Il fuoco di Prometeo da Esiodo ad Atene

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Procedendo dall’analisi di Hes. Th. 507-613 e di altre testimonianze puntuali, si ricostruiscono le sequenze fondamentali del mito prometeico del furto del fuoco, a partire dal retroscena della spartizione di Mecone. L’insieme dei dati, posto in relazione con le fonti letterarie e iconografiche relative ai Promethia, permette di illuminare la funzione cultuale di Prometeo nella città di Atene e le prerogative del fuoco che il Titano dona agli uomini: intermediario tra il fuoco inestinguibile di Zeus e quello perfettamente addomesticato di Efesto, il fuoco prometeico resta nascosto ma non si spegne. È dunque divenuto a ‘misura d’uomo’, ma conserva, dell’antico fuoco cosmogonico, quella vigorìa che lo mantiene acceso, rendendolo ‘instancabile’.

Proceeding from the analysis of Hes. Th. 507-613 and other punctual testimonies, the fundamental sequences of the Promethean myth of the theft of fire are reconstructed, starting from the background of the partition of Mecon. The set of data, placed in relation to the literary and iconographic sources relating to the Promethia, allows us to illuminate the cultic function of Prometheus in the city of Athens and the prerogatives of the fire that the Titan bestows on mankind: an intermediary between the unquenchable fire of Zeus and the perfectly tamed fire of Hephaestus, Promethean fire remains hidden but is not extinguished. It has therefore become 'human-sized', but retains, of the ancient cosmogonic fire, that vigour that keeps it burning, making it 'indefatigable'.

Anche il “mito” di Prometeo – come altri racconti complessi e stratificati di dèi ed eroi tramandati nelle fonti antiche – si frastaglia nella letteratura e nell’iconografia greca segmentandosi in diverse imprese, senza che vi sia la possibilità di ricostruire genesi e articolazione dell’insieme delle gesta che al Titano sono attribuite. Prometeo portatore del fuoco agli uomini, Prometeo che inaugura il sacrificio bovino insegnando ai mortali come lasciare agli dèi le sole ossa tenendo per sé la carne, Prometeo che plasma il protògonos al quale Atena infonde la psyché, Prometeo che subisce la punizione sul Caucaso e che poi viene liberato da Eracle. A queste si aggiungono ulteriori imprese, meno celebri, nelle quali il Titano è ricordato insieme a Deucalione e a Chirone, fino alla rilettura platonica del furto del fuoco. Nella letteratura antica, dunque, è difficile imbattersi in una rassegna completa delle imprese prometeiche, mentre prevalgono i resoconti e le riletture focalizzati su una particolare sezione del mito; unica e attesa eccezione è il resoconto della Biblioteca dello Pseudo Apollodoro. Nella selettività delle fonti visive, connaturata al mezzo, si segnala tuttavia l’originale e inattesa riproduzione di più momenti del mito di Prometeo su un celebre sarcofago, che ne riproduce in sequenze alcuni dei momenti più significativi.[1]

Sarcofago di marmo da Roma, circa 220 d.C., raffigurante alcune gesta di Prometeo, tra Epimeteo, Atena, Ermes, Psyche, le Parche, Efesto e i Ciclopi. Credito fotografico: Museo del Louvre https://collections.louvre.fr/ark:/53355/cl010250962

Sia pure trattate quasi sempre in modo separato, le imprese di Prometeo lasciano intuire una stretta relazione tra il dio e il genere umano. Una relazione già individuata da Kerényi nella struttura espositiva della Teogonia esiodea, ove la genealogia di Giapeto segue a quella della linea Urano-Crono.[2]

