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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Durante la Seconda guerra mondiale il cinema italiano, che conosce una stagione piuttosto fervida, dovuta alla politica cinematografica del fascismo, tende a occultare i problemi del presente, privilegiando – come è noto – rappresentazioni evasive, stilizzate ed edulcorate della realtà. A uno sguardo più ravvicinato, tuttavia, è possibile cogliere alcuni indicatori del malessere serpeggiante; piccoli segnali che raggiungono la superficie dello schermo condensando desideri repressi, frustrazioni e bisogni. Tra questi il cibo si rivela un topos significativo atto a veicolare non solo in senso letterale la fame che attanaglia gli italiani ma, in quanto metafora, anche un anelito tutto femminile di libertà espresso tra lo spazio privato della cucina e quello pubblico del soggiorno. L’intervento mette in luce il legame tra le figure femminili e il cibo negli spazi domestici delle commedie cinematografiche del 1943, come spia del complesso rapporto con la realtà e come metafora dei limiti e delle possibilità offerte dalla stessa rappresentazione audiovisiva.

During World War II, Italian cinema, going through a rather fervent season due to the film policy of fascism, tended to conceal the problems of the present, favoring - as is well known - evasive, stylized and sweetened representations of reality. At a closer look, however, it is possible to grasp some indicators of the social malaise; small signals that reach the surface of the screen condensing repressed desires, frustrations and deep needs. Among these, food proves to be a significant topos apt to convey not only in a literal sense the hunger that grips Italians but, as a metaphor, also an all-female yearning for freedom expressed between the private space of the kitchen and the public space of the living room. The paper highlights the connection between female figures and food in the domestic spaces of 1943 film comedies, as an indicator of the complex relationship with reality and as a metaphor for the limits and possibilities offered by audiovisual representation itself.  

 

1. Mangiare con gli occhi

Tra le metafore più suggestive che siano mai state applicate allo schermo, quelle di ‘telo’ e ‘tovaglia’ godono di una recente quanto corposa fortuna. In quanto superficie ampia, lo schermo accoglie tutto ciò che viene apparecchiato per gli spettatori, e che concerne non soltanto gli elementi della rappresentazione, ma anche il modo in cui le cose si danno (o non si danno) a vedere. È pertanto sorprendente – per chi si accinga a una ricerca anche introduttiva al riguardo – quanto sia cospicua la presenza del cibo, della tavola nonché dell’atto del mangiare o del bere al cinema (Alberto, 2009; Bower, 2004; Keller, 2006). La vocazione realista del racconto cinematografico incrocia e si annette inevitabilmente una delle attività che scandiscono i tempi della giornata e della vita di ciascuno. Dalla dimensione rappresentativa a quella simbolica, poi, il passo è breve: i rituali di preparazione e di consumo del cibo esprimono identità e appartenenze socio-culturali che vengono interpretate dal pubblico in relazione a pattern consolidati (Gelsi, 2002; Lapertosa, 2002). Anche gli ambienti in cui questi hanno luogo, mentre àncorano i personaggi a spazi verosimili (la cucina dove si prepara il pranzo e la sala in cui è consumato; gli eleganti salotti in cui si beve champagne; oppure gli spazi pubblici, come i tabarin, le trattorie e i ristoranti), aggiungono contenuti che definiscono tratti di personalità e funzioni narrative secondo strati di complessità che vengono inconsciamente rielaborati dagli spettatori.

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La cucina è lo «spazio della vita quotidiana» (Fullwood 2015) che più di tutti incornicia e simboleggia i processi di formazione, negoziazione e resistenza dell’identità femminile e dei portati culturali ad essa collegati. La pubblicità, in particolare televisiva, contribuisce a tali processi, rappresentando al contempo le trasformazioni estetico-funzionali dello spazio-cucina e il ruolo che la donna svolge in esso e, per estensione, in famiglia e nella società. Questo contributo propone uno studio di caso delle campagne pubblicitarie realizzate dall’azienda marchigiana di arredi da cucina Scavolini tra il 1984 (debutto della testimonial Raffaella Carrà) e il 2022 (60° anniversario del marchio). L’analisi evidenzia una crescente ambivalenza nella rappresentazione dell’interazione fra lo spazio-cucina e i soggetti femminili. Come in altri settori merceologici (Panarese 2015), l’introduzione, a partire dalla metà degli anni 2010, di soggetti maschili non problematizza ma rafforza ruoli di genere stereotipati.

The kitchen is the «space of everyday life» (Fullwood 2015) that most of all frames and symbolises the processes of formation, negotiation and resistance of the female identity and the cultural aspects connected to it. Advertising, in particular television, contributes to these processes, representing at the same time the aesthetic-functional transformations of the kitchen-space and the role that women play in it and, by extension, in the family and society. This contribution proposes a case study of the advertising campaigns realised by the Marche kitchen furniture company Scavolini between 1984 (debut of testimonial Raffaella Carrà) and 2022 (60th anniversary of the brand). The analysis highlights a growing ambivalence in the representation of the interaction between the space-kitchen and female subjects. As in other product sectors (Panarese 2015), the introduction of male subjects since the mid-2010s does not problematise but reinforces stereotyped gender roles.

