«Magicamente solidali». Silvana Mangano e Pier Paolo Pasolini

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Una delle attrici più rappresentative del cinema di Pasolini è certamente Silvana Mangano, il cui volto ha contribuito non poco a definire la poetica cinematografica pasoliniana. Il contributo ripercorre la produzione filmica del poeta-regista e – in un contrappunto con le interpretazioni di Mangano in La terra vista dalla luna (1967), Edipo re (1967), Teorema (1968) – propone una lettura del loro rapporto artistico alla luce di prospettive legate alla ‘spettralizzazione’ dell’immagine e al perturbante.

One of the most representative actresses of Pasolini’s cinema is certainly Silvana Mangano, whose face has contributed to defining Pasolini’s poetics of cinema. The contribution traces the film production of the poet-director and – in a comparison with the interpretations of Mangano in La terra vista dalla luna (1967), Edipo re (1967), Teorema (1968) – offers an analysis of their artistic relationship in the light of perspectives linked to the ‘spectralization’ of the image and the perturbing.

 

Il 16 novembre del 1968, nel pieno del processo a Teorema, Pier Paolo Pasolini pubblica sul Tempo illustrato una Lettera aperta a Silvana Mangano, sottolineando di aver scelto questa formula insolita proprio per dare più valore al suo scritto e al suo gesto. E in effetti è un testo di grande bellezza, che prende spunto dall’amarezza per la sensazione di non averle dato piena soddisfazione con il lavoro comune, solo in parte stemperata dal piacere di vedere a Parigi il successo che sta avendo l’altro grande film girato insieme in quegli anni, Edipo re. Buona parte della Lettera sviluppa un’interpretazione della figura di Dioniso, dio della metamorfosi e dell’irrazionalità, capace di passare, nella suprema indifferenza, da giovane pieno di grazia e bellezza a criminale feroce. Sulla base di questo grande mito che era stato uno dei sottotesti di Teorema, Pasolini delinea un rapporto ambivalente fra regista e attrice, basato su identificazione e specularità. Entrambi hanno riconosciuto Dioniso, non lo hanno rifiutato come ha fatto il mediocre buon senso della società contemporanea; ma questa esperienza di felicità ha provocato un vuoto e una paura, a cui rispondono in modi antitetici: Pasolini con un impegno nevrotico, Mangano con una nevrotica indifferenza. Prima di questo parallelismo contrastivo, Pasolini schizza un ritratto molto suggestivo di Mangano, che vale la pena citare per intero:

Ma torniamo alla nostra amarezza (di cui la soddisfazione parigina non è che una contraddittoria conferma). Amarezza, come stato diffuso e non realizzato di nevrosi. Nevrosi, come conflitto di conformismo e di anticonformismo. Di paura e di coraggio. Di grazia e d’impotenza. In modo così diverso, così profondamente diverso, ambedue ne siamo vittime. Forse su questa amarezza – che ci consente di lavorare con grande animo e con poca speranza direi… stoicamente – si fonda la nostra collaborazione così magicamente solidale. Siamo ugualmente puntuali e ligi come ragazzini bravi a scuola, non è vero?, e abbiamo un ben radicato senso del nostro dovere: non mancheremmo mai alla nostra parola… Non mi era difficile ‘contemplare’ tutti questi aspetti della tua natura – puntualità, senso del dovere, lealtà – mentre lavoravamo insieme, nel Marocco, a Roma, a Milano. Ed è tutto questo, strano a dirsi, che produce il mistero della tua bellezza. La tua bellezza amara: che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre in realtà, tu sei lontana. Appari dove si crede, si lavora, ci si dà da fare: ma sei dove non si crede, non si lavora, non ci si dà da fare. Richiamata qua da un obbligo che (chissà perché) si ha vivendo, resta la realtà della tua lontananza, come una lastra di vetro fra te e il mondo. Senza che ce lo siamo mai detto (dato il selvaggio pudore) la mia anima era spesso con te, dietro quel vetro (Pasolini 1999, p. 1140).

È un brano tutto giocato su ambiguità, sdoppiamenti e contraddizioni, che culmina in un lirismo pieno, nel momento in cui Pasolini evoca una categoria fondamentale per la sua poetica in generale, e in particolare per la sua reinterpretazione del mito: il mistero, intrinsecamente insolubile a differenza dell’enigma, che può essere sciolto con le armi della ragione (opposizione esplicita in Affabulazione). La matrice antropologica emerge chiaramente attraverso il termine teofania, che sarà fondamentale anche in Medea e che proviene direttamente da Eliade (2008); un tecnicismo subito trasfigurato nel magnifico sintagma «uno splendore di perla».