Prometeo è un dio antico, appartenente alla stirpe dei Titani, la vecchia generazione divina. È figlio di Giapeto, fratello di Crono e quindi cugino di Zeus. In Esiodo la storia della stirpe di Giapeto interrompe la narrazione relativa all’ascesa della generazione olimpica; dopo la sconfitta di Crono, il poeta si sofferma sul destino dei figli di Urano: i Ciclopi, i Titani e gli Ecatonchiri. Dei Titani il poeta enumera tutti i lignaggi, ma è alla stirpe di Giapeto che viene concesso uno spazio del tutto eccezionale, quasi pari a quello dato alla linea Crono-Rea e analogo solo al rilievo accordato alla schiatta di Oceano. Al momento della vittoria di Zeus sul padre, le sorti delle diverse linee genealogiche dei Titani si divaricano, mettendo in luce una contrapposizione tra i discendenti della linea Crono-Rea e quelli della linea di Giapeto-Climene, il cui esclusivo legame con il mondo umano si configura, come vedremo, attraverso una serie di azioni e punizioni generative del tempo e dello spazio destinati ai mortali.

Proprio in questa prospettiva vorrei soffermarmi sulla sezione del racconto mitico relativa al furto e al dono del fuoco, al fine di formulare qualche riflessione sulla configurazione del culto prometeico ad Atene, dove esso è attestato dalle fonti letterarie e dall’iconografia vascolare.

Nell’agire di Prometeo nelle opere di Esiodo è stata sottolineata l’assenza di una “missione civilizzatrice”.[3] Prometeo, eroe briccone, trickster, altro non fa che riportare agli uomini qualcosa che era stato loro sottratto.[4] L’azione di Prometeo per di più si innesta in uno schema di azioni-reazioni che segnano il passaggio a una condizione degradata dell’umanità. Il Titano esiodeo, dunque, non sarebbe un eroe benefattore degli uomini. Per di più, il mito antico ascrive spesso ad altri dèi l’invenzione e la trasmissione del fuoco.[5]

Come si configura, dunque, quella tèchne, la dòlia tèchne, l’arte ingannevole che Zeus attribuisce a Prometeo nella Teogonia di Esiodo, e come si devono interpretare il dono del fuoco e la natura del fuoco prometeico?

Mi concentrerò su alcuni versi esiodei perché qui in particolare (più che nella tragedia eschilea), si scorgono allusioni a una vicenda più estesa e complessa, cui il poeta accenna soltanto, probabilmente per ragioni funzionali alle finalità dei due poemi. Nella Teogonia al poeta interessa seguire il destino della stirpe olimpica; nelle Opere e i Giorni interessa l’eziologia dei mali umani. Il mito di Prometeo è decentrato rispetto al focus della narrazione e questa sua posizione inevitabilmente comporta una ‘curvatura’ dell’orizzonte complessivo della sua azione.[6] Tra le righe del racconto teogonico, in particolare, si raccolgono indizi di una storia pregressa, sì che l’intera vicenda prometeica può venire suddivisa in più tempi. Non è questa la sede per ripercorrere puntualmente le varie sequenze del racconto. Basti dire che in Esiodo si allude a un antefatto, a una contesa (una ‘divisione’) tra dèi e uomini avvenuta a Mecone, ‘il luogo dei papaveri’, località nei pressi di Sicione secondo i commentatori antichi.

Esiodo non descrive cosa sia avvenuto durante l’incontro: equa spartizione? Iniqua divisione? Raccogliamo da alcuni scolii a Esiodo ma soprattutto da Pindaro e Callimaco qualche frammento narrativo che può aiutarci a illuminare questa oscura allusione. Non si tratta, in questo caso, di applicare una scorretta pratica combinatoria, bensì di riconoscere, nelle dotte e preziose allusioni di autori informati sulla più antica tradizione mitografica, tracce di nozioni cosmogoniche che si riallacciano alla narrazione esiodea.

