1.13. Cucine autarchiche. Donne tra cinema, cibo e libertà nell’Italia della Seconda guerra mondiale

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Durante la Seconda guerra mondiale il cinema italiano, che conosce una stagione piuttosto fervida, dovuta alla politica cinematografica del fascismo, tende a occultare i problemi del presente, privilegiando – come è noto – rappresentazioni evasive, stilizzate ed edulcorate della realtà. A uno sguardo più ravvicinato, tuttavia, è possibile cogliere alcuni indicatori del malessere serpeggiante; piccoli segnali che raggiungono la superficie dello schermo condensando desideri repressi, frustrazioni e bisogni. Tra questi il cibo si rivela un topos significativo atto a veicolare non solo in senso letterale la fame che attanaglia gli italiani ma, in quanto metafora, anche un anelito tutto femminile di libertà espresso tra lo spazio privato della cucina e quello pubblico del soggiorno. L’intervento mette in luce il legame tra le figure femminili e il cibo negli spazi domestici delle commedie cinematografiche del 1943, come spia del complesso rapporto con la realtà e come metafora dei limiti e delle possibilità offerte dalla stessa rappresentazione audiovisiva.

During World War II, Italian cinema, going through a rather fervent season due to the film policy of fascism, tended to conceal the problems of the present, favoring - as is well known - evasive, stylized and sweetened representations of reality. At a closer look, however, it is possible to grasp some indicators of the social malaise; small signals that reach the surface of the screen condensing repressed desires, frustrations and deep needs. Among these, food proves to be a significant topos apt to convey not only in a literal sense the hunger that grips Italians but, as a metaphor, also an all-female yearning for freedom expressed between the private space of the kitchen and the public space of the living room. The paper highlights the connection between female figures and food in the domestic spaces of 1943 film comedies, as an indicator of the complex relationship with reality and as a metaphor for the limits and possibilities offered by audiovisual representation itself.  

 

1. Mangiare con gli occhi

Tra le metafore più suggestive che siano mai state applicate allo schermo, quelle di ‘telo’ e ‘tovaglia’ godono di una recente quanto corposa fortuna. In quanto superficie ampia, lo schermo accoglie tutto ciò che viene apparecchiato per gli spettatori, e che concerne non soltanto gli elementi della rappresentazione, ma anche il modo in cui le cose si danno (o non si danno) a vedere. È pertanto sorprendente – per chi si accinga a una ricerca anche introduttiva al riguardo – quanto sia cospicua la presenza del cibo, della tavola nonché dell’atto del mangiare o del bere al cinema (Alberto, 2009; Bower, 2004; Keller, 2006). La vocazione realista del racconto cinematografico incrocia e si annette inevitabilmente una delle attività che scandiscono i tempi della giornata e della vita di ciascuno. Dalla dimensione rappresentativa a quella simbolica, poi, il passo è breve: i rituali di preparazione e di consumo del cibo esprimono identità e appartenenze socio-culturali che vengono interpretate dal pubblico in relazione a pattern consolidati (Gelsi, 2002; Lapertosa, 2002). Anche gli ambienti in cui questi hanno luogo, mentre àncorano i personaggi a spazi verosimili (la cucina dove si prepara il pranzo e la sala in cui è consumato; gli eleganti salotti in cui si beve champagne; oppure gli spazi pubblici, come i tabarin, le trattorie e i ristoranti), aggiungono contenuti che definiscono tratti di personalità e funzioni narrative secondo strati di complessità che vengono inconsciamente rielaborati dagli spettatori.