Nel 2021 si è celebrato il 60° anniversario della nota azienda marchigiana di cucine e arredi per la casa Scavolini, fondata da Valter Scavolini insieme al fratello Elvino. Nel 1961 esce il primo modello progettato dallo studio Vuesse (dalle iniziali del fondatore): una credenza buffet denominata Svedese. La descrizione di quel primo design, riportata nella biografia del suo creatore, inaugura quello che sarà il motivo portante della comunicazione del marchio fino ai giorni nostri, la sovrapposizione fra donna e cucina: «I cassetti presentano un piacevole decoro costituito dalle stesse maniglie: una specie di raffica di fulmini che scaldano il cuore altrimenti algido della Svedese. Le gambe sono alte e asciutte, la struttura semplice e razionale: svedese, appunto» (Masia 2021, pp. 36-37).

Il marchio Scavolini nasce in pieno boom economico. Sono anni di cambiamento per la «cucina italiana, intesa come luogo fisico e come pratica di alimentazione» (Scarpellini 2013, p. 11): crescono i consumi di prodotti industriali, anche grazie alla diffusione di elettrodomestici che ne consentono una più lunga conservazione – in primis il frigorifero, passato dalle 18.500 unità del 1951 alle 3.2 milioni del 1967 (Ginsborg 1990, p. 215). Negli anni Sessanta la pubblicità di questi nuovi beni presenta un fenomeno interessante da un punto di vista di genere. La donna – sempre rappresentata come moglie – diventa il soggetto-target della comunicazione commerciale, che non la interpella più (solo) in qualità di massaia e angelo del focolare, ma nel suo nuovo ruolo di protagonista della modernità, detentrice delle competenze necessarie a indirizzare l’acquisto di questo o quel prodotto, di cui sarà lei a fare uso (Fullwood 2015). Ne deriva quella che Enrica Asquer (2007) definisce «professionalizzazione della figura della casalinga» che, mentre riafferma la tradizionale ripartizione di genere dei ruoli domestici, lo fa attingendo ad un repertorio simbolico della modernità più in linea con la nascente società dei consumi.

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A partire dall’angelo del focolare e dalla pazza in soffitta, archetipi femminili presenti nella vita e nella letteratura di Virginia Woolf, ma soprattutto da una stanza tutta per sé, simbolico spazio di autonomia delle donne, il saggio si sofferma sulla cucina che nel cinema di Visconti è talvolta il luogo di cura e accudimento materno - delle vedove de La terra trema e Rocco e i suoi fratelli - ma talaltra si trasforma, per esempio in Ossessione, in uno spazio di seduzione e desiderio, di metamorfosi del femminile, oltreché di modifica della sua destinazione d’uso.

The angel of house and the madwoman in the attic are two female archetypes present in Virginia Woolf’s life and literature, as well as a room of one’s own recalls her famous book and the symbolic place of autonomy for women. Well, in this paper the focus is on the kitchen in Visconti and some his movies, Ossessione, La terra trema and Rocco e i suoi fratelli, where widowed mothers give food their sons, while other borderline women change this place in the space of their desire for love and freedom. 

Due sono gli archetipi femminili, le immagini cardine nella vita letteraria di Virginia Woolf connesse allo spazio domestico nel quale vengono relegate le donne: l’angelo del focolare e la pazza in soffitta (Fusini, 2021a, pp. 22-23, pp. 251-252). Sono figure, a mio avviso, che si riflettono come un’ombra sulle protagoniste di Ossessione (1943), La terra trema (1948) e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Pellicole su cui mi soffermo, focalizzando l’attenzione su quel «femminile in movimento» che in letteratura e al cinema, mentre transita da una stanza all’altra, da un campo a un «fuori campo attivo», rende visibile, ma soprattutto reversibile, l’«identità» (Brogi 2022, pp. 6, 80) di genere di cui ci si riappropria.

1. L’angelo del focolare e la pazza in soffitta

Nella numerosa, composita, allargata famiglia d’origine di Virginia Woolf, formata da otto figli, tra maschi e femmine, nati in prime e secondo nozze, ci sono due sorellastre che, concepite nei talami genitoriali pre-vedovanza e precedenti al re-matrimonio, aleggiano come presenze fantasmatiche, l’una angelicata, l’altra demoniaca, tra le pagine, nella mente e nell’anima della scrittrice.

L’una è la «perfetta controfigura della madre […] addestrata» con severità vittoriana per esserne il «braccio destro» o per prenderne il posto lasciato vacante quando costei scompare prematuramente e Virginia Woolf, che è nata a Londra il 25 gennaio 1882, ha solo 13 anni. È appena ventiseienne invece la sorellastra che, volente o nolente, si trova a ricoprire i ruoli di «moglie vicaria» del «vedovo inconsolabile», di madre surrogata della prole orfana e di governante di casa addetta, assieme ai domestici, alla sua organizzazione e gestione. «Impeccabile nell’abnegazione», la «buona Samaritana» (Fusini, 2021a, p. 251) si fa perfetta incarnazione dell’angelo del focolare che Woolf descrive, in Professioni per le donne, come estremamente «comprensiva […] accattivante […] altruista»; eccellente «nelle difficili arti del vivere familiare». Colei che ogni giorno si sacrifica, pronta a «capire e compatire i pensieri e i desideri degli altri» (Woolf, 2011, p. 353), rinunciando ai propri.

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