Il Piper di Torino. Profilo

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Foto. Interno del Piper, Torino 1966. Fotografia Renato Rinaldi. Courtesy Graziella Gay e Pietro Derossi

La storia del Piper di Torino ha inizio a Roma dove, il 17 febbraio 1965, viene inaugurata la discoteca Piper in via Tagliamento, fondata dall’avvocato Alberigo Crocetta, con l’aiuto del commerciante di automobili Giancarlo Bornigia e l’importatore di carni Alessandro Diotallevi. Lo spazio diviene presto un luogo frequentatissimo e l’icona di un’intera generazione. Il progetto è degli architetti Francesco e Giancarlo Capolei e Manlio Cavalli, mentre il murale di fondo del palcoscenico, Giardino per Ursula, composto da due dipinti e da materiale eterogeneo assemblato e aggettante, oggi perduto, è realizzato dall’artista Claudio Cintoli. Dalla serata d’esordio, che vede suonare The Rokes e l’Equipe 84, il locale diventa la sede di performance dei principali gruppi della scena musicale beat e punto nevralgico della vita notturna romana, raccogliendo frequentazioni dal mondo dello spettacolo e dell’arte. Il successo commerciale del Piper di Roma è tale da indurre i fondatori a pensare di aprire un altro locale, ispirato a quello romano, a Torino.

Siamo nel 1966 e, per la scena artistica e teatrale della città, è un momento cardine. Una serie di mostre, eventi, spettacoli e azioni che animano locali e gallerie torinesi sono, al di là del loro carattere innovativo, il segno di un tessuto culturale particolarmente vivace e ricco di relazioni.

Il 5 maggio l’Unione Culturale riapre in veste rinnovata la propria sede, a Palazzo Carignano, con Mysteries and Smaller Pieces del Living Theatre, cui segue una programmazione che include, fra gli altri, le Letture-spettacolo per la storia del teatro contemporaneo con la regia, le scene e i costumi di Carlo Quartucci, The New American Theatre a ottobre, Les bonnes di Jean Genet con Julian Beck nel novembre. Organizzatore infaticabile è Edoardo Fadini.

Alla Galleria di Gian Enzo Sperone, che aveva lasciato la direzione de Il Punto per aprire il proprio spazio, tra giugno al luglio del 1966 si tiene una mostra destinata a essere seminale per la nozione performativa dell’oggetto-opera: Arte abitabile, con opere di Piero Gilardi, Gianni Piacentino, Michelangelo Pistoletto. Alcune gallerie, tra cui Il Punto, sono coinvolte, dal 26 al 28 aprile del 1967, nell’evento Les mots et les Chooses. Concert Fluxus art total, lanciato da Ben Vautier e Ugo Nespolo, con la presenza di Maciunas, La Monte Young, Name June Paik, Max Pellegrini, Gianni Emilio Simonetti, Ben Vautier e molti altri. L’evento si tiene in concomitanza con l’inaugurazione del Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea alla GAM e si articola in tre giorni di azioni e concerti di musica gestuale che animano le vie della città e legano alcuni luoghi del contemporaneo come il Punto, il teatro Gobetti e la stessa GAM.

La proposta di aprire un nuovo Piper arriva a Franco Gay, commerciante di pietre,[1] che affida la ristrutturazione di un edificio preesistente in via XX Settembre 15 a Torino, al genero, l’architetto Pietro Derossi,[2] impegnato in quel momento soprattutto in ambito universitario dove, occupandosi in particolare della trasformazione della struttura didattica, guarda alla connessione tra linguaggi.[3]

Il Piper, realizzato da Pietro Derossi con la collaborazione degli architetti Giorgio Ceretti e Riccardo Rosso, viene subito pensato, dalla struttura agli arredi, come locale flessibile, trasformabile e adatto a diversi usi: ballo, teatro, cinema, mostre, dibattiti. Oggi non ne resta purtroppo altra traccia che i progetti e la documentazione fotografica.