Leggere Silvana Mangano nella chiave dello sdoppiamento, come fa qui Pasolini a vari livelli, è un’operazione critica certamente interessante ed efficace: lo ha fatto Federico Rocca (2008) nella sua monografia dedicata all’attrice. Possiamo ricordare due esempi lampanti: Anna di Alberto Lattuada (Italia 1951), un melodramma sulla rinuncia amorosa in cui Mangano interpreta una suora ex cantante notturna; l’antitesi fra le due versioni della protagonista, fra il passato di sensualità esplosiva e il presente di rigore ascetico, scandisce tutto il film soprattutto a livello visuale, a partire dal paratesto delle locandine [fig. 1]. L’altro film da citare è un peplum interessante e raffinato, frutto di vari sceneggiatori importanti (Franco Brusati, Mario Camerini, Ennio de Concini, Hugh Gray, Ben Hecht, Ivo Perilli, Irwin Shaw), l’Ulisse di Mario Camerini (Italia 1954), in cui Mangano interpreta gli archetipi della femminilità presenti nell’Odissea, Penelope e Circe; quindi la sposa casta e fedele, e la maga seduttrice; santa o puttana, secondo l’efficace slogan del femminismo storico. Gli sceneggiatori hanno inoltre unificato le due figure di Calipso e Circe, per ottenere una maggiore concentrazione drammatica, producendo così un’immagine doppia e speculare del femminile. La seduzione centrifuga e la passione centripeta sono dunque due facce della stessa medaglia. Il volto ieratico e magnetico di Mangano, con i suoi occhi lunghi e obliqui, evocati anche nel bel quadro astratto che le dedicò Willem de Kooning [fig. 2], diventa così un elemento polivalente e sfaccettato (cfr. Fusillo 2018).

Per Pasolini Silvana Mangano ha rappresentato soprattutto una teofania, una rivelazione del divino che si concretizza attraverso i linguaggi non verbali, un’immagine materna astrale e quasi metafisica, che contiene però un suo lato oscuro e perturbante. Questa componente notturna di Mangano assume i connotati dell’eros scandaloso: l’incesto sentito e vissuto dalla Giocasta di Edipo re o la promiscuità compulsiva della madre in Teorema.

Nella sua lettera postuma a Silvana Mangano, Antonello Trombadori scrive: «tu possiedi [le virtù] della poesia, del gesto e del silenzio» (citato da Rocca 2008, p. 21). Sono le virtù più adatte al cinema pasoliniano, che è un cinema poco verbale, antiletterario, fortemente visivo, scaturito, come recita la dedica di Mamma Roma, dalla «fulgurazione figurativa» dovuta alla lezione di Roberto Longhi. Per questo Mangano sarà sempre per Pasolini innanzitutto un’immagine pittorica, fantasmatica e materna: quindi con due connotazioni quasi antitetiche, dato che la prima è incorporea, la seconda invece nasce da un legame stretto con il corpo.

La sua prima apparizione è in uno degli episodi comici girati con Totò e Ninetto Davoli, capolavori misconosciuti dallo stesso autore, calati in una peculiarissima dimensione fiabesca, picaresca e surreale. Ne La terra vista dalla luna (nel film collettivo Le streghe, Italia 1967, grande omaggio alla diva), Mangano è Assurdina, giovane sordomuta che appare all’improvviso alla coppia di padre e figlio in cerca di una moglie/madre; le due inquadrature frontali (la seconda molto ravvicinata) [fig. 3] enfatizzano il senso di teofania che pervade tutto l’episodio, in cui la protagonista interpreta una letteralizzazione della metafora ‘angelo del focolare’, soprattutto nel finale, in cui ritorna nella casa dopo la morte. L’interazione fra la poetica di Pasolini e la creatività attoriale di Totò produce, come sempre, ambivalenze e sdoppiamenti fra il comico e il surreale, non senza un chiaro sottotesto perturbante. Questo è evidente nella scena in cui Assurdina finge di voler suicidarsi dal Colosseo, e muore per colpa di una buccia di banana lasciata cadere da una coppia di turisti americani che sembra uscita da una comica di Charlot (l’uomo è interpretato da Laura Betti). E l’ambivalenza è il contributo co-autoriale più incisivo che Mangano offre al film: una recitazione svolta tutta dal corpo, dal gesto, dal volto, dal sorriso, in cui il riso popolaresco assume spesso, all’improvviso, un’ombra indefinibile di turbamento.

