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Pier Paolo Pasolini non ha mai codificato una puntuale e organica teoria della recitazione cinematografica ma ha sempre prestato grande attenzione alle scelte di casting, intervenendo continuamente su questioni relative al rapporto con gli attori e le attrici. La sua sensibilità verso la dimensione corporale, l’interesse per la relazione tra spazi e figure fanno sì che ogni film rilanci sempre nuove traiettorie di senso legate alla presenza e alle dinamiche di interazione fra interpreti. L’importanza delle pose, dei gesti, degli sguardi dei personaggi determina una frizione costante fra verità e artificio, puntando alla perfetta combinazione fra carattere e atto performativo.

Con la Galleria «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini si vuole disegnare una mappa delle pratiche e delle teorie attoriali messe in atto dal regista, tema finora poco indagato dalla critica ma decisivo per intendere gli equilibri e le dinamiche del suo sguardo. La struttura prevista sarà quella di un dizionario-atlante, con voci dedicate ad attori e attrici che ricostruiscano – dove è possibile sulla base della documentazione disponibile – la relazione fra il regista e l’attore, le peculiari caratteristiche performative che il viso e il corpo di ogni interprete assumono nei film di Pasolini, oppure (nel caso degli attori professionisti e delle star) le modalità con cui lo scrittore si confronta con la loro immagine divistica.

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Abstract: ITA | ENG

Una delle attrici più rappresentative del cinema di Pasolini è certamente Silvana Mangano, il cui volto ha contribuito non poco a definire la poetica cinematografica pasoliniana. Il contributo ripercorre la produzione filmica del poeta-regista e – in un contrappunto con le interpretazioni di Mangano in La terra vista dalla luna (1967), Edipo re (1967), Teorema (1968) – propone una lettura del loro rapporto artistico alla luce di prospettive legate alla ‘spettralizzazione’ dell’immagine e al perturbante.

One of the most representative actresses of Pasolini’s cinema is certainly Silvana Mangano, whose face has contributed to defining Pasolini’s poetics of cinema. The contribution traces the film production of the poet-director and – in a comparison with the interpretations of Mangano in La terra vista dalla luna (1967), Edipo re (1967), Teorema (1968) – offers an analysis of their artistic relationship in the light of perspectives linked to the ‘spectralization’ of the image and the perturbing.

 

Il 16 novembre del 1968, nel pieno del processo a Teorema, Pier Paolo Pasolini pubblica sul Tempo illustrato una Lettera aperta a Silvana Mangano, sottolineando di aver scelto questa formula insolita proprio per dare più valore al suo scritto e al suo gesto. E in effetti è un testo di grande bellezza, che prende spunto dall’amarezza per la sensazione di non averle dato piena soddisfazione con il lavoro comune, solo in parte stemperata dal piacere di vedere a Parigi il successo che sta avendo l’altro grande film girato insieme in quegli anni, Edipo re. Buona parte della Lettera sviluppa un’interpretazione della figura di Dioniso, dio della metamorfosi e dell’irrazionalità, capace di passare, nella suprema indifferenza, da giovane pieno di grazia e bellezza a criminale feroce. Sulla base di questo grande mito che era stato uno dei sottotesti di Teorema, Pasolini delinea un rapporto ambivalente fra regista e attrice, basato su identificazione e specularità. Entrambi hanno riconosciuto Dioniso, non lo hanno rifiutato come ha fatto il mediocre buon senso della società contemporanea; ma questa esperienza di felicità ha provocato un vuoto e una paura, a cui rispondono in modi antitetici: Pasolini con un impegno nevrotico, Mangano con una nevrotica indifferenza. Prima di questo parallelismo contrastivo, Pasolini schizza un ritratto molto suggestivo di Mangano, che vale la pena citare per intero:

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Nel corso degli ultimi anni, la circolazione del cinema italiano neorealista negli Stati Uniti è stata al centro dell’interesse di diversi studiosi. La fama del neorealismo fu consacrata in parte grazie al successo critico e di botteghino, e con le nomination all’Oscar per Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica. In particolare, il successo clamoroso di Roma città aperta di Rossellini, che rimase in programma al World Theater a New York per cento settimane di fila, stimolò l’appetito del pubblico di New York e altrove per i film stranieri, e diede il via nel dopoguerra al movimento degli arthouse negli Stati Uniti.

New York era nel dopoguerra una città molto importante per lo spettacolo cinematografico: i film stranieri costituivano fino all’80% delle pellicole proiettate nelle sale arthouse, e nel 1958 la metropoli occupava il 60% del mercato nazionale per la cinematografia straniera. Il mutamento di prospettiva teorica nei film studies degli ultimi anni verso la storiografia ha comportato una crescita di attenzione verso il pubblico e la ricezione, e insieme l’interesse nei confronti dello studio della distribuzione e dell’esercizio basato sulla ricerca archivistica. La storiografia del cinema, analizzando questo periodo, ha avanzato due ipotesi principali: la prima, che esisteva in quel periodo una distinzione netta tra sale arthouse (frequentate dalla ‘intelligentsia’ urbana) e i cosiddetti ‘ethnic theaters’, che si trovavano nei quartieri per gli immigrati, e che programmavano film in lingua straniera, spesso senza sottotitoli inglesi. Questa vulgata storica, secondo la quale il cinema d’autore europeo, con in cima il neorealismo italiano, avrebbe offerto al pubblico più esigente un prodotto esclusivo, ci è stata resa familiare da studiosi come Gomery (1992), Wilinsky (2001) e Balio (2010). Le fonti a cui questi hanno attinto sono le riviste specializzate di cinema tipo Variety, e le recensioni pubblicate da giornali come The New York Times.

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