzzati avviene all’età di sedici anni: Mattotti divora tutti i suoi libri. Già il protagonista di una delle sue prime pubblicazioni, Fuochi (1988), l’ufficiale Assenzio, con le sue visioni interiori e il viaggio che compie a bordo di una nave militare per raggiungere un’isola misteriosa, è riconducibile al sottotenente Giovanni Drogo del romanzo Il deserto dei Tartari (1940). E in una tavola a fumetti de Il signor Spartaco. Viaggio di un epicentrico (2005) troviamo il personaggio principale nutrirsi di un volume che riporta in bella vista proprio il nome dell’autore bellunese. Anche nel lungometraggio La famosa invasione degli orsi in Sicilia Mattotti veste i panni di archeologo o investigatore, tanto che si diverte a fare intravedere all’interno del palazzo del protagonista, l’orso Re Leonzio, alcune tavole originali tratte non solo dal libro omonimo ma anche dall’intera opera pittorica di Buzzati, come nel caso della tempera Il ritratto del califfo Mash Er Rum e delle sue 20 mogli del 1958.
Dopo aver collaborato con Enzo D’Alò alla realizzazione della pellicola Pinocchio (2013), Mattotti ritorna con La famosa invasione degli orsi in Sicilia al cinema d’animazione, un territorio in cui è necessario ricominciare, reinventarsi «tutte le volte in cui si è scelto di dedicarsi a tale mezzo»,[2] e regala ai bambini un’opera delicata e coraggiosa, un itinerario incantevole per lo sguardo. Non è un caso, peraltro, che la casa di produzione del film, Prima Linea, abbia le sue basi in Francia, dove tre dei maggiori autori di lungometraggi animati, come Michel Ocelot, Jacques-Remy Girerd e Sylvain Chomet, difendono un impegno costante verso un cinema d’autore raffinato e di altissima qualità.
Un fatto curioso, risalente al 1940 e che riguarda la vita privata di Buzzati, ci permette di comprendere l’origine della stesura de La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Inizialmente la storia era stata concepita dall’autore, in una versione ridotta e da arricchire con una narrazione orale, per intrattenere le sue due nipotine:
Tanti anni fa, ogni mercoledì, la famiglia di mia sorella veniva a pranzo in casa nostra, cioè della mamma e di noi tre fratelli. Siccome mi sono sempre divertito a disegnare, una di quelle sere, le nipotine Pupa e Lalla, che avranno avuto undici-dodici anni, mi hanno chiesto: “Zio Dino, perché non ci fai un bel disegno?”. Allora ho preso le matite colorate e, chissà perché, mi sono messo a fare una battaglia tra orsi e soldati, in un paesaggio di neve. Il disegno, fatto in pochi minuti, era abbastanza rozzo ma piacque alle mie nipotine. Il mercoledì dopo, naturalmente: “Zio Dino, perché non ci fai un altro disegno?”. E allora ho immaginato che gli orsi della settimana prima avessero vinto la battaglia e fossero entrati nella città di un sultano, o arciduca, o tiranno che fosse. E ho fatto la scena del re degli orsi che entrava nella camera da letto del satrapo, che balzava sbalordito dalle coperte. Dopodiché, ogni settimana era un nuovo disegno. In tutto saranno stati sette otto, fin che le nipotine pensarono ad altro e la storia rimase lì.[3]
Sarà solo più tardi, su invito di Emilio Radius, allora direttore del Corriere dei Piccoli, che testo e tavole a colori diventeranno prima una storia a puntate per il giornale e poi nel 1945, grazie a Eugenio Gara, una pubblicazione per i tipi di Rizzoli. Il volume viene concepito come un’opera doppia e presenta una struttura serrata e assolutamente rivoluzionaria per l’impiego nello stesso supporto di scrittura e immagine, divenendo un punto di avvio per future strategie iconotestuali messe in campo dall’autore, come in Poema a fumetti (1969) e I miracoli di Val Morel (1971). La storia narra