Nella Nemea VI Pindaro allude alla madre comune di uomini e dèi:

 

Una è la stirpe degli uomini

Una la stirpe degli dèi; da una sola madre

Traggono entrambe il respiro.[7]

 

Un frammento di Callimaco riferisce invece di «Mecone, sede dei beati…dove gli dèi gettavano le sorti, separavano gli onori per la prima volta dopo la guerra dei giganti».[8]

Un tiro a sorte, dunque, per definire la spartizione di prerogative onorifiche tra esseri che hanno la stessa origine. Lo scolio esiodeo al nostro passo si spinge ancora più in là, riferendo che il sorteggio sarebbe avvenuto in forma individuale, ponendo a confronto un dio e un mortale alla volta; la posta in gioco, come spiega l’etimologia del toponimo, sarebbe stata l’immortalità.[9] Nella raccolta di glosse e scoli alla Teogonia editi dal Flach, si ribadisce che in origine dèi e uomini avevano vita in comune e che a Mecone sarebbe avvenuta la separazione delle timaì.[10]

Se la ricostruzione fin qui proposta è corretta, gli eventi di Mecone sarebbero all’origine di una spartizione risoltasi a sfavore dell’umanità e dalla quale sarebbe scaturito l’inganno del sacrificio concepito da Prometeo. In tal caso, l’intenzionalità del gesto prometeico, sottolineata da Esiodo,[11] recherebbe in sé non solo una volontà fraudolenta diretta contro Zeus, ma anche l’implicita reazione – pur connotata da frode, poiché contraria a quanto stabilito dal sorteggio – a una condizione di svantaggio per il genere umano. Quest’ultimo, relegato ormai a vivere nel tempo caduco del mondo, avrebbe trovato in Prometeo il suo protettore e demiurgo. «La linea di separazione è la morte: qui i mortali sulla via della loro fine; là gli dèi immortali».[12]

Nel primo fraudolento sacrificio, Prometeo spartisce tra uomini e dèi un bue sacrificato. Il verbo è datèomai, «divido, spartisco», e si riferisce alla distribuzione della carne.[13] Il cerimoniale si configura come l’atto di convalida delle timaì di Mecone: comunque una convalida, seppur guastata da inganno e ribellione.

Prometeo, ingannando Zeus, introduce – e insegna – un’usanza tra gli uomini, inaugura un atto rituale, al contempo suggellando la nascita del tempo umano, così come poi la sua punizione e quella del fratello Atlante determineranno i confini dello spazio destinato all’uomo.[14] È al Titano che si deve la eccentrica norma sacrificale– «in cui la porzione degli dèi è di una esiguità sconcertante»[15] – della spartizione delle carni tra dèi e uomini. Secondo lo schema delle società arcaiche, l’azione mitica funge da archetipo per il comportamento umano, che su quell’exemplum si modellerà, si in-formerà:

 

È da allora che agli immortali la stirpe degli uomini sulla terra

brucia ossa bianche sugli altari odorosi. [16]

 

Rilievo dal fregio meridionale del Partenone raffigurante buoi condotti al sacrificio. Credito fotografico: CC BY-NC-SA 4.0. https://www.britishmuseum.org/collection/image/1296789001

Questa azione di Prometeo, questo ‘cominciamento’ non è scevro di conseguenze. L’insegnamento di Prometeo, la sua dòlia tèchne del sacrificio, innesca un processo a catena che contempla sottrazioni, furti, fino all’ultimo dono ambiguo ed esiziale di colei che porta tutti i doni, Pandora, comportando la degradazione e la sofferenza della stirpe mortale.

