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Il mondo delle arti visive ha riguardato profondamente la vita e il lavoro di Elsa de’ Giorgi. In particolar modo, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta – ovvero nel tratto di storia che ha visto l’attrice legarsi alla famiglia di antiquari Contini Bonacossi – la de’ Giorgi ha potuto meditare a lungo sui grandi capolavori degli Old Masters, frequentando una delle raccolte più importanti d’Europa. Una meditazione che rileggiamo ora attraverso una poesia inedita, scritta da Elsa nella primavera del 1964, che rivela un nuovo e prezioso tassello critico di un’autrice infinita.

The world of the visual arts profoundly affected Elsa de’ Giorgi’s life and work. In particular, from the late 1940s to the mid-1950s – i.e. in the stretch of history that saw the actress linked to the Contini Bonacossi family of antiquarians – De Giorgi was able to meditate at length on the great masterpieces of the Old Masters, frequenting one of the most important collections in Europe. A meditation that we now reread through an unpublished poem, written by Elsa in the spring of 1964, which reveals a new and precious critical piece of a never-ending author.

I rapporti tra Elsa de’ Giorgi e il mondo dell’arte sono avvenuti in maniera direi quasi naturale nel corso della sua precoce e lunga carriera, appunto, artistica. Se già con la parola ‘artista’ si potrebbe definire chi, come nel caso della de’ Giorgi, sia riuscito con serietà, e una certa grazia, a interpretare più ruoli tra cinema, teatro e letteratura.[1]

Ma basterebbe pensare alle amicizie, le frequentazioni, le vicissitudini sentimentali che l’attrice e scrittrice, nata a Pesaro il 26 gennaio del 1914, ha saputo coltivare con tantissime personalità del grande sistema delle arti. E dico sistema delle arti perché i nomi propri che si avvicendano, direttamente o indirettamente, nella sua vita sono quelli di Carlo Levi, Leoncillo, Guttuso, Pier Paolo Pasolini, Bernard Berenson, per stare solo a qualche esempio. E dunque pittori, scultori, registi, scrittori, critici, storici dell’arte. Di ciascuno di loro Elsa comprende lo stile, la poetica, la filosofia e quindi la qualità, il livello, la grandezza. Mi pare che sia questo ciò che più sorprende di quest’autrice.

Elsa de’ Giorgi non è una testimone di un bel periodo storico, non una sopravvissuta e né una marginale spettatrice di un’età dell’oro della cultura italiana (come spesso hanno voluto perimetrarla i suoi detrattori). Elsa de’ Giorgi ha una dote innata: è munita di un gusto sicuro, una sorta di radar per i valori dell’arte che sa riconoscere, comprendere e riversare in tutto ciò che fa, nel suo lavoro: sublimando la citazione in gesto critico.

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Lo spazio delle Scuderie del Quirinale è aperto da una vasta scalinata a chiocciola che dal piano di accesso si solleva fino al livello superiore, dove inizia la prima delle due grandi gallerie. Per inoltrarsi nel percorso al visitatore resta da attraversare uno spazio di raccordo, prima stazione della mostra Favoloso Calvino (13 ottobre 2023 - 4 febbraio 2024, Roma, Scuderie del Quirinale) che si affaccia sulla pendenza delle scale. Con il disegno di una spirale e una stanza-balcone sopra le linee spezzate dei gradini, l’ingresso all’antica rimessa delle carrozze papali somiglia molto alla forma del mondo secondo Italo Calvino. Una corrispondenza affidata alla voce dell’autore in una sequenza di citazioni estratte dal testo Dall’opaco e proiettate sulla parete al termine della scalinata, come istruzioni implicite per guadare tutto quello che segue.

La mostra racconta l’impronta visiva del mondo nel pensiero e nella scrittura di Calvino attraverso un reticolo di immagini, oggetti e parole sospese sulle griglie di legno che forniscono il supporto verticale dell’esposizione. Queste impalcature ‘aeree’ determinano l’impatto visuale dell’allestimento formando un dedalo di scacchiere trasparenti capaci di filtrare lo sguardo di chi avanza sulle sale, in un continuo omogeneo ma fatto di moduli e strutture a vista.

