In questo duplice senso, così cogliendone l’essenza, possiamo dire che Piero Guccione ha «strologato» immagini dal Gattopardo: come dalla volta notturna che don Fabrizio contempla e che una di queste immagini rende con misteriosa e ineffabile profondità. Ed è da dire che nella storia del libro illustrato, delle interpretazioni in immagini di opere letterarie, non molti esempi abbiamo di così stretta congenialità, di così immediata e sottile affinità, paragonabili a questo incontro del siciliano Guccione col romanzo del siciliano Tomasi: onirico incontro, su una irredimibile realtà.

L. Sciascia, Guccione e “Il gattopardo” (1989)

Se riguardo all’annosa quaestio degli adattamenti cinematografici dei suoi romanzi Sciascia molto acutamente propende non tanto per la traduzione letterale quanto per la fedeltà «allo spirito, all’idea» (La Sicilia nel cinema), analogamente a proposito dell’illustrazione dei libri egli parla di «congenialità» e «affinità». A dispetto di ogni considerazione agonica del rapporto fra parole e immagini, lo scrittore ritiene che le illustrazioni di un romanzo, al di là del valore estetico che può rendere il libro un «bellissimo oggetto», possano realizzare talvolta un «non casuale rapporto tra uno scrittore e un artista». La prima edizione delle poesie sciasciane, pubblicate dall’editore Bardi nel 1952 e accompagnate da cinque disegni di Emilio Greco, oppure le acqueforti realizzate da Bruno Caruso per l’edizione del Mare colore del vino del 1984, sono soltanto due esempi delle varie edizioni illustrate a tiratura limitata delle opere sciasciane. Del resto, la predilezione di Sciascia per artisti e grandi illustratori come Bruno Caruso e Fabrizio Clerici non è casuale. D’altro canto, per uno come Sciascia, «che sta più vicino ai libri che alle pitture», l’accostamento di uno scrittore allo stile figurativo di un artista è vòlto alla ricerca di una «chiave per leggere la pittura». Ciò è evidente nel caso di Santo Marino (che «sarebbe ottimo illustratore dei libri di Verga»), per il quale Sciascia evoca l’affinità etica con la visione del mondo dell’autore dei Malavoglia, e nel caso di Guttuso, che egli vede sotto una «luce verghiana come personaggio sconfitto nel momento stesso in cui vince». E la ‘chiave letteraria’ viene proposta ancora quando Sciascia scopre una qualche coloritura brancatiana nei quadri del catanese Jean Calogero; quando coglie una più improbabile analogia nella pittura fantastica e surreale di Giuseppe Modica con lo «storico visionario» Michele Amari; e infine quando individua una sorta di ‘funzione Stendhal’ che accomuna artisti come Clerici, Savinio e Tranchino.

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Uomo

di

     

Marino ha nel mondo contadino immediate radici. Franco Grasso ha scritto che in lui «gli insegnamenti dell'impressionismo, del cubismo, del neorealismo sono stati assimilati all'aria aperta» e che la campagna nella sua pittura non è mai idillio bucolico ma voce «ascoltata da un uomo che vive a contatto diretto con la realtà umana, con le lotte per la terra e per il progresso della società». E come si possa fondere l'idea dell'uomo che a me pare d'intravvedere nella sua pittura – solitudine e, per dirla con una espressione di Saba «serena disperazione» – con questa sua aspirazione, con questa sua lotta, è problema che non tocca soltanto Marino, ma molti artisti e scrittori siciliani. 

L. Sciascia, Presentazione a Santo Marino (1963)

Ogni qual volta Sciascia si ferma a guardare le opere che i suoi amici artisti gli avevano regalato o che lui stesso aveva comprato nelle bancarelle di anticaglie in giro per il mondo, i suoi occhi si perdono a scrutare i ritratti di uomini. Quella per il ritratto è una passione irresistibile, allo scrittore piace infatti andare oltre il volto per ‘toccare’ le pieghe impresse sul viso, e in queste ritrovare l’uomo. La maggior parte delle volte, i ritratti gli ricordano quelli nati dalla sua penna, oppure capita, come nel caso dei soggetti rappresentati da Santo Marino, che lo scrittore ritrovi in essi i caratteri dell’uomo siciliano. Sono i quadri di Marino, di Fausto Pirandello (per il quale scrive una prefazione al catalogo di una mostra nel 1978), o di Aldo Pecoraino (per cui scrive invece delle brevi recensioni apparse sul «Corriere della Sera» nel 1985) a suggerire allo scrittore alcune delle riflessioni più intense sulla natura dell’uomo. Gli uomini che vede sulla tela gli appaiono come i protagonisti del mondo in cui vive ogni giorno, fatto di siepi e confini, gli ‘eroi’ di quella serena solitudine che, per dirla con Lawrence, faceva acquistare al siciliano «qualcosa della noncuranza ardita dei greci». La chiave per penetrare tali dipinti è appesa all’uscio, e Sciascia la afferra scoprendo che gli uomini soli – dipinti da Marino o Aldo Pecoraino – sono in fondo la proiezione stessa dei pittori, rimasti sempre a contemplare l’estrema solitudine nella loro Sicilia. Qui Sciascia ritrova l’anello che accomuna la propria condizione di intellettuale rimasto per sempre in Sicilia a quella degli artisti che hanno scelto di vivere nella loro «isolitudine». Ad attirarlo particolarmente sono dunque quelle personalità schive, che hanno chiuso la porta alla fama. Tra i tanti, il pensiero dello scrittore corre subito a Fausto Pirandello che, rifiutatosi di rivivere la vita del padre, rimane «uomo solo», preferendo restare un talento nell’ombra e sfuggendo dalla trappola del successo.

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