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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

La cucina è lo «spazio della vita quotidiana» (Fullwood 2015) che più di tutti incornicia e simboleggia i processi di formazione, negoziazione e resistenza dell’identità femminile e dei portati culturali ad essa collegati. La pubblicità, in particolare televisiva, contribuisce a tali processi, rappresentando al contempo le trasformazioni estetico-funzionali dello spazio-cucina e il ruolo che la donna svolge in esso e, per estensione, in famiglia e nella società. Questo contributo propone uno studio di caso delle campagne pubblicitarie realizzate dall’azienda marchigiana di arredi da cucina Scavolini tra il 1984 (debutto della testimonial Raffaella Carrà) e il 2022 (60° anniversario del marchio). L’analisi evidenzia una crescente ambivalenza nella rappresentazione dell’interazione fra lo spazio-cucina e i soggetti femminili. Come in altri settori merceologici (Panarese 2015), l’introduzione, a partire dalla metà degli anni 2010, di soggetti maschili non problematizza ma rafforza ruoli di genere stereotipati.

The kitchen is the «space of everyday life» (Fullwood 2015) that most of all frames and symbolises the processes of formation, negotiation and resistance of the female identity and the cultural aspects connected to it. Advertising, in particular television, contributes to these processes, representing at the same time the aesthetic-functional transformations of the kitchen-space and the role that women play in it and, by extension, in the family and society. This contribution proposes a case study of the advertising campaigns realised by the Marche kitchen furniture company Scavolini between 1984 (debut of testimonial Raffaella Carrà) and 2022 (60th anniversary of the brand). The analysis highlights a growing ambivalence in the representation of the interaction between the space-kitchen and female subjects. As in other product sectors (Panarese 2015), the introduction of male subjects since the mid-2010s does not problematise but reinforces stereotyped gender roles.

Nel 2021 si è celebrato il 60° anniversario della nota azienda marchigiana di cucine e arredi per la casa Scavolini, fondata da Valter Scavolini insieme al fratello Elvino. Nel 1961 esce il primo modello progettato dallo studio Vuesse (dalle iniziali del fondatore): una credenza buffet denominata Svedese. La descrizione di quel primo design, riportata nella biografia del suo creatore, inaugura quello che sarà il motivo portante della comunicazione del marchio fino ai giorni nostri, la sovrapposizione fra donna e cucina: «I cassetti presentano un piacevole decoro costituito dalle stesse maniglie: una specie di raffica di fulmini che scaldano il cuore altrimenti algido della Svedese. Le gambe sono alte e asciutte, la struttura semplice e razionale: svedese, appunto» (Masia 2021, pp. 36-37).

Il marchio Scavolini nasce in pieno boom economico. Sono anni di cambiamento per la «cucina italiana, intesa come luogo fisico e come pratica di alimentazione» (Scarpellini 2013, p. 11): crescono i consumi di prodotti industriali, anche grazie alla diffusione di elettrodomestici che ne consentono una più lunga conservazione – in primis il frigorifero, passato dalle 18.500 unità del 1951 alle 3.2 milioni del 1967 (Ginsborg 1990, p. 215). Negli anni Sessanta la pubblicità di questi nuovi beni presenta un fenomeno interessante da un punto di vista di genere. La donna – sempre rappresentata come moglie – diventa il soggetto-target della comunicazione commerciale, che non la interpella più (solo) in qualità di massaia e angelo del focolare, ma nel suo nuovo ruolo di protagonista della modernità, detentrice delle competenze necessarie a indirizzare l’acquisto di questo o quel prodotto, di cui sarà lei a fare uso (Fullwood 2015). Ne deriva quella che Enrica Asquer (2007) definisce «professionalizzazione della figura della casalinga» che, mentre riafferma la tradizionale ripartizione di genere dei ruoli domestici, lo fa attingendo ad un repertorio simbolico della modernità più in linea con la nascente società dei consumi.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Nel corso degli ultimi anni, la circolazione del cinema italiano neorealista negli Stati Uniti è stata al centro dell’interesse di diversi studiosi. La fama del neorealismo fu consacrata in parte grazie al successo critico e di botteghino, e con le nomination all’Oscar per Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica. In particolare, il successo clamoroso di Roma città aperta di Rossellini, che rimase in programma al World Theater a New York per cento settimane di fila, stimolò l’appetito del pubblico di New York e altrove per i film stranieri, e diede il via nel dopoguerra al movimento degli arthouse negli Stati Uniti.

New York era nel dopoguerra una città molto importante per lo spettacolo cinematografico: i film stranieri costituivano fino all’80% delle pellicole proiettate nelle sale arthouse, e nel 1958 la metropoli occupava il 60% del mercato nazionale per la cinematografia straniera. Il mutamento di prospettiva teorica nei film studies degli ultimi anni verso la storiografia ha comportato una crescita di attenzione verso il pubblico e la ricezione, e insieme l’interesse nei confronti dello studio della distribuzione e dell’esercizio basato sulla ricerca archivistica. La storiografia del cinema, analizzando questo periodo, ha avanzato due ipotesi principali: la prima, che esisteva in quel periodo una distinzione netta tra sale arthouse (frequentate dalla ‘intelligentsia’ urbana) e i cosiddetti ‘ethnic theaters’, che si trovavano nei quartieri per gli immigrati, e che programmavano film in lingua straniera, spesso senza sottotitoli inglesi. Questa vulgata storica, secondo la quale il cinema d’autore europeo, con in cima il neorealismo italiano, avrebbe offerto al pubblico più esigente un prodotto esclusivo, ci è stata resa familiare da studiosi come Gomery (1992), Wilinsky (2001) e Balio (2010). Le fonti a cui questi hanno attinto sono le riviste specializzate di cinema tipo Variety, e le recensioni pubblicate da giornali come The New York Times.

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