La pratica di trasporre in immagini la Commedia prende avvio molto presto e corre parallela a quella del secolare commento, frutto della medesima esigenza – percepita sin da subito – di corredare il testo dantesco di note integrative e appunti interpretativi utili a un lettore sprovvisto di strumenti atti a comprendere a pieno la complessità del poema ed evidentemente disorientato dalla portata straordinariamente innovativa dell’opera di Dante. Se, ai suoi esordi, l’illustrazione della Commedia svolge una precisa funzione di orientamento alla lettura e i primi prodotti manoscritti sono in grado di restituirci il peculiare approccio critico dei più antichi lettori dell’opera (essenzialmente impegnati a inquadrare il poema dantesco entro il sistema dei generi letterari), la storia della trasposizione visiva della Commedia si evolve nei secoli in plurime direzioni, riflettendo di volta in volta gusti, ideali, nuove urgenze di artisti e lettori.

La ricostruzione di una parabola evolutiva tanto affascinante e complessa è oggi offerta dal Dante per immagini di Lucia Battaglia Ricci, che indaga – non senza una rigorosa classificazione terminologica, atta a distinguere le diverse tipologie della traduzione in immagine dell’opera letteraria, e alcune importanti riflessioni di metodo – la lunga storia della ricezione del poema in ambito figurativo. Il lettore può così seguire, guidato dal nutrito apparato di tavole che arricchisce il volume, l’evolversi nel tempo dell’interesse di artisti e committenti per il poema di Dante e ripercorrere le tappe di un lungo percorso di trasposizione in figura del viaggio oltremondano narrato nella Commedia, dagli anni Trenta circa del Trecento, a sole poche lune dalla scomparsa del poeta, sino ai nostri giorni, con prevedibili proiezioni oltre i confini del volume stesso, lungo le linee di una storia di lettura e visualizzazione del poema molto probabilmente destinata a non interrompersi mai.

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Fotografie, frammenti pittorici, successioni cinematografiche: la declinazione plurale dell’immagine si adatta alla poliedrica attitudine alla visualità e ai ricettivi interessi manifestati da Elio Vittorini nel corso della sua intensa attività intellettuale. Lo scrittore siciliano rivela in più occasioni un’attenzione tutt’altro che saltuaria nei confronti dei linguaggi visivi e figurativi, talvolta elaborando personali possibilità di impiego delle immagini e oggettivando le proprie riflessioni in precise opere letterarie o in esperienze giornalistiche ‘d’autore’. La Galleria propone una panoramica ad ampio spettro del rapporto tra Vittorini e i codici visuali e, situando nel corpus dello scrittore un ideale punto di partenza, invita ad un’indagine che spazia dai contributi di matrice teorica e critica ai romanzi illustrati, alle curatele, alle collaborazioni con la stampa periodica, ai lavori editoriali che, a vario titolo, si pongono come specola di un’apertura alle potenzialità espressive delle immagini.

A inaugurare la mostra virtuale è la sezione intitolata L’impurità dello scatto, dedicata alla concezione e all’utilizzo della fotografia da parte di Vittorini; vi rientrano le dibattute forme fototestuali dell’antologia Americana e della settima edizione di Conversazione in Sicilia. La sezione ospita, inoltre, un recupero critico delle dichiarazioni dell’autore intorno allo statuto della fotografia e nuove letture della dimensione diegetica che contamina gli scatti disposti in sequenza, tanto nel campo narrativo, quanto nel settore della pubblicistica, all’interno del quale svetta lo straordinario laboratorio verbo-visivo del Politecnico e l’elaborazione del genere del ‘fotoracconto’ a firma di Luigi Crocenzi.