di un gruppo di orsi che vive nelle montagne della Sicilia e abbandona le caverne durante un inverno gelido per invadere il Granducato di Sicilia, sorretto da un terribile e singolare tiranno. Il re degli orsi Leonzio durante questo viaggio conta anche di ritrovare il figlio Tonio, smarrito alcuni anni prima. I protagonisti, dopo estenuanti scontri, giungono nella capitale del Granducato. Leonzio ritrova il figlioletto e gli orsi prendono possesso della città e vivono a stretto contatto con gli uomini. Trascorrono tredici anni e gli animali assumono le abitudini e i caratteri degli uomini, perdendo la loro natura ingenua, pacifica e incontaminata. Per questo sul letto di morte re Leonzio ordinerà agli orsi di lasciare la città e di ritornare sulle antiche montagne, il loro regno autentico. Perché il racconto risulti valido e persuasivo, deve conformarsi necessariamente agli elementi che sorreggono i processi dell’immaginazione propri dei particolari lettori ai quali ci si vuole rivolgere, i bambini. Buzzati sceglie, non a caso, come protagonisti della fiaba degli animali, creature capaci di persuadere una determinata fascia di lettori, veicolare l’oggetto e l’eventuale messaggio che la narrazione nasconde e farsi carico loro stessi dei comportamenti e dei conflitti riconducibili all’umanità. E così «l’animale rinuncia alla sua vita naturale e ne assume un’altra; perde i caratteri avuti in dono dalla natura e si veste di quelli richiesti da un’operazione che coinvolge il mondo e il destino dell’uomo».[4]
Ne La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Buzzati il narratore è per lo più onnisciente, come ‘nascosto’, e solo in alcuni momenti emerge, ad esempio quando commenta la vicenda o richiama l’attenzione del lettore. Per l’adattamento cinematografico, Mattotti affida invece a tre personaggi inediti, il cantastorie Gedeone, la sua piccola assistente Almerina e un vecchissimo orso, il compito di raccontare le disavventure degli orsi. L’intreccio degli episodi rimane invariato, ad eccezione di poche scene nella seconda parte del film, concepite ex novo e destinate a evidenziare sensibilmente la relazione tra Re Leonzio e il figlio Tonio o a esasperare la tensione prima dello scontro finale contro un terribile serpente marino che minaccia la città. Per il resto, la trasposizione sul grande schermo di Mattotti rispetta la versione originale e mantiene il carattere dissacrante, beffardo e giocoso con il quale Buzzati concepisce la fiaba per bambini, rifuggendo dai cliché di molte narrazioni rasserenanti, anestetiche e stereotipate per l’infanzia diffuse oggi sul mercato. Se la tendenza generale è infatti quella di proteggere i bambini, tenendoli al riparo in una zona sicura che li risparmia dai pericoli, possiamo considerare la sceneggiatura scritta da Mattotti, Jean-Luc Fromental, Thomas Bidegain virtuosa perché, mantenendo la forza dell’originale, non ha un esplicito intento educativo e, piuttosto, disorienta lo spettatore.[5]
Le figure che popolano il film La famosa invasione degli orsi in Sicilia, orientate verso un disegno dalle forme solide e volumetriche – quasi una forma d’arte allo stato iniziale –, dimostrano l’intento del regista di volersi misurare con l’immaginario visivo dei bambini. L’esecuzione del tratto elaborato da Mattotti è sottoposta infatti a un processo di sintesi che mira a non far percepire di ciascuna figura i particolari, ma piuttosto le sue qualità essenziali. Orsi e abitanti del Granducato sembrano concepiti secondo quello «schema di circoli, ovali e linee rette»[6] al quale fa riferimento Rudolf Arnheim quando, in Arte e percezione visiva, spiega il processo di percezione e rappresentazione propria dell’età infantile.