Tuttavia, è grazie all’inganno del Titano che alla comunità degli uomini officianti un rito ai nuovi dèi olimpici è permesso di consumare un pasto carneo. Lo suggerisce Aristofane con il suo umorismo sagace, quando negli Uccelli così fa dire a Prometeo da Pisetero: «Se facciamo arrosti è grazie a te, di tutti gli dèi».[17]

Il taglio e la cottura della carne sono gesti imprescindibili ed essenziali del rito sacrificale. Nell’iconografia greca sono rare le immagini relative al taglio dell’animale sacrificato, mentre più frequenti sono le scene di cottura. Il ruolo speciale dell’incaricato al taglio e alla cottura, il màgeiros, è attestato, ad esempio, per Sparta, dove tale funzione – pubblica e legata alla dimensione religiosa – si tramandava di padre in figlio.[18]

Cratere attico a colonne a figure nere, 520-510 a.C. Scena sacrificale davanti a una statua di Hermes; a sinistra splanchnoptes coronato che taglia le carni dell’animale sacrificale, al centro giovane coronato che cuoce. Credito fotografico: ArchaiOptix, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Attic_black-figure_column-krater_-_ABV_extra_-_sacrifice_to_Hermes_-_fight_-_London_BM_1837-0609-38_-_02.jpg

A partire dal primo inganno, con il quale Prometeo sovverte le timaì dovute agli Olimpi, si susseguono eventi a catena, nei quali ricorrono sostanzialmente due modalità di azione: donare/spartire e nascondere/ingannare. Come Prometeo nasconde gli splànchna e le parti più prelibate dell’animale sacrificato, Zeus nasconde il fuoco, il ‘mezzo di vita’ degli uomini: «non concesse più ai legni la forza del fuoco indefesso».[19] Questo fuoco è anche lo strumento che rende possibile lo scambio, il dono sacrificale, per quanto impari ed esiguo esso sia. Dunque, anche la punizione di Zeus è un ‘nascondere’, che toglie all’umanità lo strumento di contatto col divino, nonché il fondamentale mezzo di vita. A seguire vi è il furto del fuoco da parte di Prometeo, reso possibile dal fatto che Prometeo nasconde «il bagliore lungisplendente del fuoco indefesso in una ferula cava».[20]

L’atto del sottrarre alla vista, il celare e il celarsi, è un aspetto ineludibile del rapporto tra uomini e mortali: restare celati è prerogativa e privilegio del divino, ma, al contempo, nascondere è per gli uomini una strategia per sottrarsi alla minaccia e all’orrore dell’invisibile (si pensi ad esempio ai riti di sepoltura). Nei poemi omerici gli dèi spesso si celano agli uomini; talvolta nascondono i mortali che amano alla vista degli altri uomini; talvolta si nascondono anche agli altri numi.[21]

Lo svelarsi degli dèi può d’altronde essere anche esiziale per i mortali.[22] Il divino, come la morte, è mysterium tremendum, si cela agli occhi umani e si manifesta mediante segni: per lo più, come «splendore diffuso, cui alludono fuochi sacrificali, e fiaccole o il sole che sorge».[23] Il fuoco dunque, in particolare il fuoco allo stato di natura, è partecipe del mistero divino: è esso stesso segno di un’entità che si rivela nascondendosi e che può, talvolta, manifestarsi con terribile potenza. [24]

Nell’altra direzione, nel rapporto di timore, ansiogeno, che si crea tra uomini e dèi, l’atto del ‘nascondere’ qualcosa da parte dei primi ai secondi difficilmente può essere inteso come volontà di ingannare gli immortali, ché sarebbe una volontà inane, come insegna in special modo proprio la vicenda di Prometeo. Sacrificare, ad esempio, una pars pro toto agli dèi da parte dei mortali significa escludere una parte del dovuto, ma non è un raggiro in senso proprio: è una forma di autoprotezione che rientra nel ‘contratto’ stipulato tra uomini e divinità.[25]

Ed è proprio al furto e al dono del fuoco che si collegano gli unici riti in onore di Prometeo di cui siamo a conoscenza: i Promèthia ateniesi. Pur essendo attestati altri racconti relativi al Titano in diversi luoghi della Grecia, del solo culto ateniese resta qualche informazione, seppur lacunosa.[26]

Ad Atene al Titano era dedicato un altare presso l’Accademia insieme a Efesto e ad Atena, come sappiamo da una antica èkphrasis