Il concetto di immagine fantasmatica può essere una guida efficace nel nostro percorso. Il cinema di Pasolini si presenta programmaticamente come cinema di corpi e luoghi: di una fisicità piena e diretta. Ma in tutta la sua opera serpeggia una tendenza contraria, che contrappunta e contraddice la cifra dominante: una tendenza onirica, incorporea, alla smaterializzazione dell’immagine, che possiamo chiamare spettralizzazione, ispirandoci a una corrente di studi denominata per l’appunto spectral turn (cfr. Del Pilar Blanco, Pereen, 2013). La spettralizzazione si interseca spesso, in Pasolini, con la rappresentazione del desiderio, che, come sappiamo bene da Lacan, è intrinsecamente fantasmatico. Un primo film fondamentale è, ovviamente, Edipo re: un film che si misura con gli spettri di Marx e Freud, figure che hanno segnato profondamente la formazione culturale di Pasolini, e da cui si stava staccando sempre più intorno al 1967. La presenza dei due maestri del sospetto (soprattutto di Freud, ovviamente) si percepisce ampiamente nel prologo e nell’epilogo contemporaneo che incorniciano il film: se il primo rievoca in forma fortemente lirica l’infanzia e il complesso di Edipo, il secondo raffigura la sua sublimazione nell’attività di poeta, sintetizzando nell’immagine delle fabbriche la propria fase marxista. Una fase in fondo superata dal finale e dal suo riallacciarsi all’inizio, esplicitando, nell’ultima battuta «La vita finisce dove comincia», una visione ciclica del mondo che si sostituisce alla teleologia del pensiero di Marx (e di Freud).

La spettralità dell’Edipo re di Pasolini non deriva solo dal misurarsi con i fantasmi ideologici del proprio passato; deriva soprattutto dall’uso massiccio di stilemi che smaterializzano l’immagine, come i travelling a mano, i campi totali desertici che producono l’effetto dell’indistinto, le varie soggettive quando sono instabili, e soprattutto le innumerevoli inquadrature in controluce, che innervano il leitmotiv del rapporto fra vedere e sapere, anticipando simbolicamente la cecità finale dell’eroe.

La spettralizzazione coinvolge ampiamente anche la figura di Giocasta, a cui la rilettura pasoliniana di Sofocle ha dato un rilievo assoluto, a partire dal prologo autobiografico: la scena iniziale dell’allattamento vuole riprodurre il punto di vista del bambino che vede la realtà per frammenti e dettagli, e si bea nella contemplazione del volto della madre, in un lungo primo piano intensificato dall’incipit del Quartetto delle dissonanze di Mozart [fig. 4], unico brano di musica occidentale di tutto il film; il lunghissimo primo piano del volto di Mangano si stempera in un bianco metafisico, e dà all’immagine materna un’idealizzazione incorporea. Molto pregnante anche la scena in cui il bambino, ora non più neonato, guarda dal balcone i genitori che ballano a una festa in un appartamento di fronte nel cortile: una sorta di versione poetica e cinematografica della scena primaria. I due genitori sono infatti due ombre che si scorgono sulla tenda, con un effetto di spettralizzazione applicato al desiderio infantile e al suo voyeurismo, e veicolato attraverso il dispositivo visivo più classico trasmesso dal Rinascimento al cinema: la finestra.

Dopo il prologo e l’antefatto della tragedia, Giocasta diventa il fulcro della rilettura pasoliniana di Sofocle, e quindi del terzo movimento del film. Ed è un fulcro che corrisponde abbastanza chiaramen­te alla lettura di Schopenhauer (nella lettera a Goethe dell’11 novembre 1815) e al principio di piacere di Freud, come ci conferma fra l’altro questa dichiarazione del regista: «Scrivendo da pasticheur la sceneggiatura, ho distribuito Giocasta nel tempo, anche se essa è un personaggio senza tempo: sola sensualità e volontà di non sapere» (Pasolini 1992, p. 323), in uno scritto in cui immagina Mangano diretta da Jonas Mekas per propugnare la propria teoria del cinema come lingua della realtà.

Giocasta-Mangano ottiene un rilievo in primo luogo figurativo; a questo proposito Pasolini sfrutta la tecnica cinematografica che Christian Metz chiama «inserto diegetico dislocato» (Metz 1989, p. 174): all’interno di un dato contesto narrativo viene interpolato un piano che sposta l’imma­gine in un altro spazio e in un altro contesto. Grazie a una serie di questi inserti noi assistiamo alle reazioni di Giocasta che ascolta l’evolversi degli eventi chiusa nella camera da letto; pur senza scompaginare la struttura drammatica di Sofocle, il personaggio della madre-sposa compare così fin dall’inizio del dramma, prima del suo ingresso effettivo nella dinamica dialogica. Si tratta anche qui di un vero e proprio leitmotiv che ritorna con lievi variazioni: gli inserti riproducono la stessa inquadratura in cam­po medio di Giocasta che sorride, mentre nella colonna sonora continua il dialogo fra i personaggi [fig. 5]. Ed è lo stesso sorriso enigmatico e conturbante che aveva la madre del prologo e che era stato ritratto in primo piano alla prima spettacolare apparizione della regina, nella festa popolare che segue la vittoria sulla Sfinge, quando arriva assieme a Creonte-Carmelo Bene, e scambia con Edipo un primo sguardo ambiguo e intenso.