Il percorso procede per undici serie che seguono sottotraccia, ma tutte ugualmente e ordinatamente rappresentate, le fasi della biografia intellettuale di Calvino, esplicitando i punti di snodo di un ritratto completo: il grande ritratto d’autore nel suo centenario. Prima indicazione di metodo e di lettura è la presenza di coppie di valori opposti nelle sezioni che si articolano fra «lo spazio fisico dei campi» e «lo spazio immaginario» del cinema e della letteratura (2. Natura vs artificio), fra 5. Il reale e il fantastico, fra il remoto/immenso e il vicino/piccolo (7. Tutto il cosmo, qui e ora). Altre sezioni sono dichiaratamente tematiche (3. La guerra, la politica; 4. Ritratti di Calvino; 10. Viaggi e descrizioni) o anticipano nel titolo la centralità di un’opera: 6. «Le fiabe sono vere»; 8. Mescolando le carte; 9. L’atlante delle città (in)visibili. Aprono e chiudono l’esposizione due emblemi dell’immaginario di Calvino, 1. L’albero e 11. Cominciare e ricominciare, che esprimono matrici profonde dello stile e dell’impegno intellettuale dell’autore. Le didascalie e i pannelli firmati da Mario Barenghi punteggiano il viaggio dello spettatore/lettore disegnando ora linee invisibili fra le diverse pareti della mostra, ora immersioni nelle radici più o meno esplorate della scrittura calviniana. Ogni volta che il curatore commenta una forma, un’opera, un’immagine sta descrivendo le pagine dell’autore: «un albero è prima di tutto una forma dello spazio. Dunque un emblema dal duplice valore: da una parte lo slancio verso l’alto, verso una sommità propizia all’estensione dello sguardo […], dall’altro il dispiegarsi delle fronde, la ramificazione, cioè il diramarsi di connessioni, sviluppi».

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Nel maggio del 1973, intervenendo a un convegno romano dedicato a Jung e la cultura europea, Giorgio Manganelli si rivolgeva alla platea di addetti ai lavori con parole destinate a rimanere forse una delle formule più efficaci per compendiare la relazione tra lo sguardo di un autore così anomalo nel panorama culturale italiano e le arti in generale, di là da quella prettamente letteraria. Una sorta di invocazione e, insieme, di rivendicazione che così si presentava: «spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo qualche cosa da dirci, perché è lì che la letteratura funziona, perché è lì che funziona la pittura, che funziona la musica e tutto il resto è littérature ma nel senso contrario naturalmente, è la cattiva letteratura».[1] Una formula – se così si può definire, nel suo sibillino andamento – che istituisce un’inscindibile relazione multipla, dunque, tra il reale, la facoltà di percepirlo nella sua radicalità e profondità, la capacità di fare di quella percezione letteratura, pittura, musica o arte in generale non cattiva (crudele, piuttosto, in senso artaudiano) e, infine, la possibilità di fare di quelle forme d’arte equivalenti forme di relazione e comunicazione tra esseri viventi. Comunicazione e relazione, però, che si muovono nella direzione opposta alle possibilità e alle illusioni di dire, di trasmettere, di esprimere e comprendere chiaramente e univocamente. Appunto, comunicazione e relazione attraverso l’incubo, piuttosto. Perché se – seguendo la devozione manganelliana verso gli oscuri e carsici percorsi negli etimi e nelle origini delle parole – interroghiamo l’etimologia di ‘incubo’ giungiamo nei territori del perturbante e dell’estraneità assoluta anche rispetto a colui che dorme e che ne fa esperienza: se il sogno chiama in causa immagini che si manifestano al dormiente dalla sua interiorità e che in qualche modo misterioso, dunque, a un certo grado ancora gli appartengono, l’incubo si configura, invece, come un essere, una creatura distinta dal dormiente stesso, che ha del demoniaco e che su di esso giace opprimendolo dall’esterno in stati di alterazione febbrile e, talvolta, congiungendovisi carnalmente. Così, è allora nei regni del neutro, dell’estraneo e del recondito, di un’usurpazione di ogni pretesa di comunicare e di entrare in relazione che – sembra dirci Manganelli in quella manciata di parole – avviene la relazione e la comunicazione più profonda attraverso quell’intreccio tra reale, percezione e arte. Non per trasmissione consapevole mediata dalla volontà, ma per immediato e sotterraneo contagio incosciente. Per ‘emigrazioni oniriche’, insomma.