Piper, Torino. Scala di ingresso. Courtesy Graziella Gay e Pietro DerossiPiper, Torino. Pianta della scala sonora. Courtesy Graziella Gay e Pietro Derossi

L’accesso era costituito da una tenda di plastica metallizzata, comandata con cellule fotoelettriche, da cui si passava alla scala di ingresso, collocata in un ‘tubo’ rivestito di laminato di polivinile su supporto di cotone. Ogni gradino, una volta disceso, aveva un effetto sonoro ‘stocastico’.[4] Il soppalco, che collegava come un ponte le due parti opposte del locale, dava anche accesso alle cabine di regia: una per le luci ed i suoni, l’altra per gli spettacoli di proiezioni. I piani del pavimento dei locali erano trasformabili attraverso un sistema di parallelepipedi mobili che permettevano di creare, secondo la necessità, soppalchi per l’orchestra, piste da ballo, palcoscenici, mentre il soffitto era dotato di cinque binari tipo ‘blindo trolley’, ciascuna attrezzata con attacchi per microfoni, altoparlanti, luci e apparecchi per proiezioni. Al centro una macchina, progettata da Bruno Munari, proiettava sulle pareti effetti luminosi.[5] Su tutto il perimetro, a diversa altezza, vi erano delle rotaie a cui potevano essere appesi vari oggetti e suppellettili (quadri, sculture, vetrine).

Piper, Torino, 1966. Sala centrale con scultura mobile di Bruno Munari. Courtesy Graziella Gay e Pietro Derossi

Le sedute, in diversi punti del locale, caratterizzavano fortemente lo spazio: poi chiamate Piper Chair erano dei sedili a scocca in vetroresina stratificata montate sopra un cubo in legno, percorso da una banda che riprendeva il colore della seduta (azzurro e rosa polvere, verde maggio e arancio cadmio). La somministrazione delle bevande era pensata come self-service, attraverso dei distributori incassati in apposite nicchie. Tutta l’architettura interna seguiva, in una maniera che diventerà consuetudine per Derossi, il principio di tenere insieme significante e significato, «cioè la scelta del linguaggio con il pensiero, pensiero tecnico e funzionale».[6] Ispirandosi ai locali americani e londinesi, e ai principi della nascente architettura radicale Pietro Derossi guarda già alla ‘costituzione di una comunanza’. Dichiara tempo dopo, a proposito di quegli anni:

 

Nessuna forma espressiva singola vuole imporre il suo punto di vista o affermare la sua autonomia. Ciò che conta è l’aleggiare del riconoscimento sacrale di una tensione verso comportamenti alternativi dell’immaginario. […] Nello spazio allucinante della discoteca si esprime con forza il primato dell’esistenza, qui e ora, insieme, con un fine, questo fine, questa intenzione. Tutti i linguaggi, fusi e confusi, sono richiamati dalle loro specificità a verificare la loro capacità di aiutarmi ora a vivere un’esperienza.[7]

 

L’esperienza immersiva, fatta di spazio, luci, colori, forme, movimento è quindi fondante. Il giorno dell’inaugurazione, celebrato dall’esibizione di Patty Pravo, la regina del Piper di Roma,[8] da Thane Russell e i Three, e dall’organizzazione della mostra Beat fashion, ha un enorme successo.

Inaugurazione Piper. Publifoto. Courtesy Graziella Gay e Pietro DerossiPaolo Bressano, Studio di Pistoletto a Torino, 1967. In piedi sulla sinistra l’architetto Pietro Derossi, progettista e gestore del Piper. Rilesso nel quadro specchiante ragazza seduta per terra, De Rossi, il fotografo Paolo Bressano e Graziella Gay Derossi, soggetto dell’opera

L’affluenza del pubblico è tale da richiedere l’intervento della polizia: vi sono troppe persone, circa seicento all’interno e altrettante fuori in attesa, mentre il locale può ospitarne al massimo duecentoventi. Il Piper resta chiuso su disposizione della Questura di Torino per tre giorni e la vicenda determina lo sconcerto del proprietario che, dopo aver pensato di liberarsi del locale, decide di affidarlo alle cure della figlia e del genero. I due, frequentatori assidui dell’Unione Culturale e delle gallerie Tazzoli e Sperone, decidono di trasformare lo spazio da discoteca e locale notturno, a luogo polifunzionale che richiama il pubblico a una partecipazione diretta: nasce il Piper pluriclub.

