Inaugurata al principio di marzo del 2022 nel sottopasso di Re Enzo a Bologna, in occasione del centenario della nascita, la mostra dedicata a Pasolini riunisce idealmente la sua formazione universitaria, letteraria e storico artistica, acquisita nelle aule di via Zamboni, con gli esiti meno prevedibili del suo talento polimorfo: il cinema.
Al cinema Pasolini approda nel 1960, quando propone a Fellini di produrre la sceneggiatura cui ha lavorato durante l’estate e che, dopo il rifiuto di Fellini e il passaggio ad Alfredo Bini, diventerà Accattone. Fin da questo debutto, girato con pochissimi mezzi, emerge come caratteristica dello stile cinematografico pasoliniano la scelta di soggetti umili, di personaggi e storie ai margini che il regista sembra estrapolare dall’irrilevanza con una fitta rete di riferimenti alla storia dell’arte.
Come Caravaggio prendeva i propri modelli dalla strada per poi calarli nella solennità di un racconto biblico o evangelico, così fa Pasolini risalendo a genealogie di costumi, gesti e fisionomie sedimentati nel profondo della sua cultura visiva.
La mostra esplora dunque il legame fra arte e cinema, e non a caso questo avviene a Bologna. Come se Pasolini avesse contribuito a descrivere ante litteram una traiettoria possibile, la Cineteca di Bologna è diventata un luogo imprescindibile per i cinéphiles di tutto il mondo e, tra le molte attività che la contraddistinguono, da anni ordina e rende accessibili i materiali dell’Archivio Pier Paolo Pasolini. Questa circolarità non è solo una coincidenza topografica legata alla città felsinea, e a un legame più volte dichiarato dallo stesso Pasolini, ma è un sigillo stesso dell’esposizione che si apre con la fotografia dell’aula lunga e stretta dove seguì i corsi di Roberto Longhi e si chiude con gli scatti di Dino Pedriali che lo ritraggono, nell’ottobre del ’75, nella casa-torre di Chia intento a disegnare il profilo dell’amatissimo maestro: da Longhi a Longhi.
In effetti la centralità delle arti figurative e dell’insegnamento di Longhi sono per Pasolini ben più di una dichiarazione, e il percorso filologico della mostra lo evidenzia: per ogni film realizzato sono stati rintracciati, molti, se non tutti i riferimenti iconografici che Pasolini prende a prestito dalla pittura, dalla scultura e dal cinema stesso. Poteva venirne fuori una carrellata disorganica soprattutto perché, con l’eccezione di alcune prove grafiche e pittoriche di Pasolini stesso e dell’amico pittore Giuseppe Zigaina, i materiali della mostra sono fotografie e riproduzioni; e d’altronde sarebbe stato impossibile e questo, sì, dissonante, accostare le celeberrime pale della Deposizione di Rosso Fiorentino o di Pontormo, per fare un esempio noto a tutti, ai fotogrammi de La ricotta. L’allestimento della mostra risolve molto felicemente un problema che non è solo estetico e che riguarda tutte le mostre didattiche e con una forte componente documentaria: le riproduzioni dei dipinti sono retroilluminate e mimano in un certo senso la consistenza della pellicola cinematografica alla quale sono accostati, creando un continuum visivo che suggerisce la fluidità dei passaggi creativi con cui Pasolini via via si appropria di gesti, posture, sintassi compositiva, costumi della storia dell’arte. La luce che viene da dietro, come nei vetrini proiettati durante le lezioni longhiane, accende fotografie e immagini di dipinti nel buio di uno spazio chiuso come il sottopasso di Piazza re Enzo: è una caverna dove le folgorazioni visive incendiano le connessioni e restituiscono se non la realtà tout court – quella dell’Italia post bellica, della scomparsa della civiltà contadina, dell’inurbamento selvaggio, del consumismo – certamente la realtà come Pasolini è stato capace di fissare tramite quella che per lui era una scrittura di luce, ossia il cinema.
Va sottolineato, perché non ovvio, che l’allestimento è un efficace alleato del progetto espositivo curato da Gianluca Farinelli, Marco Antonio Bazzocchi e Roberto Chiesi – questi ultimi studiosi di lungo corso di Pasolini – che asseconda l’idea pasoliniana del cinema come dispositivo per cogliere il sacro, ossia la realtà vivente nella sua totalità e coesione, attraverso l’uso studiato e modulato della luce, quella cristallina e disvelante di Masaccio e Piero della Francesca e quella assoluta, perché circondata di buio e presaga di morte, di Caravaggio. Come ricorda Bazzocchi, nel saggio inaugurale del catalogo della mostra, l’amore per la pittura in Pasolini non è mai fine a se stesso. Nella storia dell’arte italiana, appresa attraverso il magistero di Longhi, Pasolini trova la chiave per un accostamento a ciò che la retorica fascista prima e quella borghese poi occultavano: la realtà quotidiana. In pittori come Giotto e Masaccio Pasolini ritrova un umanesimo scevro di trionfalismi in cui si riconosce: «qui non c’è una bella favola e vana, ma la vita comune di ogni giorno». E con sicura consapevolezza dichiara: «il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo sono gli affreschi di Masaccio, Giotto – che sono i pittori che amo di più assieme certi manieristi (per esempio il Pontormo)».
La gamma dei riferimenti si amplierà col tempo e si contaminerà: basti pensare al tour de force presente nel Decameron dove Pasolini figura nelle vesti di un seguace di Giotto, ma è abbigliato come il Vulcano di un celebre quadro di Velázquez e il giudizio universale che deve dipingere mette al centro la Madonna e non Dio Padre come nella cappella degli Scrovegni che ne sarebbe il modello, o all’irruzione del colore che si sostituisce al bianco e nero nella cosiddetta trilogia della vita (Decameron, Racconti di Canterbury, Le mille e una notte) legata ai manieristi italiani ma anche ai fiamminghi come Bosch e Brueghel, fino ai rimandi alla pittura di Bacon in Teorema dove però continuano a emergere reminescenze di Piero della Francesca nell’uovo che pende sopra la testa del giovane Pietro intento a dipingere, e di Raffaello nelle scene girate in chiesa.
Quello di Pasolini è un immaginario coltissimo che si posa su soggetti per lo più umili, da qui, anche, la forza disturbante del suo cinema e il limite di una visione che vuole scardinare la soglia della percezione dello spettatore per forza di sovrapposizioni e affondi ma rifugge il movimento, come d’altronde Pasolini stesso aveva ben presente: «non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica trecentesca che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva. Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su di loro come sopra un quadro: concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo lo aggredisco sempre frontalmente. E le figure si muovono su questo sfondo sempre in maniera simmetrica, per quanto è possibile». Il cinema di Pasolini induce a cimentarsi con il meccanismo del riconoscimento: a saper vedere, magari fortemente decontestualizzato, un elemento che abbiamo già visto altrove, in un quadro, in una scena di cinema d’autore; non è un gioco di rimandi estetizzanti, proprio perché incarnato di volta in volta in un soggetto che in virtù di questo riferimento si staglia dal fondo, rompe abitudini visive, si sovraccarica, risulta spaesante o addirittura disturbante. Anche la storia dell’arte per Pasolini è strumento di un discorso politico, di un discorso sull’umano.
A distanza di un cinquantennio, possiamo dire che il cinema di Pasolini è diventato un pezzo di storia, non solo della settima arte, ma più in generale della cultura italiana, un prisma che ci aiuta a riflettere sulle molte contraddizioni ancora in atto e sulla necessità di compiere un gesto straniante rispetto alla tradizione per capirne meglio la portata.