 

egli è venerato nell’Accademia insieme ad Atena come lo è Efesto, e vi è un antico tempietto e un altare nel santuario della dea. Si mostra anche una antica bàsis presso l’ingresso del santuario, in cui sono raffigurate le immagini di Prometeo e di Efesto.[27]

 

A questa notizia si aggiungono alcune sporadiche informazioni intorno ai Promèthia, celebrazione la cui ricorrenza nelle fonti in concomitanza con altre feste ateniesi ad altri dèi dedicate ha condizionato non solo e non tanto la ricostruzione del culto indirizzato al Titano, quanto l’interpretazione della sua funzione nella costellazione cultuale della polis. Il tema è stato approfondito e chiarito da un importante lavoro di Paola Pisi, cui si rinvia.[28] In particolare, la studiosa ha rigettato con prove assai convincenti l’assunto a lungo condiviso da larga parte della critica di un Prometeo protettore degli artigiani ateniesi. Come ha dimostrato la studiosa, il culto di Prometeo partecipa, – in articolazione con quelli di Atena ed Efesto, che nel mito attico sono i progenitori degli Ateniesi nati dalla terra –, della complessa riconfigurazione della leggenda dell’autoctonia ateniese nel corso della storia democratica del V secolo. Prometeo, i cui legami mitici con Efesto sono resi ancora più ambigui e complicati da alcune testimonianze antiche, sarebbe dunque, conclude Pisi, portatore di un fuoco ‘cosmogonico’, mentre Efesto avrebbe il merito di avere trasmesso agli Ateniesi il ‘fuoco tecnico’. Le rielaborazioni del mito compiute da Eschilo e Platone, affidando a Prometeo un ruolo culturale, non creerebbero dissidio con questa ricostruzione, perché il Titano avrebbe, con Efesto e Atena, contribuito alla fondazione della vita civile della pòlis.

La festa dedicata a Prometeo ad Atene, annoverata insieme ad altre importanti celebrazioni poliadi quali le Dionisie, le Targelie, le Panatenee e le Efestie, prevedeva l’istituzione di un coro, dato da cui si inferisce che al dio fossero dedicati inni.[29] Si ricorda inoltre la nomina di ginnasiarchi, che reclutavano i pyrphòroi, i portatori di fiaccola, per la propria tribù.[30] La gara di fiaccole, d’altronde, è l’aspetto su cui sappiamo – seppur sempre pochissimo – di più. Ad essa fanno riferimento alcuni lessicografi.[31] Le lampadedromie per Atena, Efesto e Prometeo avevano luogo nel Ceramico,[32] in un periodo imprecisato dell’anno. La fiaccola, accesa presso l’altare, doveva probabilmente essere condotta in città, forse sull’Acropoli presso l’altare di Atena (si veda sotto Pausania: pròs tèn pòlin, «verso la città»), ma nulla di certo possiamo dire del punto di arrivo del percorso.

Le feste menzionate insieme a quelle prometeiche sono connotate da una forte dimensione civica e in taluni casi anche iniziatica: la presenza di giovani corridori d’altronde non esclude tale funzione anche per i Promèthia. Nell’arte vascolare attica ricorrono con grande frequenza le immagini di giovani corridori con fiaccola.

Pittore di Peleo, Cratere a campana attico a figure rosse raffigurante una gara di fiaccole, 430-420 a.C. Credito fotografico: Harvard Art Museums/Arthur M. Sackler Museum, Bequest of David M. Robinson, Photo ©President and Fellows of Harvard College, 1960.344 https://harvardartmuseums.org/collections/object/288090

A partire dall’insieme delle interpretazioni raccolte fin qui, vorrei prendere le mosse per riflettere sulla natura del fuoco prometeico.

