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Il contributo si prefigge di mettere in luce il profilo parabolico del rapporto di Elsa de’ Giorgi con il teatro, che incarnerà il suo sogno personale di un rinnovamento dell’arte. Il suo sguardo si posa inevitabilmente sull’ambiente che la circonda e grazie all’esperienza esperita in teatro nasceranno degli scritti teorici che registrano di quella tensione necessaria all’attrice per diventare una figura pubblica; riflessioni che la condurranno anche a ritagliarsi negli anni un altro spazio di invenzione e operatività autonoma, e a intraprendere un’attività pedagogica.

The contribution focuses on the parabolic profile of Elsa de' Giorgi relationship with the theatre, which embodied her personal dream of a renewal of the art. Her gaze inevitably rested on her surroundings, and thanks to her experience in the theatre, theoretical writings were born that record the tension necessary for the actress to become a public figure; reflections that would also lead her to carve out another space of invention and autonomous operation over the years, and to undertake a pedagogical activity.

1. Il grido di Desdemona

«Il maestro di recitazione teatrale di Elsa de’ Giorgi […] fin dalla prima lezione […] capì che […] l’allieva la sapeva molto più lunga di lui. [...] Era brava, appunto perché faceva regolarmente il contrario di quel che insegnava lui».[1] È inizialmente nello studio dei piccoli ruoli drammatici e nell’essere «spettatrice quasi muta»,[2] attratta «da un personaggio da cui si aspetta continue meraviglie»,[3] che de’ Giorgi trova il modo di intendere i segreti della disciplina dell’arte teatrale.[4] Saranno poi gli applausi a farle comprendere come fosse quella la conferma del sentirsi attrice: «capii che i sacrifici, la disciplina, il rigore delle prove, quel metterti a nudo nella tua impotenza quando impari a memoria la battuta, l’arricchisci mano mano di attenzione, intelligenza, idee, tutto è per meritare quel consenso, librarti in quella vertigine vibrante, festosa».[5]

De’ Giorgi sembra trovare se stessa nello spazio del teatro durante gli anni di guerra; «l’arduo esperimento teatrale» le consente di avere coscienza «dei propri mezzi espressivi».[6]

Piccoli ruoli, dicevamo, ma tali da farle scrivere al critico teatrale Renato Simoni: «mai, prima d’ora avevo sentito formicolarmi nel sangue un personaggio, mai avevo sentito, come ora in me la sua presenza costante, la necessità di dargli vita».[7] Entra così a far parte della compagnia di Andreina Pagnani e Renzo Ricci,[8] interpretando una breve parte in Sei personaggi in cerca d’autore (1941), a cui seguiranno altri ruoli minori. La troviamo al Teatro Odeon di Milano nel dramma Il piccolo Santo di Roberto Bracco, in Sly, ovvero la leggenda del dormiente svegliato di Giovacchino Forzano, sarà Ofelia in Amleto e avrà una parte nel Lorenzaccio di Alfred de Musset. Ma il punto di svolta sarà nel 1943 quando, nel ruolo di Desdemona, de’ Giorgi – mossa da istanze utopiche al pari dei padri fondatori della regia e in cerca di una verità scenica che sapesse cogliere i livelli frammentari, contraddittori, nascosti del Novecento – arriverà a cogliere i meccanismi segreti dell’arte recitativa. All’epoca si dibatteva molto se l’attore dovesse vivere la propria parte o essere indifferente. Per de’ Giorgi era una sorta di «motore mentale»[9] a dover controllare l’attore, così come il pilota governa la sua macchina, anche se qualcosa può e deve restare affidato al caso. Da qui il miracolo:

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Nel percorso letterario di Elsa de’ Giorgi, arte e vita si fondono e si sovrappongono continuamente. Tenendo in considerazione tale parallelismo, il contributo indaga il nesso tra attorialità e autorialità nella figura di de’ Giorgi e propone, in particolare, una lettura della sua attività letteraria e autobiografica in relazione ad alcuni nuclei tematici fondamentali, come la libertà, la verità e la memoria.

In Elsa de’ Giorgi’s literary production, art and life continually merge and overlap. Taking this parallelism into consideration, the contribution focuses on the relationship between actorhood and authorship in the figure of de’ Giorgi and proposes, in particular, a reading of his literary and autobiographical activity in relation to some fundamental themes: freedom, truth and memory.