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Inaugurata al principio di marzo del 2022 nel sottopasso di Re Enzo a Bologna, in occasione del centenario della nascita, la mostra dedicata a Pasolini riunisce idealmente la sua formazione universitaria, letteraria e storico artistica, acquisita nelle aule di via Zamboni, con gli esiti meno prevedibili del suo talento polimorfo: il cinema.

Al cinema Pasolini approda nel 1960, quando propone a Fellini di produrre la sceneggiatura cui ha lavorato durante l’estate e che, dopo il rifiuto di Fellini e il passaggio ad Alfredo Bini, diventerà Accattone. Fin da questo debutto, girato con pochissimi mezzi, emerge come caratteristica dello stile cinematografico pasoliniano la scelta di soggetti umili, di personaggi e storie ai margini che il regista sembra estrapolare dall’irrilevanza con una fitta rete di riferimenti alla storia dell’arte.

Come Caravaggio prendeva i propri modelli dalla strada per poi calarli nella solennità di un racconto biblico o evangelico, così fa Pasolini risalendo a genealogie di costumi, gesti e fisionomie sedimentati nel profondo della sua cultura visiva.

La mostra esplora dunque il legame fra arte e cinema, e non a caso questo avviene a Bologna. Come se Pasolini avesse contribuito a descrivere ante litteram una traiettoria possibile, la Cineteca di Bologna è diventata un luogo imprescindibile per i cinéphiles di tutto il mondo e, tra le molte attività che la contraddistinguono, da anni ordina e rende accessibili i materiali dell’Archivio Pier Paolo Pasolini. Questa circolarità non è solo una coincidenza topografica legata alla città felsinea, e a un legame più volte dichiarato dallo stesso Pasolini, ma è un sigillo stesso dell’esposizione che si apre con la fotografia dell’aula lunga e stretta dove seguì i corsi di Roberto Longhi e si chiude con gli scatti di Dino Pedriali che lo ritraggono, nell’ottobre del ’75, nella casa-torre di Chia intento a disegnare il profilo dell’amatissimo maestro: da Longhi a Longhi.

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Nel periodo che va dal dicembre del 1966 al maggio del 1968 lo spazio del Piper pluriclub ospita mostre ed eventi che hanno per protagonisti artisti, musicisti, scrittori, cineasti. Frequentano abitualmente il locale, tra gli altri, Gian Enzo Sperone, Mario Tazzoli, Michelangelo Pistoletto, Gianni Piacentino, Piero Gilardi, Pietro Gallina, Colombotto Rosso, Anne Marie Sauzeau e Alighiero Boetti, Ugo Nespolo, Marisa e Mario Merz, Max Pellegrini. Chi espone delle cose e compie delle azioni si trova coinvolto in una trasformazione dei linguaggi che ha nello spazio e nella relazione, con il pubblico e con l’opera, uno dei termini irrinunciabili, unito a un’attitudine sperimentale e carnevalesca. 

In the period from December 1966 to May 1968, the Piper multi-club space hosted exhibitions and events featuring artists, musicians, writers and filmmakers. Regular visitors included Gian Enzo Sperone, Mario Tazzoli, Michelangelo Pistoletto, Gianni Piacentino, Piero Gilardi, Pietro Gallina, Colombotto Rosso, Anne Marie Sauzeau and Alighiero Boetti, Ugo Nespolo, Marisa and Mario Merz, Max Pellegrini. Whoever exhibits things and performs actions finds himself involved in a transformation of languages that has in space and in relationship, with the public and with the artwork, one of the indispensable terms, combined with an experimental and carnivalesque attitude. 