Pausania ci informa non solo sulla presenza di un altare dedicato a Prometeo nell’Accademia, ma chiarisce anche qualcosa della gara, che, ancora attuata ai suoi tempi, si modellava sulle regole antiche. A vincere non era il corridore primo arrivato, ma colui che fosse giunto per primo con la fiaccola accesa.

 

All’interno dell’Academia c’è un altare a Prometeo, dal quale gli Ateniesi si avviano verso la città con le fiaccole accese. La gara consiste, oltre che nella corsa, nel tenere accesa la fiaccola; se infatti questa si spegne, non vince più il primo, ma al suo posto il secondo; se la fiaccola si spegna anche a questo, è il terzo a vincere; e se poi si spegne a tutti, la vittoria non spetta a nessuno.[33]

 

La vittoria consisteva nel conservare il fuoco acceso, in memoria della corsa mitica, fondativa, compiuta dal Titano.

Prometeo ruba il fuoco di Zeus e lo porta agli uomini. La sua tèchne consiste nel nascondere (è fraudolenta), ma anche nel conservare acceso il fuoco nel nartece. Conservarlo in viaggio o muovendosi da un luogo all’altro.

Uno scolio a Elio Aristide, nel quale resta traccia del rapporto tra l’autoctonia ateniese e il rito prometeico, definisce quell’antico fuoco rubato e conservato akìneton («che non si può muovere, che non si può alterare»). Il testo è di grande interesse:

 

…al principio non ci sarebbe stato fuoco sulla terra se Prometeo sottraendolo agli dèi non l’avesse trasmesso a coloro che vivono sulla terra in un nartece; coloro che oggi sono gli Ateniesi, dato che erano autoctoni produssero per primi il fuoco; per questa ragione lo chiama immutabile, perché non lo presero da nessuno ma lo ebbero direttamente dagli immortali.[34]

 

Il fuoco che non si spegne rappresenta simbolicamente quel purissimo fuoco primordiale, delle origini. Il fuoco cosmogonico da cui hanno origine tutti gli altri fuochi, dandogli lo statuto che gli è altrove attribuito (Aesch. Pr.110: «la sorgente del fuoco»; Hes. Th. 566 e 569: «bagliore lungisplendente»).

Vi è tuttavia un ulteriore aspetto del fuoco prometeico che si può evincere dal racconto esiodeo, dalla tradizione cultuale ateniese e dalle immagini vascolari. Il fuoco di Zeus è instancabile, akàmatos. Così come Zeus sa immortali pensieri, parimenti il suo fuoco è imperituro, inestinguibile: nel santuario di Delfi v’era un fuoco perpetuo. Ma il fuoco di Zeus è soprattutto il fuoco naturale, pericolosamente distruttivo quando si esprime nella potenza smisurata del fulmine e quando reca incendio sulla terra.

Questo fuoco, tuttavia, il dio aveva sottratto agli uomini, facendolo completamente estinguere, non concedendo «più ai legni la forza del fuoco indefesso».[35] Il fuoco di Zeus è un fuoco estremo, sia quando si manifesta che quando si nasconde.

L’arte di Prometeo dunque consta sì nel conservare (nascondendo) il fuoco di Zeus, ma anche nel ricondurne la micidiale potenza a una misura umana, rendendolo così disponibile ai mortali, in primo luogo per il sacrificio, che è insieme condivisione di un pasto carneo e mezzo per comunicare con gli dèi. Nascondere e conservare si configurano dunque, nell’azione prometeica, come gesti dalla valenza riparatrice, protettrice, nutritiva.