La stagione fluida di incontro tra letteratura, cinema, teatro, musica e arti visive che abbiamo descritto, trova nel Piper Club uno dei suoi luoghi elettivi. La programmazione, gestita soprattutto da Graziella Gay Derossi, anche attraverso i rapporti e le amicizie con la Torino che abbiamo descritto in queste pagine, si accorda perfettamente alle idee che l’architetto Derossi va maturando nell’ambito della progettazione,[9] e inizia a richiamare un pubblico numeroso e vario.[10] Rispetto ad altri locali simili nati in questi anni in Italia (ad esempio L’Altro Mondo di Rimini, sempre progettato da Pietro Derossi, e lo Space Electronic a Firenze), il Piper di Torino è l’unico a distaccarsi dall’identità night club-discoteca, partecipando allo sviluppo di nuove correnti artistiche, sia nel campo del teatro che in quello delle arti visive. Arte e teatro di ricerca, pur non collaborando mai e arrivando al Piper attraverso canali diversi, calcano infatti lo stesso luogo sempre in chiave sperimentale e performativa, davanti a un pubblico eterogeneo e in uno spazio che induce al ripensamento dei rapporti e della messa in scena. La struttura architettonica degli interni, infatti, è polivalente, aperta, attentissima alla modernità del design e delle attrezzature e alla plurifunzionalità dello spazio. Ciò dimostra il coinvolgimento dell’architetto Derossi nella temperie trasformativa del decennio Sessanta e il suo interesse, maturato attraverso viaggi e letture, per la cultura underground inglese e americana, in particolare per quell’atteggiamento che voleva una trasformazione generale attraverso il comportamento individuale. Riferisce Derossi in un suo scritto:

 

Questo atteggiamento portava a inventare, e possibilmente realizzare, un nuovo modo di usare lo spazio, perciò, un nuovo modo di vedere il futuro della città, con la consapevolezza che queste trasformazioni fossero ottenibili gradualmente con il proprio impegno individuale o di gruppo.[11]

È precisamente l’insolita coincidenza tra il ruolo di creatori-designer e quello di animatori-dirigenti nella giovane coppia dei coniugi Derossi a costituire – come ricorda Clino Trini, testimone e protagonista di quegli anni e dell’avventura del Piper – la ragione principale del successo del locale. Egli, in una recente e interessante intervista, rammenta come la coppia, con grande grazia e praticità, abbia saputo mobilitare le eccezionali risorse artistiche e intellettuali presenti sulla scena culturale, sapendole ben gestire e combinare all’originalità del design del luogo, tra l’altro amministrato attraverso risorse finanziarie ‘adeguate’.[12] Inoltre, proprio Clino Trini costituisce, negli anni di vita del club torinese, un tramite tra il mondo dell’arte e quello dell’architettura e del design vicino a Ettore Sottsass, suo mentore, e personaggio influente vicino alla rivista Domus.[13]

Arti visive, teatro, musica, architettura, design, dunque, si intrecciano nello spazio del Piper dove vige una sorta di autogoverno degli artisti e la possibilità di esprimersi liberamente è all’ordine del giorno, facendo rapidamente di questo luogo uno dei centri fondamentali del passaggio epocale da un’arte della rappresentazione a un’arte del vissuto.