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«La sua storia era d’un Picasso italiano», afferma Vittorini tirando nel 1960 le somme del percorso della pittura di Renato Guttuso (Vittorini 2008, p. 929). Il nome di Picasso si incastra con determinazione tra quello di Vittorini e Guttuso, come se insieme dovessero formare una triade che orienta molte scelte espressive dalla fine degli anni Trenta in poi, implicando letteratura e pittura ma anche fotografia. Il punto di partenza potrebbe essere la guerra civile spagnola, l’evento storico dal quale Vittorini riceve il suo battesimo ideologico: «nell’offeso mondo si poteva esser fuori della servitù e in armi contro di essa» (Vittorini 1976, p. 213). Nel 1938 Guttuso dipinge un quadro dominato dalle molteplici variazioni tonali del rosso, la Fucilazione in campagna. Il modello risale a Los fusilamientos di Goya, ma anche a un quadro di Aligi Sassu, Fucilazione nelle Asturie, il soggetto riguarda la morte di Federico Garcia Lorca ucciso dai franchisti. Lorca è il primo tramite di Vittorini con la guerra di Spagna e con la pittura di Picasso (cfr. Vittorini 2008, p. 123n).

Nel 1941 Vittorini pubblica nella collana Pantheon di Bompiani un’antologia del Teatro spagnolo. Ad accompagnare i testi, Vittorini compie una scelta figurativa che attraversa la pittura spagnola e comprende El Greco, Velàzquez, Goya, e arriva fino a Picasso: Le bagnanti, Le amiche, e Toro di Spagna, i cui soggetti possono intonarsi alle atmosfere del poeta. L’anno seguente esce Nozze di Sangue, una antologia poetica di Lorca che prende il titolo dal suo dramma più famoso, Bodas de sangre. Vittorini però vuole tenere distante la pittura di Picasso dalla tecnica espressiva di Lorca, come se il poeta fosse legato a un’epoca anteriore rispetto allo sperimentalismo del pittore.

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6.1. Salinas e Clerici: Amor, mundo en peligro

di Alessandro Giammei

Dopo aver realizzato Frammenti di una sconfitta e Diario Bolognese di Sereni e Gentilini a metà del ’57, Riva si dedicò a lungo a questo secondo volume dei “Poeti Illustrati”. Uscito all’inizio dell’anno successivo e, al pari del precedente, «pubblicato a Milano da Vanni Scheiwiller» (come recita il colophon), Amor, mundo en peligro è il primo libro illustrato delle Editiones Dominicae a raggiungere, forse anche grazie alla natura non poi così privata della sua diffusione, un immediato prestigio internazionale. Compare infatti nel catalogo della mostra The artist and the book 1860-1960, tenutasi a Boston a fine decennio, e lo stampatore lo raccoglierà – insieme ad altri quattro tra i primissimi della serie – nella minima tiratura (sette esemplari) di Cinque poeti illustrati: una vera rarità bibliografica che celebra, nel ’64, la maturità del progetto editoriale.

Affidandosi a Fabrizio Clerici, allora già affermato pittore neo-barocco e post-metafisico, Riva sa di poter contare su un professionista dell’acquaforte e su un lettore raffinato. Appena compiuta la vetrata dedicata a Santa Caterina nella basilica senese di San Domenico e con alle spalle diversi libri illustrati realizzati con Mondadori, l’artista era, alla fine degli anni Cinquanta, in procinto di dedicarsi ad alcuni tra i maggiori cicli della sua carriera: quello del Principe per Laterza, quello, più tardo, per Il Milione introdotto da Moravia (e poi, in una riedizione, da Manganelli), e soprattutto quello monumentale per l’Orlando Furioso uscito, con un saggio di Bacchelli, in una preziosa edizione Electa ancora oggi oggetto di studio. Beniamino della società letteraria, profondamente ispirato dai classici e dagli scrittori suoi sodali, Clerici è scelto dallo stampatore veronese per la sua modernità sorniona, capace di rielaborare il Novecento maggiore senza angosce avanguardistiche. In Il mio dimestico torchio è infatti annoverato tra quegli illustratori che, nel panorama delle sue collaborazioni, «depongono tutt’altro che a favore di un tradizionalismo insensato e chiuso», nel segno di uno sperimentalismo tipografico estremamente consapevole della tradizione ma aperto a nuove soluzioni e insolite figurazioni, specie quando si tratta di sposare un’immagine a versi contemporanei.