Le immagini vascolari ci riconsegnano numerose immagini del Titano circondato da satiri. Sebbene il contesto sia buffonesco e ispirato con tutta probabilità al Prometeo pyrkaeùs di Eschilo, è rimarchevole il fatto che in quasi tutte le iconografie di questo tipo sia il solo Titano a recare in mano il nartece.[36] Questa caratterizzazione iconografica rimanda al racconto esiodeo e lega i pur autonomi sviluppi attici del mito a quegli originari temi sviluppati dal poeta di Ascra, del nascondere conservando e del ricondurre il fuoco cosmogonico a una misura umana. Prometeo è un intermediario tra il fuoco cosmogonico e il fuoco tecnico di Efesto: «utile a tutte le arti» è la sua «sorgente del fuoco», donata ai mortali insieme alle cieche speranze.[37]

Cratere a campana a figure rosse raffigurante Prometeo, con nartece e torcia, che porta il fuoco circondato da Satiri; Pittore del Louvre, 425–400 a.C., Yale University. Credito fotografico: Yale University Art Gallery. https://artgallery.yale.edu/collections/objects/1721


 

 


1 Apollod. I, 2, 3 (8); I, 3, 6 (20); I, 7, 1 (45); I, 7, 2 (46-47); II, 5, 11 (119-120); III, 13, 5; sarcofago marmoreo conservato al Louvre e risalente al 220 d.C. circa (LIMC, s.v. Prometheus 1).

2 Hes. Th. vv. 132- 506; 507- 616; cfr. K. Kerènyi, Gli dèi e gli eroi della Grecia [1963], Milano, Mondadori, 1989, p. 192 e segg.; Id., Prometheus. Archetypal Image of Human Existence [1946], Princeton, Princeton University Press, 1991; in particolare, secondo la dottrina orfica, i Titani sarebbero stati i progenitori degli uomini (Orph. 37,1-2 Quandt).

3 M.P. Pattoni, ‘Introduzione: il mito di Prometeo tra letteratura e arti: dai testi antichi alle rivisitazioni contemporanee’, in M. P. Pattoni (a cura di), Prometeo: percorsi di un mito tra antichi e moderni, pp. 9-11.

4 Sulla figura del trickster si vedano, anche per la vasta bibliografia e per un inquadramento del tema, C. Grottanelli, ‘Tricksters, Scape-Goats, Champions, Saviors’, History of Religions, 23, 1983, pp. 117-139; A. Szyjewski, ‘In the Shadow of Trickster. Research Fields and Controversies in the Discourse on the Trickster’, Studia Religiologica, 53, 3, 2020, pp. 163–179; su Prometeo trickster: U. Bianchi, ‘Prometheus, der titanische Trickster’, Paideuma, 7, 1961, pp. 414-437; W. Burkert, ‘Sacrificio-sacrilegio: Il "Trickster" fondatore’, Studi Storici, 25, 4, 1984, pp. 835-845.

5 Hom. Hymn ad Merc.107- 110; Ister in Harpocrat. s.v. Λαμπάς (FGrHist 334 F2).

6 Hes. Th. vv. 132-506; Id. Op. 11-201. La storia di Prometeo nella Teogonia serve a integrare il racconto della definitiva vittoria olimpica e si intreccia al contempo con il ricordo di una delle imprese di Eracle.

7 Pind. N. VI, 1-2.

8 Callim. Ai. Fr. 119 Pf: «A vedere di nuovo Mecone, sede dei beati, dove gli dèi gettavano le sorti, separavano gli onori per la prima volta dopo la guerra dei giganti».

9 Schol. Hes. 535: «Disputava qualcosa un dio e qualcosa un uomo; si stabiliva quali dèi ottenessero in sorte quali uomini dopo la battaglia, come dice Omero: Grano e pula separa al soffio dei venti; Sicione è detta Mecone, è una città argiva; usa questo termine in riferimento alla lunghezza della vita di dèi e uomini».

10 Exeges. Hes. Th. 405,1 (ed. H. Flach, Glossen und Scholien zur hesiodischen Theogonie, Leipzig, Teubner, 1876): «Prima, dice, gli dèi avevano avuto vita in comune con gli uomini. Questo accenna anche nelle Opere e i giorni, in cui parla della generazione aurea. Allora dagli uni e gli altri furono separati a Mecone, vale a dire che in merito a tutte le cose erano pari agli dèi, quanto alla lunghezza del tempo (della vita) differivano.»