 

A proposito di un’esperienza progettuale: il Piper di Torino
L’architettura moderna è in una fase di attesa. La necessità di relazioni che le nuove proposte di metodo hanno da tempo evidenziato come esigenza imprescindibile per manipolare gli elementi fisici dell’organizzazione sociale, tendono a bloccare qualsiasi discorso parziale. La separazione tra l’ambito operativo e la complessità dell’analisi, delle referenze, delle ipotesi funzionali che si presentano come evidenti interlocutori all’atto della scelta formale, producono quest’ansia di attesa, questo desiderio di rimando a tempi migliori e la continua tentazione spostare la propria lotta in zone più vicine a quei nodi nevralgici che sembrano contenere vincoli fondamentali alla realizzazione di migliori condizioni per un lavoro realmente creativo. In questa situazione ogni progetto nei suoi vari tipi dimensionali si presenta come occupazione di definire (attraverso il contesto in cui l’oggetto da inventare si muove) se esiste la possibilità di trovare un linguaggio capace a rendere espliciti i valori, generali od organizzativi, che si vogliono proporre.
[…]
Il Piper di Torino vuol essere un locale pluriuso, cioè adatto a rispondere in modo specializzato alle esigenze di molte forme di spettacolo collettivo.
Questa scelta corrisponde all'ipotesi che l'entusiasmo di oggi per un certo gioco di gruppo fatto di musica e danze, non sia che un aspetto di una propensione più generale creare nuove forme di spettacolo, nuovi modi di innescare un colloquio fra il pubblico e ricerche proprie a settori specializzati.
E questo non nel senso pirandelliano di coinvolgere in una situazione già inventata dove la partecipazione è interamente strumento emotivo intenzionato ad un preciso effetto (atteggiamento forse ancora presente nel teatro dada); ma come possibilità, attraverso una funzione collettiva di rapporto reciproco, di vivere in modo completo una situazione che ha un valore per se stessa. La prestazione dello specialista, sia esso scultore, pittore, uomo di teatro, musicista, ballerino o funambolo, propone al gioco un tema da sviluppare ponendo la sua stessa esperienza alla critica di una possibile fruizione, nel senso totale di vivere una situazione di interazioni e tentare creazioni di un “presente”.
Ad esempio, lo scultore che espone le sue opere non le propone ad una contemplazione che ricerca dei valori, ma decora il locale nel senso che entra con il peso del suo discorso nel contesto generale partecipazione attiva alla fruizione di uno spazio.
Per realizzare questa condizione si è inteso il locale composto da un contenitore fisso (nel senso di struttura principale di possibilità) e di attrezzature adattabili a vari usi previsti (nel senso di sistemi di possibilità occhiali legati una specifica gamma di funzioni). Il contenitore non è altro che una scatola le cui pareti di alluminio appena riflettenti, munita di servizi essenziali (climatazione, condizionamento d’aria, prese elettriche, illuminazione di base, rotaie d’aggancio di vario tipo, ecc.); le attrezzature sono oggetti posati nel contenitore e caratterizzati da diversi gradi di complessità e flessibilità corrispondenti a delle precisazioni nella variazione d’uso, di obsolescenza e di adattabilità (ad esempio il palco in struttura metallica componibile, la cabina attrezzata per la regia luci e dei suoni, la pista mobile, il complesso delle macchine da proiezione, gli apparecchi di illuminazione e gli altoparlanti mobili, le macchine distributrici, ecc.). L’ambizione conseguente era di creare con queste aperture funzionali interne ad una definizione bloccata di “posto”, un senso nuovo di spazio senza cadere nella invenzione scenografica, nello stordimento visivo, o nella ricerca di effetti magici. Le varie possibilità di uso e l’evidente disponibilità delle attrezzature dovrebbe essere un invito alla partecipazione diretta alla definizione del senso del posto (l’uomo fabbricatore di senso) quasi ad una ricerca di attribuire collettivamente, attraverso la fruizione, un significato a cui assegnare valore presente. Le diverse proposte d’uso rinnovano il locale con nuove richieste di spazio adattato e con il relativo nuovo assetto formale che gli compete; ma ogni qualvolta anziché assegnare senso definitivo allo spazio si evidenzia un senso tra molti e a “quale prezzo e secondo quali procedimenti esso è possibile”. Questo atteggiamento “funzionalista” verso il tema del progetto deriva da un desiderio di approfondire il reale nei suoi aspetti operativi fino a fissare delle configurazioni corrispondenti a gerarchie di significati e di valori. La porzione di reale indagata, viene smembrata e ricomposta nell’intento di definire una precisa (anche se è aperta) intenzione programmatica; ed il risultato dovrebbe essere quello un ambito concreto di azione tentazioni: da una parte individuare una norma razionale semplice con un risolvere sistemi complessi, con il pericolo dare alla forma fisica l’astrazione che gli deriva dal tentativo di organizzarsi indipendentemente dalle altre categorie con cui è in relazione; dall’altra parte in nome della mobilità e complessità della realtà, rifiutare di prendere posizione, lasciando all’evoluzione delle cose la possibilità di creare “qualsiasi spazio”. Con questi atteggiamenti si può forse innescare una nuova possibilità di figurazione spazio caratterizzata più che da una coerenza stilistica generale, dal raggruppamento di oggetti muniti di coerenze stilistiche particolari, ciascuno caratterizzato dal punto di vista funzionale, nel senso di rapporto con l’utente, dal grado di generalità e dalle specifiche competenze che gli sono attribuite; e messi in relazione soltanto dalla rete strutturale comune che ne limita i campi di variabilità. Questo accostamento di oggetti dovrebbe costituire il senso di un ordine complesso, in azione, in cui ciascun elemento con la propria disponibilità di fruizione partecipa come variabile ad una trama prefissata di interazioni; nel mare dell’oggettività è possibile scegliere una serie di possibilità organizzate di azione e all’interno di questo, attraverso un processo continuo di relazioni, manifestare successive definizioni formali, libere, nuove, forse inattese, ma tutte strutturate da una chiara comune impostazione linguistica costituita. Queste vie di ricerca di cui il progetto qui presentato non è che l’abbozzo iniziale, forse portato avanti in condizioni e su scale diverse, potrebbero costituire un invito a riportare con metodo nuovo, il dibattito sul significato formale dello spazio in termini di definizioni d’uso (inteso in tutte le sue accezioni) che di questo spazio fa la complessa società contemporanea; e ciò senza alcun timore di minimizzare la significanza estetica dell’assetto formale; anzi proponendo una poetica complessa, aperta, articolata in un processo capace di costituirsi con atto fondamentale nella costituzione della vita sociale.[14]