Nei tre anni della sua esistenza si succedono al Piper pluriclub mostre ed eventi che hanno per protagonisti artisti, musicisti, scrittori, cineasti. Frequentano abitualmente il locale, tra gli altri, Gian Enzo Sperone, Mario Tazzoli, Michelangelo Pistoletto, Gianni Piacentino (che vi si esibisce anche come disc-jockey), Piero Gilardi e, ancora, Pietro Gallina, Colombotto Rosso, Anne Marie Sauzeau e Alighiero Boetti, Ugo Nespolo, Marisa e Mario Merz, Max Pellegrini. Chi espone delle cose e compie delle azioni si trova coinvolto in una trasformazione dei linguaggi che ha nello spazio e nella relazione che, attraverso questo, si innesca con il pubblico e con l’opera, uno dei termini irrinunciabili, unito a un’attitudine sperimentale, divertita e carnevalesca di fondo. D’altronde, proprio la ricerca di un dialogo al di fuori dello spazio canonico della galleria d’arte, contraddistingue altre scelte di questi anni, come l’apertura del proprio studio al pubblico da parte di Michelangelo Pistoletto (1967) o la fondazione, sempre lo stesso anno, su iniziativa di Marcello Levi, dell’associazione Deposito d’Arte Presente (DDP), uno spazio di 450 mq in via San Fermo 3, autogestito dagli associati. Ma lo spostamento della pratica artistica visiva alla forma azione che si va compiendo al Piper, trova appunto un particolare carattere di festa e improvvisazione che sembra coinvolgere contemporaneamente, ma separatamente, arte e teatro, valorizzando la portata irriverente e ‘speciale’ di eventi non squisitamente espositivi e creando una sorta di comunità che ruota attorno allo spazio. A ciò si aggiunge un’estetica nuova che somma alcune delle idee vicine al radical design a un’attitudine naturalmente sperimentale e aperta nella concezione del locale come degli allestimenti e della comunicazione, affidata a Clino Trini.

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La storia del Piper di Torino ha inizio a Roma dove, il 17 febbraio 1965, viene inaugurata la discoteca Piper in via Tagliamento, fondata dall’avvocato Alberigo Crocetta, con l’aiuto del commerciante di automobili Giancarlo Bornigia e l’importatore di carni Alessandro Diotallevi. Lo spazio diviene presto un luogo frequentatissimo e l’icona di un’intera generazione. Il progetto è degli architetti Francesco e Giancarlo Capolei e Manlio Cavalli, mentre il murale di fondo del palcoscenico, Giardino per Ursula, composto da due dipinti e da materiale eterogeneo assemblato e aggettante, oggi perduto, è realizzato dall’artista Claudio Cintoli. Dalla serata d’esordio, che vede suonare The Rokes e l’Equipe 84, il locale diventa la sede di performance dei principali gruppi della scena musicale beat e punto nevralgico della vita notturna romana, raccogliendo frequentazioni dal mondo dello spettacolo e dell’arte. Il successo commerciale del Piper di Roma è tale da indurre i fondatori a pensare di aprire un altro locale, ispirato a quello romano, a Torino.

Siamo nel 1966 e, per la scena artistica e teatrale della città, è un momento cardine. Una serie di mostre, eventi, spettacoli e azioni che animano locali e gallerie torinesi sono, al di là del loro carattere innovativo, il segno di un tessuto culturale particolarmente vivace e ricco di relazioni.

Il 5 maggio l’Unione Culturale riapre in veste rinnovata la propria sede, a Palazzo Carignano, con Mysteries and Smaller Pieces del Living Theatre, cui segue una programmazione che include, fra gli altri, le Letture-spettacolo per la storia del teatro contemporaneo con la regia, le scene e i costumi di Carlo Quartucci, The New American Theatre a ottobre, Les bonnes di Jean Genet con Julian Beck nel novembre. Organizzatore infaticabile è Edoardo Fadini.

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La fine degli anni Cinquanta vede inasprirsi l’antinomia fra spazio e gesto mentre, in contemporanea, molte delle ritrosie e delle contrapposizioni che avevano caratterizzato l’arte visiva del primo dopoguerra sembrano sciogliersi. Nei primi anni Sessanta si assiste per la prima volta al costituirsi di un luogo ‘galleria’ inteso non solo come bacino di sperimentazione, ma anche come spazio di verifica della tenuta formale dell’opera d’arte visiva nella sua variabile temporale. La commistione fra discipline diverse, l’emergere di una possibilità reale di costruire quel mondo nuovo tanto desiderato, pongono le basi per azioni dove il singolo artista inizia a entrare in una relazione costante con il suo pubblico e con la sua comunità di riferimento. Se da una parte le istituzioni museali italiane si aprono ad aree più sperimentali, dall’altra gli artisti non cercano più il museo come garanzia di certificazione, piuttosto l’informalità del ‘convivio’ diventa premessa al non voler essere identificati nel sistema produttivo, sentimento che sarà tipico delle riflessioni della generazione del Sessantotto. Pur nella loro variabilità questi fenomeni sono accomunati da un intenzionale allontanarsi dell’artista dalla sua tradizionale funzione di artefice, attraverso una progressiva mimetizzazione della sua identità all’interno del gruppo, sia esso inteso come collettivo sociale che come pubblico guardante.