Qualsivoglia discorso critico intorno alla figura di Elsa de’ Giorgi non può prescindere da una considerazione preliminare: nella vicenda biografica e artistica di quest’attrice e scrittrice, attorialità e autorialità appaiono come due dimensioni contigue, complementari, profondamente intrecciate tra loro. È quindi un grave errore prospettico pensare che vi sia stato un passaggio, un cedere il testimone dal cinema al teatro alla scrittura: si allestirebbe, in questa direzione, una cornice interpretativa inadeguata che condurrebbe a ricostruzioni falsate. Si potrebbe piuttosto concepire tutta la vita di Elsa de’ Giorgi come un teatro della scrittura, talvolta un po’ eccessivo o folle, com’era nel suo temperamento.

La sua figura fu segnata fin da subito da due valori, destinati a diventare due veri e propri vettori fondamentali, che da soli già spiegherebbero molto di quel temperamento. Mi riferisco ai concetti di verità e di libertà. Il lettore li ritrova in uno snodo essenziale del percorso espressivo di quest’autrice, ovvero il saggio su Shakespeare e l’attore, edito nel 1950 come un opuscolo della sede fiorentina dell’Electa. In realtà il saggio prende avvio in forma di recensione, invero assai critica, al libro di Valentina Capocci, Genio e mestiere, pubblicato da Laterza l’anno prima. De’ Giorgi mira in questo scritto, sapientemente calibrato, a smontare le tesi della studiosa, mostrando una tale consapevolezza dell’idea stessa di teatro da risultarle perfettamente consustanziale. Leggiamo a pagina 8:

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Il mondo delle arti visive ha riguardato profondamente la vita e il lavoro di Elsa de’ Giorgi. In particolar modo, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta – ovvero nel tratto di storia che ha visto l’attrice legarsi alla famiglia di antiquari Contini Bonacossi – la de’ Giorgi ha potuto meditare a lungo sui grandi capolavori degli Old Masters, frequentando una delle raccolte più importanti d’Europa. Una meditazione che rileggiamo ora attraverso una poesia inedita, scritta da Elsa nella primavera del 1964, che rivela un nuovo e prezioso tassello critico di un’autrice infinita.

The world of the visual arts profoundly affected Elsa de’ Giorgi’s life and work. In particular, from the late 1940s to the mid-1950s – i.e. in the stretch of history that saw the actress linked to the Contini Bonacossi family of antiquarians – De Giorgi was able to meditate at length on the great masterpieces of the Old Masters, frequenting one of the most important collections in Europe. A meditation that we now reread through an unpublished poem, written by Elsa in the spring of 1964, which reveals a new and precious critical piece of a never-ending author.

I rapporti tra Elsa de’ Giorgi e il mondo dell’arte sono avvenuti in maniera direi quasi naturale nel corso della sua precoce e lunga carriera, appunto, artistica. Se già con la parola ‘artista’ si potrebbe definire chi, come nel caso della de’ Giorgi, sia riuscito con serietà, e una certa grazia, a interpretare più ruoli tra cinema, teatro e letteratura.[1]

Ma basterebbe pensare alle amicizie, le frequentazioni, le vicissitudini sentimentali che l’attrice e scrittrice, nata a Pesaro il 26 gennaio del 1914, ha saputo coltivare con tantissime personalità del grande sistema delle arti. E dico sistema delle arti perché i nomi propri che si avvicendano, direttamente o indirettamente, nella sua vita sono quelli di Carlo Levi, Leoncillo, Guttuso, Pier Paolo Pasolini, Bernard Berenson, per stare solo a qualche esempio. E dunque pittori, scultori, registi, scrittori, critici, storici dell’arte. Di ciascuno di loro Elsa comprende lo stile, la poetica, la filosofia e quindi la qualità, il livello, la grandezza. Mi pare che sia questo ciò che più sorprende di quest’autrice.

Elsa de’ Giorgi non è una testimone di un bel periodo storico, non una sopravvissuta e né una marginale spettatrice di un’età dell’oro della cultura italiana (come spesso hanno voluto perimetrarla i suoi detrattori). Elsa de’ Giorgi ha una dote innata: è munita di un gusto sicuro, una sorta di radar per i valori dell’arte che sa riconoscere, comprendere e riversare in tutto ciò che fa, nel suo lavoro: sublimando la citazione in gesto critico.