 

 

Cronologia Piper pluriclub[15]

29 novembre 1966: Inaugurazione

22 dicembre 1966: Teatro Gruppo, Istruzioni operative per 10 attori

25 gennaio 1967: Inaugurazione mostra Piero Gilardi

6 marzo 1967: Inaugurazione mostra di Pistoletto

14-17 marzo 1967: New 67 Sound, primo concorso per complessi dilettanti

15 marzo 1967: Living Theatre, Mysteries and smaller pieces

4 aprile 1967: G.I.N. party “Le anime”

12 aprile 1967: Happening con un complesso beat

9 maggio 1967: Inaugurazione mostra Massimo Pellegrini

10 maggio 1967: London Towns, Dave Antony’s moods

maggio 1967: Happening (studenti dell’Università di Medicina)

16 maggio 1967: Beat Fashion Parade

26 maggio 1967: L’ultimo nastro di Krapp, regia di Buttafarro, con Carlo Colnaghi

29 maggio 1967: Free Form (jazz), D’Andrea, Azzolini, Mondini

1 giugno 1967: Howl di Allen Ginsberg, lettura

4 giugno 1967: Grande festa di chiusura

 

 

Bibliografia

P. Restany, ‘Breve storia dello stile Yéyé’, Domus, 446, gennaio 1967, pp. 34-41.

T. Trini, ‘Divertimentifici’, Domus, 458, gennaio 1968, pp. 13-22.

F. Pivano, Beat hippie yippie. Dall’underground alla controcultura, Milano, Bompiani, 1977.

F. Ferrari, Discoteca 1968. L’architettura straordinaria, Torino, Allemandi, 1989.

C. Rizza, Piper Generation. Beat, shake e pop art nella Roma anni ’60, Milano, Lampi di stampa, 2007.

F. Guzzetti, ‘Piper Pluriclub, Turin, 1966-69’, in N. Bätzner, M. Disch (a cura di), Entrare nell’opera: Processes and Performative Attitudes, Colonia, Verlag der Buchhandlung Walther König, 2019, pp. 268-273.