The end of the 1950s saw a sharpening of the antinomy between space and gestures; at the same time, many of the reservations and conflicts that had characterised visual art in the early post-war period seemed to dissolve. In the early 1960s, a ‘gallery’ place was created for the first time, which was intended not only as a venue for experimentation, but also as a space for verifying the formal consistency of works of visual art in terms of their temporal dimension. The mixing of different fields, as well as the emerging possibility of building a much-desired new world, lay the foundations for actions whereby the individual artist begins to establish a continuing relationship with their audience and their community of reference. While on the one hand Italian museum institutions opened up to more experimental areas, on the other artists no longer looked to museums as guarantors; rather, the informality of the ‘banquet’ served as a premise for not wanting to be identified with the production system; this sentiment went on to become typical of the reflections of the 1968 generation. In spite of their variability, these phenomena are united by an intentional distancing of the artist from their traditional function as creators through a progressive blending of their identity within the group, whether this be understood as a social collective or as a viewing audience.

Ma l’errore comune era sempre credere che tutto si potesse

trasformare in poesia e parole. Ne conseguì un disgusto di poesia e parole,

così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole,

per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea.

Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle

per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi,

o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione (…).

E il tempo che seguì fu come il tempo che segue l’ubriachezza,

e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono,

in un modo o nell’altro, ingannati e traditi: sia quelli

che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano,

o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla.

Così ciascuno riprese solo e malcontento, la sua strada.[1]

Natalia Ginzburg, Lessico famigliare

 

 

La rinegoziazione fra artista e spazio espositivo subisce alla fine degli anni Cinquanta una decisiva accelerazione. Il nuovo decennio vede inasprirsi l’antinomia fra spazio e gesto mentre, in contemporanea, molte delle ritrosie e delle contrapposizioni che avevano caratterizzato l’arte visiva del primo dopoguerra sembrano sciogliersi. La difficoltà a trovare una collocazione all’interno dello spazio si riflette nella stessa difficoltà a individuare una funzione definita all’interno della società.[2] Una problematica che andrà risolvendosi solo con i movimenti contestatori nel passaggio al decennio successivo. Di fatto nel corso degli anni che saranno trattati in questo testo la funzione intellettuale dell’artista si trova in una sorta di limbo identitario, stretta fra il sostanziale rifiuto di una possibile organicità e la mancanza di un modello di aggregazione alternativo alla logica di partito. L’esperienza del teatro di strada messa in atto dal gruppo Lo Zoo fondato da Michelangelo Pistoletto sarà citata in questo testo per connettere fenomeni all’apparenza lontani fra loro e tentare una connessione fra le sensibilità performative di alcuni artisti che operano nell’ambito romano come Jannis Kounellis, Eliseo Mattiacci e Pino Pascali. I lavori, e i tentativi, di questi artisti saranno analizzati alla luce della dialettica fra spazio espositivo e luogo esterno, in una costante oscillazione fra dimensione pubblica e privata, prendendo in considerazione i fenomeni di autonarrazione evidenti nelle fonti fotografiche e documentarie su cui si basa la lettura di questi anni. Questa generazione, nata nel corso degli anni della guerra, condivide una forte speranza nel cambiamento sociale e una tendenza a voler riscrivere i lemmi e i canoni dell’arte. Il crescente benessere economico attraverso il quale il Paese gradualmente si rialza dalle difficoltà postbelliche – e i derivanti bisogni e desideri sociali di cui in questi anni ancora non si percepiscono i pericoli – è generato in prima battuta dall’immissione di finanziamenti del Piano Marshall.[3] Il proliferare di aperture di gallerie nelle città italiane ne è la diretta conseguenza: inizia ad affacciarsi al mercato dell’arte un nuovo pubblico, più consapevole e più aperto alla conoscenza di linguaggi alternativi.

