1.3. Spettri di Pasolini... (su Teorema)

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Il cinema di Pasolini nasce da una fascinazione bruciante per corpi e luoghi: lo ha fatto capire meglio di tutti una mostra organizzata nel 1981 da Michele Mancini e Silvano Perrella, in cui una serie di dettagli ossessivi delineava una autentica retorica del linguaggio non verbale, del gesto e del paesaggio. E non possiamo dimenticare certo gli interventi polemici del Pasolini politico contro la de-realizzazione e la smaterializzazione dell’epoca contemporanea, a cui contrapponeva lo scandalo del corpo. Eppure esiste nel suo cinema anche una componente opposta, latente ma incisiva, che è bene indagare oggi, proprio perché i 40 anni dalla morte ci consentono una visione della sua opera più distaccata dall’ideologia apocalittica. È un’attrazione per l’incorporeo, o ancor più per quella categoria della spettralità, con cui Žižek legge oggi l’epidemia dell’immaginario; negli ultimi anni ne è scaturita una prospettiva di ricerca, al punto che si è parlato di una nuova, ennesima svolta, lo spectral turn. Penso a tutti i momenti in cui Pasolini accentua il carattere fantasmatico del cinema e l’ineffabilità del corpo, smaterializzando l’immagine con violenti controluce, travelling a mano, uso di ombre. È una dialettica fra corpi e fantasmi che è stata sintetizzata forse nella maniera più efficace da Fabio Mauri, nella performance in cui ha proiettato sul corpo dell’amico-poeta alcune celebri sequenze (Vangelo secondo Matteo di/su Pier Paolo Pasolini, Bologna 1975).

Teorema è uno dei film più adatti a esplorare questo aspetto della visualità di Pasolini, anche perché, come è noto, ruota tutto attorno a una figura fantasmatica, a un ospite misterioso e ambiguo che destabilizza tramite il sesso l’equilibrio di una famiglia borghese. Se da un lato la macchina da presa esalta la bellezza perturbante di Terence Stamp e il magnetismo del suo sguardo, e feticizza spesso i dettagli del suo corpo, dall’altro tende anche a smaterializzarlo, a spettralizzarlo: è il caso della prima immagine, caratterizzata da un controluce abbagliante. Il bianco assoluto che avvolge tutta l’inquadratura, interrotto solo da vaghi profili di alberi nell’angolo in fondo a destra, rende metafisico il volto dell’ospite: come se fosse in un fondale dorato. I lineamenti si appannano, perdono i contorni, fino a farne realmente uno spettro del desiderio. D’altronde tutta l’ambientazione borghese a Milano e dintorni (Pasolini aveva all’inizio progettato di girare il film a New York, città da cui era stato a lungo affascinato, e sicuramente ne sarebbe uscito un film totalmente diverso) ha un carattere freddo, grigio e umbratile, molto sfruttato nella riscrittura teatrale dei Motus, L’ospite.

L’incontro con il sesso e il sacro produce un perturbamento totale dell’identità: l’oggetto specchio, metafilmico per eccellenza, è il più adatto a visualizzare questa crisi devastante. La seconda immagine è strutturata come un trittico: il lato sinistro, costituito dai capelli del personaggio di spalle e fuori fuoco, ricopre buona parte dell’inquadratura, mentre il lato destro, ancora fuori fuoco e più limitato, inquadra i santini di cui si parla a lungo anche nel romanzo, segno della devozione popolare che caratterizza la figura della serva; nel centro alquanto sfalsato abbiamo l’immagine allo specchio, che sembra quasi fuoriuscire da un magma informale, da un nero indistinto. Risalta ancor più il volto fortemente espressivo di Laura Betti, che condensa nello sguardo quel misto di paura, attrazione, e passione che l’incontro con l’ospite ha provocato: quell’ansia febbrile e dionisiaca. Come è noto si tratta del ruolo più importante che questa attrice purtroppo ancora così sottovalutata ha impersonato per Pasolini: nel ricordare questa esperienza amava sottolineare quanto la cameriera di Teorema fosse in partenza un personaggio distante anni luce dal suo mondo (la devozione, la cultura contadina, la sacralità), e quanto invece Pasolini avesse saputo trarre una consonanza inaspettata dal suo profondo. Ciò non toglie che Laura Betti ha continuato fino all’ultimo ad amare particolarmente le sue apparizioni negli episodi comici con Totò, veri capolavori del comico-picaresco pasoliniano poco valorizzati a partire dall’autore stesso.

Teorema è anche un film in cui l’arte visiva diventa un tema esplicito, come nel finale del Decameron, anche se in forme diverse. La performance artistica è infatti una delle reazioni con cui i personaggi sublimano e rielaborano l’incontro perturbante con il sacro: in particolare è la reazione del figlio, con cui l’ospite dionisiaco aveva sfogliato un libro sulla pittura di Francis Bacon. Nella terza immagine vediamo i due personaggi e l’oggetto del loro sguardo, una riproduzione dei Tre studi per figure alla base di una Crocifissione (1944); segno di una consonanza che riguarda il nesso profondo fra violenza, corpo e sacro, e che si concretizza in urlo e deformazione espressionistica. Per sottolineare questa consonanza, Laura Betti, che amava raccontare l’incontro poco riuscito (per motivi meramente linguistici) nello studio del pittore mentre Pasolini girava I racconti di Canterbury, volle pubblicare nei quaderni del Fondo Pasolini un’intervista a Bacon dal bel titolo La brutalità delle cose.

Lo schema alla base di Teorema ha avuto un notevole successo a causa della sua efficacia drammaturgica e simbolica, da Ferdinando di Annibale Ruccello ad Ali Smith. Un artista di Singapore, Ming Wong, ha ideato nel 2010 una videoinstallazione dal titolo Devo partire. Domani, coprodotta dal Napoli Film Festival e dalla Biennale di Singapore, e presentata anche alla Villa Romana di Firenze. Su cinque schermi scorrono le immagini girate a Napoli, fra Scampia, l’archeologia industriale di Bagnoli (dove ha luogo il celebre urlo finale) e il Vesuvio. Come in altre operazioni simili (ad esempio quella su Morte a Venezia di Visconti), l’artista impersona tutti i ruoli del film, come dimostra l’assemblaggio della nostra ultima immagine; un piacere tutto queer di fluidificare le identità, e di attraversare con la performance culture, epoche, e ruoli sociali, particolarmente adatto a un film come Teorema tutto giocato sulla deflagrazione della persona. Ed è interessante che la metafora dello spettro da cui siamo partiti si ritrovi nella presentazione dell’opera sul sito dell’artista, a indicare il ritorno del mito e della memoria di Pasolini: «Ghosts of the past revisit their lives; statues of Gods come alive. Visions of an apocalyptic future, references to Italian cinema and cinema history enter the picture, recalling not just Pasolini’s work but also his persona and legacy».

 

Bibliografia

M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Bologna, Il Mulino, 2012.

M. Mancini, G. Perrella (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi, Roma, Theorema Edizioni, 1981.

S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario [2003], tr. it. di G. Illarietti, Roma, Meltemi, 2004.