R. Cuomo, ‘Spazi intermediali. Club culture e arti visive in Italia: il Piper di Torino’, Flash Art, 347, dicembre 2019-febbraio 2020, pp. 36-41.

P. Derossi, L’avventura del progetto. Architettura come conoscenza, esperienza, racconto, a cura di B. Angeli, Roma, Franco Angeli, 2012.

 


1 Ricorda Graziella Gay Derossi: «Il tutto nasce in maniera abbastanza familiare, mio padre che faceva tutt’altro lavoro, incontra Crocetta, che aveva fatto il Piper di Roma e l’ha convinto ad aprire il Piper di Torino. Era una cosa anche commerciale, molto funzionante». Intervista con Donatella Orecchia, Torino, 27 dicembre 2021.

2 Pietro Derossi, giovanissimo, aveva già progettato l’architettura degli interni di un importante ristorante di Torino, Il gatto nero.

3 È interessante a questo proposito la connessione fatta dallo stesso De Rossi, tra il suo lavoro all’Università e la progettazione del Piper, in occasione degli incontri curati da Paola Nicolin per Artissima 2017; si veda in particolare Le déjuner sur l’herbe: i protagonisti del Piper club di Torino <https://www.youtube.com/watch?v=RG2y4qkJ-fo> [accessed marzo 2022].

4 «Quaranta piste registrate muovendosi a comando in un’alternanza quasi infinita di combinazioni, mescolano effetti di cronaca, musica elettronica, lettura di testi, discorsi di personalità, ecc. Il tutto è stato ideato e registrato da Sergio Liberovici» (<http://www.derossiassociati.it/progetti-posts/piper/> [accessed marzo 2022]).

5 «Una macchina ideata da Bruno Munari, che non solo decora con le luci le pareti ma anche le persone (talmente misterioso è l’apparecchio che maggiori spiegazioni su di esso non potremmo darvi)» (cfr. La Stampa, 29 novembre 1966).

6 P. Derossi, Una storia personale, in B. Angeli (a cura di), L’avventura del progetto. L’architettura come conoscenza, esperienza, racconto, Roma, Franco Angeli, 2012, p. 143

7 P. Derossi, Ricordi radicali, in B. Angeli (a cura di), L’avventura del progetto, p. 134.

8 Graziella Gay Derossi riferisce che in questa fase iniziale la gestione della programmazione e degli artisti è del Piper di Roma. Intervista con Donatella Orecchia, Torino, 27 dicembre 2021.

9 «L’architettura (e forse anche l’arte in generale) può pretendere di esistere a due condizioni: l’architetto deve avere qualcosa da dire (nella situazione) e ci deve essere qualcuno che lo ascolta (nella situazione). E non può essere un ascolto passivo: deve essere un dialogo» (P. Derossi, Premessa, in B. Angeli (a cura di), L’avventura del progetto, p. 14).

10 Riferisce Graziella Gay Derossi a proposito del pubblico: «All’apertura era altoborghese, e poi via via più intellettuale, soprattutto quando sono iniziati gli spettacoli. Poi identità meno chiara. Durante la settimana discoteca, poi una tantum spettacoli e avvenimenti o mostre per alcuni giorni». Intervista con Donatella Orecchia, Torino, 27 dicembre 2021.

11 P. Derossi, Una storia personale, p. 139.

12 Ettore Sottsass Jr and Clino Trini Castelli: Catalyst and Junior Catalyst. Clino Trini in conversation with Valentina Pero, Milan, winter 2018-19, in N. Bätzner et al. (a cura di), Processes and Performative Attitudes in Arte Povera, Köln-Vaduz-Saint-Étienne, Verlag Der Buchhandlung Walther König-Kunstmuseum Liechtenstein-Musée d’art moderne et contemporain, 2019, p. 266.

13 Cfr. E. Sottsass, ‘Memoires di panna montata’, Domus, 445, dicembre 1966, pp. 49-51.

14 Documento conservato presso l’Archivio Piper, Studio Derossi.

15 Documento conservato presso l’Archivio Piper, Studio Derossi.