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Galleria

di

     

Guardo, per così dire in anteprima, i quadri di Maccari che usciranno nella mostra della galleria La Tavolozza. Ed ecco che prendendo avvio e ritmo da quella (direbbe il lucchese Nieri) nudabruca che fa da chepì all’ufficiale austrungarico, tutte le donnine schizzano dai quadri a far carosello mentre nella memoria mi affiorano due versetti, sei nomi che quasi conferiscono a ciascuna una identità:

Lolo Dodo Joujou

Margot Cloclo Froufrou”.

Da dove vengono questi due versetti, questi sei nomi? La memoria cerca, trasceglie; e finalmente estrae, così come il pappagallino fa col pianeta della fortuna, un foglietto, una pagina.

L. Sciascia, Presentazione a Maccari alla «Tavolozza» (1970)

Come già in altre occasioni, il saggio di Sciascia dedicato a Maccari per la mostra allestita alla galleria La Tavolozza a Palermo prende avvio da un cortocircuito fra parole e immagini, innescato dalla lettura di un quadro, che – come ha notato Ferdinando Scianna a proposito del Ritratto fotografico come entelechia – si risolve in un affascinante reportage sui meccanismi della memoria involontaria dello scrittore. Le continue interferenze, i link che mettono costantemente in relazione gli scaffali della biblioteca e i quadri presenti nella galleria mentale di Sciascia, disegnano la struttura profonda che anima la sua saggistica. Forse perché la frequentazione di archivi, biblioteche, gallerie e atelier era una consuetudine estremamente piacevole nella giornata dello scrittore, i momenti più felici delle pagine dedicate alle arti figurative corrispondono all’appassionata ricerca delle concordanze segrete fra un quadro e la pagina di un romanzo, fra la visione del mondo di un pittore e quella di uno scrittore.

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Passione

di

     

Ecco un testo brevissimo ma essenziale: «Tutta la scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». È di Verga; e si trova in Eros, un romanzo in cui c’è poco di tale scienza. Ma aveva già scritto Verga la novella Nedda [...]. Ed è un caso ma come la storia del Verga grande comincia da quella fattoria del Pino alle falde dell’Etna, la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna durante un’eruzione che Natale Tedesco ha chiamato «la Guernica siciliana» [...]. Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso nella vita di uno scrittore, di un artista – che c’è del metodo nella follia del caso, come in quella d’Amleto. E un tale metodo ci porta alla fiamma – «troppo vicina forse» – da cui sorge, con la dolente figura di Nedda, la poetica di Giovanni Verga; alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione – eterna e atroce fuga dalla natura, dalla storia, da se stessa – la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga.