È a partire da questa consapevolezza che si può provare, circoscrivendo un campione di testi all’interno di un insieme rappresentativo, a indagare le variazioni che la rappresentazione del cibo e gli spazi ad esso collegati subiscono sullo schermo. Si è scelto di porre l’attenzione su un periodo cruciale, come quello della Seconda guerra mondiale in cui l’alimentazione degli italiani, già fortemente carente, è ulteriormente razionata e regolata dalle limitazioni imposte dalle tessere annonarie, per cogliere la distanza tra la dura realtà del presente e la sua trasposizione sullo schermo. Le testimonianze raccolte da Miriam Mafai in Pane nero (1987) restituiscono il senso di una fame inesauribile e di cibi comprati a caro prezzo: «di giorno bisognava cercare da mangiare, di notte bisognava trovare un rifugio». Eppure, nonostante queste preoccupazioni e privazioni, la fame sullo schermo in questi anni rimane sostanzialmente un tabu. Forse perché evoca paure ancestrali rimosse (Montanari, 2010 e 2021; Sparano, 2018), ma soprattutto perché deve essere nascosta sotto le false certezze del regime.

Nella breve disamina che segue, relativa all’anno 1943 – inteso come uno spartiacque nella storia italiana, culmine di una guerra mondiale e insieme civile – l’esplorazione si avventura attraverso i diversi filoni della commedia, a lungo considerata il genere più restio a incamerare le tracce del conflitto in corso (Argentieri, 1998), per cogliere in particolare il rapporto dei personaggi femminili con il cibo, anche in relazione agli spazi domestici occupati e, per estensione, agli ambiti privati e pubblici che le vedono come attive protagoniste (Nicoletto, 2014; Reich, Garofalo, 2002). Mantenendo sullo sfondo la memoria di Ossessione (di Luchino Visconti), in cui il cibo si tinge di appetiti erotici e di toni realisticamente melodrammatici, si noterà come un orizzonte narrativo apparentemente superficiale e conciliatorio apra piccole crepe su un’attualità complessa e problematica.

2. Broccoli e pesci lessi

Nel titolo di lavorazione, C’è prima la signora, il film di Mario Bonnard Campo de’ fiori rivela il suo fulcro narrativo, ossia la guerra tra i sessi, filtrata attraverso personaggi dei ceti popolari. La rivalità sentimentale tra i due protagonisti, Aldo Fabrizi e Anna Magnani, inevitabilmente destinata a ricomporsi alla fine del racconto, si esprime fin dalle prime battute in cui i due, titolari di due banchi confinanti al mercato, si scambiano epiteti pungenti e insulti velati attraverso le urla con cui richiamano potenziali acquirenti. Fabrizi (Peppino) è un pescivendolo sempre incline alla galanteria con le signore, soprattutto altolocate, con cui fa il cascamorto (si potrebbe dire con atteggiamento da ‘pesce lesso’). Anna Magnani (Elide) è invece una fruttivendola dai modi grezzi, segretamente innamorata del vicino che cerca di far ingelosire con frasi infarcite di doppi sensi, come: «che mele che c’ho, ma che mele!» oppure, brandendo un grande cavolfiore, «che broccolo …. Chi se lo piglia?». Pesci e ortaggi fungono da correlato oggettivo dei protagonisti e servono ad ancorare al quotidiano una commedia che, anche nei risvolti linguistici ricchi di espressioni romanesche, fa del realismo un suo punto di forza, come riconosce prontamente anche la critica coeva. La guerra agita è assente dal film, ma si fa cenno all’oscuramento, alla borsa nera e alla mancanza di gas, di olio e altri alimenti, sostituiti da surrogati [fig. 1].

Dal punto di vista narrativo, il film ricorre alla figura retorica della litote per evidenziare la funzione dei personaggi femminili: l’importanza delle donne e il loro ruolo fondamentale nell’economia delle famiglie sono presentati attraverso il fallimento dei progetti degli uomini che, illudendosi, si autodefiniscono «dominatori».