A fatica possiamo distinguere un orso da un suo pari: il manipolo di animali che proviene dalle montagne, in marcia verso la città degli umani, sembra un corpo di sagome geometriche quasi identiche l’una all’altra, tutte profondamente scontornate da linee nette. I protagonisti, allora, lontani dai loro connotati descrittivi e realistici, si presentano come il risultato di un puro atto inventivo, elaborato attraverso le caratteristiche proprie del medium artistico. Sottesa a questo processo c’è la volontà di percepire il reale attraverso «dei concetti rappresentativi»,[7] quali le strutture primarie, che permettono di orientare la creazione verso la «scoperta di un equivalente»[8] linguistico, esperienza che – come sottolinea lo studioso tedesco – concerne il bambino quanto l’adulto. In questo senso i disegni di Mattotti manifestano una relazione con il mondo che, vicina allo sguardo e alla pratica infantile, raccoglie nella semplicità delle forme le proprie esigenze di conoscenza.
Se, come abbiamo appena affermato, a popolare il film sono di fatto dei ‘tipi’ umani e animali, questo metodo di rappresentazione può raggiungere anche un effetto straniante e soffocante, ad esempio nelle scene di combattimento. Gli orsi e i militari, simili a dei soldatini di latta, sembrano come generati da una macchina automatica che, in loop, li moltiplica sulla scena. Anche altri episodi, come l’arrivo nella capitale del Granducato o la festa in compagnia dei fantasmi presso la rocca Demona, sfruttano questo meccanismo dell’accrescimento e della ripetizione per dare vita a scene astratte, travolgenti, con un forte accento grafico - quasi delle allucinazioni a occhi aperti per lo spettatore -, nelle quali il profilo delle creature diventa una vera e propria silhouette.
Il medesimo espediente della duplicazione della figura lo ritroviamo nella rappresentazione delle due guardie che Mattotti ha realizzato per Pinocchio (2008). L’autore ha conferito alla coppia, che presenta un'armonica e simmetrica corrispondenza, enorme movimento grazie a una sofisticata forma incrociata che tiene uniti i due personaggi. L’illustratore bresciano pare guardare alla sua produzione personale anche quando deve rappresentare nel film gli edifici del Granducato, molto simili a quelli presenti nel graphic novel Jekyll & Hyde (2012); o ancora nella rappresentazione del paesaggio che, nei primissimi fotogrammi, ricalca a perfezione la tecnica dell'inchiostro di china nero su carta utilizzata per l’albo illustrato Hänsel e Gretel (2009). L’eco visiva dei lavori precedenti non sembra riguardare, invece, i colori, che nel lungometraggio acquisiscono un carattere inedito e sorprendente. Non troviamo le consuete sfumature pastello che conferiscono un segno materico, filiforme, granuloso e quasi lacerante all’immagine, ma toni nitidi, accesi, netti e portati quasi all’eccesso, come nell’accostamento dell’arancio con il rosso violaceo, utilizzato per raffigurare il Gatto Mammone, che dona contrasto e enorme spaesamento ai toni del fiabesco. È possibile notare come, sui corpi delle creature e sulla superficie dei caseggiati, il colore venga steso a bande larghe e uniformi, generando un patchwork di tinte inedite e toni saturi tra loro complementari che si rafforzano a vicenda. Al contrario, queste ultime paiono ‘posarsi’ in modo più attenuato, smorzato – quasi si affievolissero – sugli elementi del paesaggio, suggerendoci l’eccezionalità e il candore della natura.