L. Sciascia, La semplificazione delle passioni (1971)

Se gli fosse stata data la possibilità di scegliere un mestiere, Sciascia avrebbe scelto ancora una volta il mestiere di scrittore perché gli piaceva vedere le sue mani sporche di inchiostro e sentire le sue dita battere intensamente sui tasti di una macchina da scrivere. Si divertiva a rappresentare la realtà umana con le parole e a scrutarne le pieghe e le ambiguità. Allo stesso tempo però lo seducevano i disegni, le chine, i pennelli e le sfumature cromatiche con le quali i suoi amici artisti lavoravano ogni giorno. Immancabili compagni di strada, pittori come Bruno Caruso, Fabrizio Clerici e Renato Guttuso accolsero lo scrittore nei loro studi, nei quali egli entrava sempre in punta di piedi. Per loro scrisse alcune delle pagine più incisive ma accostandosi alle tele non con l’occhio del critico d’arte ma con quello di «un appassionato incompetente». Fu negli atelier degli artisti che Sciascia segretamente coltivò la sua passione per l’arte, convinto com’era che ogni volta che nel cinema, nel disegno, nella pittura si tentava di esprimere ciò che l’uomo aveva dentro sogno, incubo, segreto o ricordo si faceva letteratura. Per questo amava circondarsi delle tele che gli artisti gli regalavano, gran parte delle quali andavano ad arricchire la sua collezione di ritratti e spesso, soffermandosi a guardarli, ne traeva un piacere intenso, «quasi un aiuto a vivere». A sedurlo maggiormente non erano tanto i colori forti quanto i bianchi e i neri che gli ricordavano più da vicino le linee virtuose dell’incisore, anche se non poteva rimanere indifferente dinanzi al rosso intenso utilizzato da Guttuso. Sicuramente Sciascia concordava con Pasolini, che vedeva in quel colore «il rosso di tutta la Storia» e senza dubbio per lui quei dipinti riassumevano il racconto di una passione. Di passioni comuni Sciascia e Guttuso ne condividevano parecchie, destinate a consolidare il loro rapporto di amicizia rimasto saldo fino al 1979 (anno in cui, per motivi politici, si consumò la rottura). A riprova della profonda stima che lo scrittore nutriva nei confronti del pittore rimangono i tanti scritti, datati tra il 1971 e il 1975, che Sciascia dedicò all’amico. Guardando le tele di Guttuso, egli aveva modo di ammirare l’approccio del pittore alla materia artistica ed era profondamente affascinato dalla prospettiva attraverso cui l’artista guardava e interpretava il mondo. Il suo privilegio, secondo Sciascia, risiedeva nell’essere appassionato della vita e nel riuscire con la stessa passione e lo stesso furore a rappresentarla sulla tela. Fuga dall’Etna durante un’eruzione, il primo grande quadro di figure del bagherese, colpisce più di ogni altro l’immaginario dello scrittore. Di fronte ad esso egli trova l’occasione per sviluppare acute riflessioni sulla pittura del conterraneo, affidate ad un saggio posto in apertura del catalogo di una mostra antologica, tenutasi nel 1971, sull’opera del pittore. In questo dipinto Sciascia scorge corpi di donne dai fianchi enormi, maschere deformi, occhi sgranati, un cavallo imbizzarrito più simile alla carogna di Baudelaire che al cavallo del Chisciotte. Il suo occhio si sofferma poi sulla popolazione martirizzata e in fuga, di cui il pennello di Guttuso aveva saputo cogliere il lamento. Per questa ragione le immagini sulla tela richiamano nella sua mente le pagine e le parole di un grande scrittore siciliano (Verga) che in altre forme si era fatto cantore di quel mondo da cui entrambi erano partiti per «semplificare le umane passioni».

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Ritratto

di

     

[…] Si riconosceranno?: domanda goyesca.

Risposta siciliana: no, non si riconosceranno.

Caruso lo sa bene come siamo, come viviamo, come moriamo. La morte non è, finalmente, uno specchio in cui riconoscersi ma ancora una menzogna in cui nasconderci. L’ultima menzogna. E la prepariamo, la lievitiamo, la custodiamo. E perciò vorremmo morire «prima». Prima di morire. Per vederci morti in anteprima, in prova generale: ché lo spettacolo fili, ché la menzogna funzioni oltre la morte. E quasi sempre funziona.

Restiamo in due a riconoscerci: Renato Guttuso (quando si è qualcuno: la stanchezza, il tedio, l’angoscia) e io. In quella specie di morte che è un ritratto.