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Diva del cinema italiano degli anni Trenta, Elsa de’ Giorgi è stata anche scrittrice, attrice teatrale e regista. Superata la stagione che l’ha vista impegnata nella recitazione per il grande schermo – ma anche parallelamente ad essa – un fil rouge ha attraversato la sua carriera e ha riguardato l’espressione di una straordinaria intelligenza esperita tramite la frequentazione di vari linguaggi artistici. Entro un orizzonte interpretativo che, ad ogni passo avanti, si rivela via via più articolato, i contributi accolti in questa sezione indagano proprio alcuni aspetti meno noti dell’attività di de’ Giorgi, ma dai quali emergono rilevanti chiavi di lettura.1 Ci si riferisce in particolare all’indagine di Roberto Deidier relativa al nesso tra attorialità e autorialità nella figura della diva e ad alcuni nuclei tematici fondamentali del suo percorso letterario e autobiografico, come la libertà, la verità e la memoria; all’accurata ricostruzione dell’ampio itinerario teatrale dell’artista offerta da Simona Scattina, che ricompone in un insieme unitario l’esperienza di recitazione, gli scritti teorici e il lavoro di regia di de’ Giorgi; all’affondo di Tommaso Tovaglieri sul rapporto dell’autrice con l’universo delle arti figurative, condotto anche attraverso una serie di rimandi alla collezione d’arte della famiglia del marito, Sandro Contini Bonacossi, e il commento di un testo inedito, La ballata dei bravi 1963.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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«Le sue feste sono affollatissime. Lei […] dirige le conversazioni con la sicurezza e la grazia di una madame du Deffand»: così ricorda Elio Pecora nel Libro degli amici (2017) gli incontri organizzati da Elsa de’ Giorgi presso la propria abitazione in via di Villa Ada a Roma nei primi anni Settanta. Ad incrociare le loro esistenze con quella dell’attrice-scrittrice nelle sue abitazioni, a partire dagli anni Trenta, sono stati numerosi esponenti della scena culturale, intellettuale e artistica italiana del Novecento, tra i quali Anna Magnani, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini. A partire da questo dato biografico, il contributo propone un’analisi dei riflessi e della rielaborazione dell’immagine di de’ Giorgi come figura di salonnière rintracciabile nei testi autobiografici dell’autrice – ad esempio nei Coetanei (1955) – e nell’interpretazione del personaggio della signora Maggi nel film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini.

«Le sue feste sono affollatissime. Lei […] dirige le conversazioni con la sicurezza e la grazia di una madame du Deffand»: this is how Elio Pecora remembers (Libro degli amici, 2017) the meetings organized in the early seventies by Elsa de’ Giorgi at her home in via di Villa Ada in Rome. Starting from the thirties, there were numerous exponents of the Italian cultural, intellectual and artistic scene of the twentieth century crossing their lives with the actress-writer in her homes, including Anna Magnani, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini. Starting from this biographical data, the article proposes an analysis of the image of de’ Giorgi as a salonnière that can be traced in the autobiographical texts of the author – for example in I coetanei (1955) – and in the interpretation of the character of signora Maggi in Pasolini’s film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

In un’indagine dedicata al rapporto tra Elsa de’ Giorgi e gli spazi domestici, ciò che immediatamente emerge in primo piano, ripercorrendo la biografia dell’autrice e la sua inesausta attività artistica e letteraria, è l’importanza del salotto come crocevia di incontri e luogo di una pratica mondana che ha caratterizzato l’esistenza della diva per un lungo arco di tempo. A partire dagli anni Quaranta e fino ai mesi che hanno preceduto la sua morte, avvenuta nel 1997, de’ Giorgi ha ospitato con cadenze regolari numerosi esponenti della scena culturale, intellettuale, artistica italiana del Novecento, tra i quali si annovera, solo per citare alcuni esempi, la presenza di Renato Guttuso, Carlo Levi, Anna Magnani, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini. Teatro degli scambi tra gli habitué del salotto culturale animato dalla carismatica personalità dell’attrice – dopo il trasferimento a Firenze in seguito al matrimonio, nel 1948, con Sandro Contini Bonacossi – è stata la casa romana di via di Villa Ada 4; indirizzo riportato anche nei bigliettini che de’ Giorgi donava agli amici. Fornito delle componenti materiali che hanno tradizionalmente adornato lo spazio fisico dei salons culturali, come la ricca biblioteca e il pianoforte (cfr. Palazzolo 1985, pp. 56-57), il salotto di quell’appartamento si conserva nel ricordo di un numero considerevole di amici; tra questi, Elio Pecora restituisce nel Libro degli amici l’immagine «di una grande sala, ricavata con l’abbattimento dei muri divisori di quattro stanze» (Pecora 2017, p. 100): di una camera, dunque, che sembra addirittura occupare l’intera abitazione e a cui si aggiungono, sempre come scenari di ritrovi periodici, la casa di via Ruggero Fauro, ai Parioli, abitata dalla diva prima dello spostamento a Firenze, e la villa di San Felice Circeo, sede di indimenticati soggiorni estivi.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Concentrandosi su Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’articolo indaga la relazione tra la componente attoriale del film e le riflessioni sulla società e sul potere che Pasolini stava sviluppando in quegli anni. L’analisi della dimensione metafilmica rivela così una specifica attitudine politica, restituendo al contempo la complessità della poetica della recitazione formulata dal regista nel corso del tempo.