Proprio perché non interrompono il dialogo e creano invece una disso­ciazione fra colonna sonora e colonna visiva, questi inserti su Giocasta sot­tolineano i momenti pregnanti, e danno allo scandalo dell’eros incestuoso tanto un valore simbolico, quanto una dimensione lirica ed elegiaca.

Se Edipo re affronta l’archetipo mitico del desiderio e dei suoi tabù, Teorema è il film di Pasolini che tratta direttamente i meccanismi base del desiderio, in una forma geometricamente allegorica, come suggerisce il titolo. Tutto ruota infatti attorno a una figura ambigua e perturbante che possiamo definire uno spettro del desiderio: è l’ospite misterioso che giunge all’improvviso in una casa alto borghese e ne sconvolge l’equilibrio, avendo rapporti sessuali con ognuno dei suoi componenti, e che altrettanto inspiegabilmente sparisce, provocando una serie di reazioni significative (follia, compulsività sessuale, fuga nel deserto, sublimazione artistica). Silvana Mangano appare anche in due film di Luchino Visconti che affrontano, in forme diverse, lo stesso schema dell’incontro perturbante con il dionisiaco: Morte a Venezia (1971), in cui è la madre di Tadzio, pura immagine divinamente fantasmatica [fig. 6]; e Gruppo di famiglia in un interno (1974), in cui incarna al contrario la volgarità degli arricchiti: anche in questo caso dunque con una specularità significativa. L’ospite misterioso di Teorema può essere letto come incarnazione metaforica del Dio del vecchio testamento e/o di Dioniso, in quanto il desiderio in epoca neocapitalista, secondo Pasolini, funge come sostituto del sacro. Oggi la destabilizzazione masochistica che provoca in tutte le identità e i ruoli suona inevitabilmente e profondamente queer (cfr. Guarracino 2022).

Dopo la sua sparizione l’ospite diventa uno spettro mentale e ossessivo con cui tutti i personaggi si misurano. La reazione della madre, impersonata da Mangano, è la promiscuità sessuale: va alla ricerca di ragazzi che ricordano l’ospite [fig. 7], con cui consuma rapporti fugaci sempre dominati da un feticismo sacrale degli abiti, e ambientati in una periferia urbana spettrale, ripresa dall’auto in movimento; è una ricerca connotata esplicitamente di inquietudine religiosa: dopo un incontro sessuale, sola in macchina la madre lancia un urlo angoscioso, ed entra poi in una chiesa deserta di campagna, presso la quale ha prima consumato il rapporto, e poi scompare nell’inquadratura in controluce, con un altro effetto di spettralizzazione.

Teorema scandaglia dunque in profondità l’ambivalenza fra teofania e compulsività sessuale, trattandole come due manifestazioni della stessa ricerca inquieta, visualizzata dal volto ambiguo, profondamente perturbante di Mangano. L’ultima apparizione dell’attrice nel cinema di Pasolini è brevissima, limitata a due inquadrature e non accreditata: è l’immagine della Madonna nell’affresco che Giotto-Pasolini dipinge nel Decameron [fig. 8]. Ancora quindi un’immagine pittorica, un fantasma materno: un gesto di amicizia della grande attrice che suggella un rapporto intensissimo fatto di scambi e specularità, che fa di Mangano una delle co-autrici del cinema di Pasolini.

 

Bibliografia

M. del Pilar Blanco, E. Pereen (eds.), The Spectralities Reader. Ghosts and Hauntings in Contemporary Culture, New York, Bloomsbury, 2013.

M. Eliade, Trattato di storia delle religioni [1948], a cura di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

M. Fusillo, ‘«La nostalgia per quello che non ho visto». Trasformazioni di Ulisse sullo schermo’, in P. Boitani, E. Di Rocco (a cura di), Dall’antico al moderno. Immagini del classico nelle letterature europee, Roma, Fondazione Ettore Paratore-Edizioni di Storia e letteratura, 2015, pp. 157-166, ora in M. Fusillo, L’immaginario polimorfico. Fra letteratura, teatro e cinema, Cosenza, Pellegrini, 2018, pp. 63-72.

S. Guarracino, ‘L’ospite inatteso: Teorema nell’arte digitale queer’, in corso di pubblicazione presso Zibaldone. Estudios italianos.

C. Metz, Semiologia del cinema [1968], Milano, Garzanti, 1989.

P.P. Pasolini, ‘Perché quella di Edipo è una storia’, in Edipo re, Milano, Garzanti, 1967, ora in Id., Il Vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea, Milano, Garzanti, 1992.

P.P. Pasolini, ‘Lettera aperta a Silvana Mangano’, Tempo, 47, 16 novembre 1968, ora in Id., Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1140-1143.

F. Rocca, Silvana Mangano, Palermo, L’epos, 2008.