L. Sciascia, Al modo di D’Ors: glossario sui disegni siciliani di Bruno Caruso (1972)

Piaceva molto a Sciascia l’Autoritratto da finto morto di Luigi Capuana, forse proprio perché esemplificava perfettamente quelle osservazioni che nascono a margine della lettura dei ritratti di Bruno Caruso: il ritratto come «anteprima», come «prova generale» dell’ultima ed estrema menzogna. L’equazione quasi perfetta fra ritratto e morte, che Sciascia trova nel serrato e ammiccante dialogo ekphrastico con le opere esposte da Caruso alla Galleria La Tavolozza nel 1972, congiunge del resto le sporadiche riflessioni sciasciane dedicate al ritratto figurativo (si ricordi in primo luogo il saggio L’ordine delle somiglianze, 1967; ma anche il breve commento ai Ritratti scultorei di Mario Pecoraino, 1978) alla più compiuta analisi condotta sul Ritratto fotografico come entelechia (1987). Prescindendo – inevitabilmente in questa sede – dall’evidenziare le intertestualità presenti nell’opera narrativa, non si può però non pensare a Sciascia collezionista di ritratti di scrittori, ma anche soggetto accondiscendente di ritratti pittorici, scultorei, fotografici, nonché promotore della mostra Ignoto a me stesso, allestita presso la Mole Antonelliana con gli scatti dei volti di molti autori (da Edgar Alla Poe a Jorge Luis Borges). L’esposizione dei pezzi della collezione raccolti da Sciascia con cura e passione da amateur d’estampes (allestita a Racalmuto nel 2008 e ora divenuta permanente), ancora con il titolo Ignoto a me stesso, rappresenta chiaramente la naturale prosecuzione di quella ideata nel 1987 e conferma inequivocabilmente l’ossessiva presenza dell’oggetto ‘ritratto’ nell’immaginario dello scrittore.

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Uomo

di

     

Marino ha nel mondo contadino immediate radici. Franco Grasso ha scritto che in lui «gli insegnamenti dell'impressionismo, del cubismo, del neorealismo sono stati assimilati all'aria aperta» e che la campagna nella sua pittura non è mai idillio bucolico ma voce «ascoltata da un uomo che vive a contatto diretto con la realtà umana, con le lotte per la terra e per il progresso della società». E come si possa fondere l'idea dell'uomo che a me pare d'intravvedere nella sua pittura – solitudine e, per dirla con una espressione di Saba «serena disperazione» – con questa sua aspirazione, con questa sua lotta, è problema che non tocca soltanto Marino, ma molti artisti e scrittori siciliani. 

L. Sciascia, Presentazione a Santo Marino (1963)

Ogni qual volta Sciascia si ferma a guardare le opere che i suoi amici artisti gli avevano regalato o che lui stesso aveva comprato nelle bancarelle di anticaglie in giro per il mondo, i suoi occhi si perdono a scrutare i ritratti di uomini. Quella per il ritratto è una passione irresistibile, allo scrittore piace infatti andare oltre il volto per ‘toccare’ le pieghe impresse sul viso, e in queste ritrovare l’uomo. La maggior parte delle volte, i ritratti gli ricordano quelli nati dalla sua penna, oppure capita, come nel caso dei soggetti rappresentati da Santo Marino, che lo scrittore ritrovi in essi i caratteri dell’uomo siciliano. Sono i quadri di Marino, di Fausto Pirandello (per il quale scrive una prefazione al catalogo di una mostra nel 1978), o di Aldo Pecoraino (per cui scrive invece delle brevi recensioni apparse sul «Corriere della Sera» nel 1985) a suggerire allo scrittore alcune delle riflessioni più intense sulla natura dell’uomo. Gli uomini che vede sulla tela gli appaiono come i protagonisti del mondo in cui vive ogni giorno, fatto di siepi e confini, gli ‘eroi’ di quella serena solitudine che, per dirla con Lawrence, faceva acquistare al siciliano «qualcosa della noncuranza ardita dei greci». La chiave per penetrare tali dipinti è appesa all’uscio, e Sciascia la afferra scoprendo che gli uomini soli – dipinti da Marino o Aldo Pecoraino – sono in fondo la proiezione stessa dei pittori, rimasti sempre a contemplare l’estrema solitudine nella loro Sicilia. Qui Sciascia ritrova l’anello che accomuna la propria condizione di intellettuale rimasto per sempre in Sicilia a quella degli artisti che hanno scelto di vivere nella loro «isolitudine». Ad attirarlo particolarmente sono dunque quelle personalità schive, che hanno chiuso la porta alla fama. Tra i tanti, il pensiero dello scrittore corre subito a Fausto Pirandello che, rifiutatosi di rivivere la vita del padre, rimane «uomo solo», preferendo restare un talento nell’ombra e sfuggendo dalla trappola del successo.

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