By focusing on Salò, o le 120 Giornate di Sodoma (1975), this article investigates the relationship between the actorial dimension and the reflections about society and power that Pasolini was developing right in those years. Thus, the analysis of the self-reflexive component discloses a specific politic attitude, showing at the same time the complex poetics of acting conceived by the director throughout the years.

 

Salò o le 120 giornate di Sodoma costituisce per Pasolini una prima volta sotto tanti punti di vista. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il film segna l’inizio di un nuovo corso a seguito della più famosa abiura nella storia del cinema, che con un colpo di penna prende le distanze dalla ‘Trilogia della vita’ degli anni Settanta, ripartendo piuttosto dalla produzione della fine del decennio precedente, Teorema (1968) e in parte Porcile (1969). Come noto, la distanza nasce da un’esigenza poetico-politica dopo il pieno riconoscimento di quella ‘mutazione antropologica’ occorsa in Italia con l’avvento della società dei consumi, al punto da spingere Pasolini a commentare, in riferimento a Salò: «è la prima volta che affronto il mondo moderno in tutto il suo orrore» (Pasolini 2001c, p. 3025). È un orrore, quello del mondo moderno, che travolge tutti gli aspetti del reale, inclusi gli stessi «innocenti corpi» (Pasolini 1999e, p. 600) dei ragazzi di borgata che il regista aveva messo in scena sino a Il fiore delle Mille e una notte (1974). Questo orrore, presumibilmente, non si limita a influenzare la dimensione contenutistica dell’opera, ma è capace di intaccare lo stesso piano dell’espressione filmica: e proprio nella dimensione attoriale dell’ultimo film sembra possibile rinvenire ulteriori tracce di quella riflessione su politica e società che Pasolini stava conducendo.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Dopo un breve cameo nella Ricotta (1963), a cui prende parte nelle vesti di una diva, Elsa de’ Giorgi connota l’ultima fase del cinema di Pier Paolo Pasolini, in particolare attraverso l’interpretazione di una delle narratrici in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Oltre a fornire una sintetica ricognizione relativa al rapporto tra l’autore e l’attrice-scrittrice, il contributo focalizza l’attenzione sul personaggio della signora Maggi in Salò cercando di cogliere nella performance attoriale di de’ Giorgi, così come nell’orizzonte divistico convocato nel film, esiti e possibili motivazioni legate alle scelte di casting da parte del poeta-regista.

After a cameo role in La ricotta (1963), in which she takes part as a diva, Elsa de’ Giorgi characterizes the last phase of Pier Paolo Pasolini’s cinema, in particular through the interpretation of one of the narrators in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Besides proposing a synthetic insights about the relationship between the author and the actress-writer, the contribution focuses on the character of signora Maggi in Salò, trying to analyze through de’ Giorgi’s acting, as well as the stardom recalled in the film, outcomes and possible motivations related to the poet-director’s casting choices. 

