Ritratto

di

     

[…] Si riconosceranno?: domanda goyesca.

Risposta siciliana: no, non si riconosceranno.

Caruso lo sa bene come siamo, come viviamo, come moriamo. La morte non è, finalmente, uno specchio in cui riconoscersi ma ancora una menzogna in cui nasconderci. L’ultima menzogna. E la prepariamo, la lievitiamo, la custodiamo. E perciò vorremmo morire «prima». Prima di morire. Per vederci morti in anteprima, in prova generale: ché lo spettacolo fili, ché la menzogna funzioni oltre la morte. E quasi sempre funziona.

Restiamo in due a riconoscerci: Renato Guttuso (quando si è qualcuno: la stanchezza, il tedio, l’angoscia) e io. In quella specie di morte che è un ritratto.

L. Sciascia, Al modo di D’Ors: glossario sui disegni siciliani di Bruno Caruso (1972)

Piaceva molto a Sciascia l’Autoritratto da finto morto di Luigi Capuana, forse proprio perché esemplificava perfettamente quelle osservazioni che nascono a margine della lettura dei ritratti di Bruno Caruso: il ritratto come «anteprima», come «prova generale» dell’ultima ed estrema menzogna. L’equazione quasi perfetta fra ritratto e morte, che Sciascia trova nel serrato e ammiccante dialogo ekphrastico con le opere esposte da Caruso alla Galleria La Tavolozza nel 1972, congiunge del resto le sporadiche riflessioni sciasciane dedicate al ritratto figurativo (si ricordi in primo luogo il saggio L’ordine delle somiglianze, 1967; ma anche il breve commento ai Ritratti scultorei di Mario Pecoraino, 1978) alla più compiuta analisi condotta sul Ritratto fotografico come entelechia (1987). Prescindendo – inevitabilmente in questa sede – dall’evidenziare le intertestualità presenti nell’opera narrativa, non si può però non pensare a Sciascia collezionista di ritratti di scrittori, ma anche soggetto accondiscendente di ritratti pittorici, scultorei, fotografici, nonché promotore della mostra Ignoto a me stesso, allestita presso la Mole Antonelliana con gli scatti dei volti di molti autori (da Edgar Alla Poe a Jorge Luis Borges). L’esposizione dei pezzi della collezione raccolti da Sciascia con cura e passione da amateur d’estampes (allestita a Racalmuto nel 2008 e ora divenuta permanente), ancora con il titolo Ignoto a me stesso, rappresenta chiaramente la naturale prosecuzione di quella ideata nel 1987 e conferma inequivocabilmente l’ossessiva presenza dell’oggetto ‘ritratto’ nell’immaginario dello scrittore.

Il concetto di entelechia, la parola a cui approda l’inquieta ricerca di Sciascia intorno all’essenza della fotografia, si offre come punto di arrivo di una riflessione nata a margine dell’osservazione di tanti ritratti pittorici e fotografici. L’anello di congiunzione delle glosse a Caruso e della definizione di ritratto fotografico sta proprio nell’avvicinamento a quella «specie di morte» rappresentata nel ritratto. Il termine entelechia nasce dalla lettura delle pagine della Chambre claire, dedicate da Barthes alla ricerca della foto più autentica, più attendibile, della madre morta, e degli scatti di Pedriali realizzati pochi giorni prima dell’uccisione di Pasolini. Il saggio peraltro si apre con la citazione di Praz che demolisce il luogo comune della maggiore somiglianza della fotografia rispetto alla pittura. Lo spostamento dal «fisico al metafisico» che, secondo lo scrittore siciliano, fa emergere con più evidenza la particolare forma di «attendibilità» del ritratto fotografico (e permette di cogliere nella foto «il luogo geometrico dell’esistenza», in cui in entelechia si riverberano il presente, il passato e il futuro, la vita e la morte del soggetto rappresentato), conserva però le tracce di tanti ‘riconoscimenti’ avvenuti nello specchio delle incisioni, delle acqueforti, dei disegni, dei dipinti (che ritraggono scrittori) da Sciascia collezionati. Riconoscimenti mai perfetti perché lo scrittore è, ed è destinato a rimanere, «tra gli uomini il più “ignoto a se stesso”».