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Non se ne avrà a male, spero, Francesco Muzzioli, se per iniziare prendo a prestito e a pretesto un passaggio da una sua recente recensione – ‘Il Sanguineti illustrato’, apparsa il 24 febbraio sul blog Critica integrale – per la precisione il luogo dove, dopo aver regalato ai commentatori futuri di Sanguineti un’informazione privata («Commentatori futuri, appuntatevelo: vi potrebbe servire»), aggiunge: «Neanche tanto futuri; perché di commentatori giovani del Sanguineti ce ne sono già vari, per fortuna. E tra essi Chiara Portesine». Rilancio: Portesine non è il futuro, bensì il solido presente. È già il presente perché con il suo lavoro prezioso sugli archivi, che l’ha condotta alla pubblicazione in due volumi delle Poesie edite e inedite di Corrado Costa (Argolibri, 2021) e di un saggio rivoluzionario sul rapporto – davvero una forma emblematica di angoscia dell’influenza – tra i massimi poeti italiani del secondo Novecento (‘Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto: storia di un tributo intermittente’, Italianistica, 1, 2018, pp. 257-282), poi arricchito e approfondito nel recente numero monografico del verri su Zanzotto (‘«Una febbriciattola di lieve paranoia». Varianti “novissime” nella Beltà’, il verri, 77, 2021, pp. 105-117), senza dimenticare un affondo interessante su Emilio Villa (‘«Tarocchi» o «variazioni»? La collaborazione tra Emilio Villa e Corrado Cagli’, Letteratura & Arte, 15, 2017, pp. 189-200), e l’imminente prefazione alla sospiratissima ristampa – la prima dopo la princeps del 1964 – de L’oblò di Adriano Spatola, Portesine ha donato al panorama degli studi sulla poesia della nuova avanguardia e dintorni una gran quantità di nuovo inestimabile materiale e insieme un approccio rigoroso, che sposa con naturalezza il filologico con l’ermeneutico, sebbene di solito si tratti di fratelli nemici o di separati in casa.

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Da quando Agnès Varda, regista francese di origini belghe classe 1928, ci ha lasciati nel 2019 tante proiezioni fisiche o in streaming e la pubblicazione in cofanetto di tutti i suoi film hanno continuato a rievocarne la lezione attraverso la sua produzione quasi irriducibile per ricchezza e varietà. Per questo fra immagini e parole, in omaggio anche alla sua idea di cinescrittura, si è scelto di presentarne idee, opere ed eredità attraverso un ‘alfabeto vardiano’ che propone un indice per un orientamento ragionato.

Since Agnès Varda (the French film director born in Belgium on 1928) left us in 2019, many physical or online screenings or promotions through DVD boxes of all her films have continued to evoke her lessons through her irreducible production for its richness and variety. For this reason, between images and words in honor to her concept of cine-writing, we have chosen to present her ideas, works, and legacies through an alphabet about them in order to propose a reasoned introduction.

 

 

 

 

Arti

Agnès Varda non approda al cinema con un canonico percorso di formazione ed è forse questo che ha reso quasi naturale la sua continua sperimentazione autoriale, contrassegnata dall’appropriazione spontanea di ogni tipo di linguaggio fra cinema, televisione, letteratura, arti figurative e plastiche.

Nata nel sud della Francia, da madre francese e padre greco, dopo i primi studi letterari a Parigi, si dedica alla storia dell’arte per diventare curatrice museale. È la fotografia, però, l’incontro più incisivo grazie alla frequentazione di una scuola che la porterà a lavorare per molti anni come fotografa, soprattutto di scena.

Di quest’humus resta la propensione alla commistione artistica di generi mediali, modalità espressive e riferimenti culturali in ogni sua attività e produzione visuale. Il lavoro di Agnès Varda con le immagini prosegue infatti quasi in ogni direzione.

Nei suoi film si ritrovano fotografia, animazione, vignette, cartoline, elementi figurativi, opere scultoree e architettoniche. Sin dal 1967, poi, lavora per la televisione con il corto Les engants du Musée (per la serie Chroniques de France), cui segue il successivo film televisivo Nausicaa del 1970 sugli esiliati in Francia dalla Grecia dei Colonnelli (mai trasmesso in realtà e andato distrutto). Anche questo mezzo diventa per lei motivo di sperimentazione: in Une minute pour une image (1983), episodio per una serie, mostra per sessanta secondi un’unica immagine. Con il passaggio al digitale, si dedica a un’intera miniserie televisiva nel 2011, Agnès de ci de là Varda.

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