«Restò sempre legato a Elsa De Giorgi […]. A lei, con una divertita soggezione, dedicava – e la cosa durò anni – alcune serate. Andavano a cena fuori: […] Elsa De Giorgi, che amava stendere attorno a sé un qualche alone di spettacolo […], lasciava che alle labbra le venisse, con una foga insolita, certa cultura classica che amava coltivare. Pier Paolo ascoltava» (Siciliano 2005, p. 233): ricordato dalle parole di Enzo Siciliano, il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Elsa de’ Giorgi rientra fra le amicizie instaurate dallo scrittore nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1963 l’autore coinvolge l’attrice-scrittrice nelle riprese della Ricotta assegnandole – e la scelta non appare casuale – il ruolo di una delle dive che, insieme ai paparazzi, irrompono sul set alla fine dell’episodio, ma le relazioni tra il poeta-regista e de’ Giorgi si riflettono, in parte, anche nelle rispettive attività letterarie. Seguendo infatti i rimbalzi suggeriti dalle loro produzioni narrative, poetiche e saggistiche, si scopre che la diva si è rivolta a Pasolini sul finire degli anni Cinquanta per chiedergli di intercedere con Garzanti per la pubblicazione della sua seconda prova narrativa, L’innocenza, poi uscita nel 1960 per una casa editrice veneziana, Sodalizio del Libro; due anni dopo l’autore scrive una prefazione in forma di lettera al testo poetico dell’attrice La mia eternità e, mettendone in evidenza la pregnante metaforicità, rivolge all’opera di de’ Giorgi un’attenzione critica (cfr. Pasolini 2008a). L’artista, dal canto suo, dedica a Pasolini, dopo la sua morte, il poemetto del 1977 Dicevo di te, Pier Paolo.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
  • Arabeschi n. 20→

 

 

Pier Paolo Pasolini non ha mai codificato una puntuale e organica teoria della recitazione cinematografica ma ha sempre prestato grande attenzione alle scelte di casting, intervenendo continuamente su questioni relative al rapporto con gli attori e le attrici. La sua sensibilità verso la dimensione corporale, l’interesse per la relazione tra spazi e figure fanno sì che ogni film rilanci sempre nuove traiettorie di senso legate alla presenza e alle dinamiche di interazione fra interpreti. L’importanza delle pose, dei gesti, degli sguardi dei personaggi determina una frizione costante fra verità e artificio, puntando alla perfetta combinazione fra carattere e atto performativo.

Con la Galleria «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini si vuole disegnare una mappa delle pratiche e delle teorie attoriali messe in atto dal regista, tema finora poco indagato dalla critica ma decisivo per intendere gli equilibri e le dinamiche del suo sguardo. La struttura prevista sarà quella di un dizionario-atlante, con voci dedicate ad attori e attrici che ricostruiscano – dove è possibile sulla base della documentazione disponibile – la relazione fra il regista e l’attore, le peculiari caratteristiche performative che il viso e il corpo di ogni interprete assumono nei film di Pasolini, oppure (nel caso degli attori professionisti e delle star) le modalità con cui lo scrittore si confronta con la loro immagine divistica.

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Il vasto campo di studi inaugurato dalle ‘divagrafie’, ovvero dalla mappatura e dalla interpretazione delle scritture delle attrici, si configura come un terreno d’indagine di notevole complessità, sia sul piano strettamente letterario che a livello extra-testuale. Uno sguardo agli aspetti che entrano in gioco nell’esame delle opere delle dive che hanno intrecciato al lavoro attoriale anche l’attività di scrittura, fa vedere quanto vari e molteplici siano i generi letterari coinvolti, le modalità di rappresentazione delle personagge, i percorsi artistici delle attrici, i contesti culturali in cui si sono trovate ad operare. All’interno di una prospettiva che, nel confronto con oggetti di studio ibridi, intermediali, di non facile collocazione entro le coordinate stesse della teoria letteraria,prova a ripensare e a ridefinire i propri strumenti ermeneutici, è però rintracciabile un sostrato comune.[1] Lungo una produzione che, allo stato attuale delle ricerche, prende avvio nel 1950 con la pubblicazione di Shakespeare e l’attore e si conclude con il romanzo Una storia scabrosa del 1997 [fig. 1], anno della morte dell’attrice-scrittrice, non sono poche le dimostrazioni di uno sconfinamento ‘audiovisivo’ della pagina scritta, cioè di una rilettura da parte dell’autrice della propria carriera attoriale e dunque di uno sporgersi della prosa verso il linguaggio cinematografico; così come marcata risulta, in diverse opere, la dimensione autobiografica della scrittura. Basti pensare – come sintesi delle due caratteristiche menzionate e come punto di convergenza con la categoria della divagrafia, che pone l’accento sulla diffusa matrice metatestuale delle scritture del sé – a uno dei libri più noti di de’ Giorgi, I coetanei (1955), che riunisce in un’unica tessitura diegetica una componente autobiografia, inevitabilmente connessa con il carattere performativo del lavoro dell’artista, e una rievocazione memoriale e romanzata della Resistenza.

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