11 L’intenzionalità è ribadita anche in Aesch. Pr. 265-267, che tuttavia non lega la punizione ai fatti di Mecone (cfr. 229-236), potenziando così l’immagine dispotica di Zeus, cui attribuisce più volte carattere tirannico (222-224; 305; 310: 324; 357; 736; 756; 761; 909; 942;957; 996). Nella tragedia di Eschilo si allude al testo esiodeo, talvolta per antitesi (cfr. Hes. Th. 868 e Aesch. Pr. 365, oppure la mancata menzione di Giapeto nella tragedia).

12 W. Burkert, La religione greca, Milano, Jaca Book, 2003, p. 361 [Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Stuttgart-Berlin-KKoeln, Kohlhammer 1977].

13 Sul tagliare la carne, W. Burkert, ‘Sacrificio-sacrilegio: Il "Trickster" fondatore’, pp. 839-840.

14 K. Kerényi, Prometheus. Archetypal Image of Human Existence, pp. 43-44.

15 W. Burkert, La creazione del sacro, Milano, Adelphi, 2003, p. 189.

16 Hes. Th. 555-557; cfr. J. Ries: «Siamo in presenza di un’autentica ontologia arcaica, nella quale il mito fornisce all’uomo i modelli per le sue azioni» in Mito e rito. Le costanti del sacro, Milano, Jaca Book, 2008, pp. 22-23.

17 Aristoph. Av. 1546.

18 Hdt. VI, 60, 1.

19 Hes. Th. 563. Traduzione di G. Arrighetti, Esiodo. Teogonia, Rizzoli, Milano 1984.

20 Traduzione di G. Arrighetti, Esiodo.

21 Hom. Il. I, 47; ivi, 198; V, 314-317; XIV, 283, ivi, 330-351; XX, 320-342; Id. Od. VII, 14-42.

22 Eur. Bacch. 88-100; 519-536.

23 W. Burkert, La religione greca, pp. 359 e 361.

24 Aesch. Pr. 358-361.

25 Cfr. W. Burkert, La creazione del sacro, pp. 189-191.

26 Paus. II, 19, 5. 8; Id. V, 11, 5; Id. IX, 25, 6 (un altro culto, su cui cfr. M. Moggi, M. Osanna, Pausania. Guida della Grecia. Libro IX. La Beozia, Milano, Fondazione Valla, 2010, pp. 361-363); Id. X, 4.

27 Schol. in Soph. Oed. Col. 55-56. Il testo prosegue descrivendo le due figure: Prometeo più anziano, Efesto più giovane; cfr. il commento di P. Pisi, Prometeo nel culto attico, Biblioteca di Quaderni urbinati di Cultura Classica 4, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990, pp. 19-20.

28 P. Pisi, Prometeo nel culto attico, passim.

29 Sul tema P. Pisi, Prometeo nel culto attico, pp. 44-45.

30 Isaeus Apollod. 36, 6; Lys. Ἀπολ. Δωροδ. 3, 5.

31 Harpocrat. s.v. Λαμπάς; cfr. Phot. s.v. λαμπάδος; Lex. Seg. Λαμπάς καὶ λαμπαδηφόροι; Suda s.v. Λαμπάδος.

32 Et. M. Κεραμεικός; Schol. Aristoph. Ran. 1087.

33 Paus. I, 30, 2.

34 Schol. Ael. Ar. Pan. 103,16.

35 Hes. Th. 563. Traduzione di G. Arrighetti, Esiodo.

36 Su Prometeo nell’arte vascolare, R. Viccei, ‘Fuoco e fango: il mito di Prometeo nella documentazione archeologica greca e romana’, in M. P. Pattoni (a cura di), Prometeo: percorsi di un mito tra antichi e moderni, pp. 217-172.

37 Aesch. Pr. 7; 109-110.