La disposizione delle figure nello spazio risente in maniera evidente del lavoro di Buzzati. Nelle tavole della fiaba originale troviamo spesso rappresentazioni asimmetriche e visioni dall’alto, quasi a volo d’uccello, che dilatano lo spazio e permettono di raffigurare gli orsi come una vera e propria popolazione. Decine di piccole sagome, infatti, si dispongono nel paesaggio occupando l’intera scena: alcune sono come addossate sull’estremità della pagina, altre addirittura vengono parzialmente tagliate fuori dall’inquadratura. Nelle aree immense e desolate del film di Mattotti le sagome dei mostri abnormi o degli orsi pure sembrano oscillare tra due estremi: a volte poste troppo vicine al nostro sguardo, con dei primissimi piani, altre invece lontanissime, fino a smarrirsi dietro lo schermo. Entrambi gli autori quindi, con tempi e modalità differenti, ritraggono personaggi fuor di misura, sproporzionati, fin troppo espansi o microscopici, dando vita a vere e proprie vedute formicolanti. Possiamo, allora, fare riferimento al termine «dismisura»,[9] utilizzato da Fabio Russo durante un convegno del 1989 su Buzzati, anche per il lavoro di Mattotti, estendendo a lui quanto osservato dallo studioso sull’opera pittorica dell’autore bellunese: un «pianeta»[10] nel quale si ha la sensazione che qualcosa non quadri, individuando nelle prospettive e nelle composizioni un certo «gusto» a «complicare il giro delle cose»[11] e la volontà di suggerire continui «nessi impensati».[12]
Riprendendo la felice ripartizione proposta da Bruno Di Marino, sulla scia di Umberto Eco,[13] tra i disegnatori «apocalittici» e «integrati», possiamo associare anche il nome di Lorenzo Mattotti ai primi, autori che nel mondo esportano una fantasia eretica, non ortodossa, non omologabile al gusto medio della massa e rincorrono un cinema d’animazione più sperimentale. Sarebbe auspicabile che questi autori fossero conosciuti da un pubblico sempre più vasto e costituito non solo da bambini.
1 L. Raffaelli, ‘I mondi interiori di Mattotti’, in G. Durì, R. De Fazio, E. Soffitto (a cura di), Lorenzo Mattotti. Tutte le forme del colore, Napoli, Comicon Edizioni, 2018, p. 9.
2 M. Bellano, ‘Origini dell’animazione italiana: epopee di pionieri solitari’, in D. Giurlando (a cura di), Fantasmagoria. Un secolo (e oltre) di cinema d’animazione, Venezia, Marsilio, 2017, p. 43.
3 M. T. Ferrari, ‘Storie disegnate e dipinte’, in M. T. Ferrari (a cura di), Buzzati racconta, Milano, Electa, 2006, p. 53.
4 C. Marabini, ‘Prefazione a Bestiario’ (1991), in D. Buzzati, Bestiario, a cura di L. Viganò, Milano, Mondadori, 2015, pp. 386-387.
5 Al contrario, come indicato in un recente contributo dal titolo ‘Fiabe riscritte e (s)corrette’ di Alice Guidarini, apparso nel numero 47 (settembre 2019) di Hamelin. Potere alla parola. Quanto conta oggi leggere e scrivere?, alcune riscritture contemporanee di fiabe classiche tendono a presentare abbagli e scorrettezze riconducibili sia alla trama che ai messaggi veicolati al lettore. Dopo aver discusso su alcune riscritture edulcorate di Cenerentola e Cappuccetto Rosso, l’autrice segnala l’importanza di quei testi che mettono in primo piano tutti quegli elementi che, solo apparentemente potrebbero sembrare inquietanti, come: la fuga da casa, l’avventura, la frequentazione di personaggi poco raccomandabili come i lupi e la facoltà di sognare a occhi aperti.
6 R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 146.
7 Ivi, p. 148.
8 Ivi, p. 147.
9 F. Russo, ‘Il gioco dell’altro nello spazio del surreale: Buzzati e la dismisura’, in N. Giannetto (a cura di), Pianeta Buzzati. Atti del Convegno Internazionale Feltre e Belluno, 12-15 ottobre 1989, Milano, Mondadori, 1992, p. 399.
10 Ivi, p. 400.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 B. Di Marino, ‘Integrati e apocalittici. Appunti per una storia dell’animazione italiana prima del 2000’, in B. Di Marino, G. Spagnoletti (a cura di), Il mouse e la matita. L’animazione italiana contemporanea, Venezia, Marsilio, 2014, p. 37.