Il cibo, continuamente tematizzato, è un veicolo narrativo cruciale, a partire dalle schermaglie tra i protagonisti che si svolgono nel campo neutro del mercato, dove il pescivendolo cerca di conquistare l’attenzione delle clienti offrendo loro pesce a buon prezzo. Peppino si spinge persino a consegnare a domicilio alla ricca signora di cui si è infatuato (Caterina Boratto) del pesce freschissimo, proponendosi di cucinare per lei la zuppa di pesce [fig. 2]: una vera e propria invasione di campo, che palesa il suo carattere di sbruffone, ma anche di uomo generoso e pragmatico. Spodestata la cameriera in cucina, dopo aver preparato e servito il pranzo, si siede alla tavola altoborghese della donna da estraneo, palesando nei modi la sua differenza di censo. Più avanti si troverà addirittura a fare da balia al figlio di lei, finita nel frattempo in prigione. Lo si vede muoversi tra gli spazi della propria angusta casetta – camera da letto e cucina – in modo goffo ma servizievole per accudire il bambino (la sequenza del bagnetto è emblematica, anche del realismo popolaresco perseguito dal film). Questa eccessiva premura, e il desiderio di assumersi delle responsabilità nei confronti di una donna che, verosimilmente, lo considera soltanto un amico, si manifestano nella decisione di Peppino di lasciare il banco del mercato e di affittare una casa moderna e spaziosa, dotata di tutti i comfort (tra cui una cameriera), dove ospitare il piccolo e la madre, una volta uscita di prigione. L’elemento simbolicamente culminante della sorpresa predisposta dall’uomo per Elsa è una tavola apparecchiata, dove egli si possa finalmente accomodare da padrone di casa, nonché da degno compagno di una donna così raffinata. Vi sono frutta, burro, marmellata, biscottini e anche tre uova, ma soprattutto una torta che fa bella mostra di sé, e che dovrà essere portata alla fine del pasto come piatto forte [fig. 3]. Ma, come ci si può aspettare, questo pasto non verrà mai consumato perché nessuno si siederà al desco: Elsa, appena giunta in questa nuova dimora, riceve il telegramma dell’uomo che l’ha resa madre e che è ora disposto a sposarla, così se ne va con il bambino, lasciando Peppino solo e amareggiato. Il finale, in cui si compone la coppia degli affini e litigiosi popolani, Anna Magnani e Aldo Fabrizi, evita prudentemente di fare cenno alla solidità di una casa e di un pranzo consumato; piuttosto affida alla evanescenza e all’illusorietà del cinema – dove i due vanno insieme a vedere un melodramma dall’ammiccante titolo Amore infranto – il compito di dare inizio alla loro storia d’amore.

3. Risotti alla paesana

Commedia con declinazione collegiale ed echi musicali diretta da Raffaello Matarazzo e sceneggiata in collaborazione con Alessandro De Stefani e Cesare Zavattini, Il birichino di papà è tratto da un romanzo di successo di Henny Koch del 1905, tradotto in Italia nel 1909. Papas Junge, nel titolo originale, è un racconto di formazione per giovinette (Giacomo Debenedetti lo definisce da «bibliothèque rose» [2005, p.220]) che inneggia all’educazione libera e mascolina della protagonista come presupposto per una maturazione scevra da smancerie e affettazione, anche se poi finisce per assecondare la retorica di un lieto fine più tradizionale attraverso il matrimonio con un conte. Nel film di Matarazzo la vicenda sentimentale è concentrata sulla sorella maggiore dell’eroina. Quest’ultima, un ‘maschiaccio’ in calzoni alla guida di un calesse, chiamata dal padre Nicola (e non con il femminile Nicoletta), insofferente di ogni costrizione, esprime un’identità di genere piuttosto ambigua, quasi ‘queer’, come raramente avviene nei film degli anni del fascismo (Landy, 1998; Zeni, 2020). Inoltre, rinchiusa forzatamente in collegio, si ribella ripetutamente all’autorità, palesando la sua avversione nei confronti delle istituzioni coercitive che – anche nell’economia del filone collegiale, diffuso nel periodo – rimandano al contesto storico della dittatura (Laura, 2010). Nella prospettiva che qui interessa, tuttavia, l’abito, così come i comportamenti eversivi della ragazza, sono spie di una più ampia polarizzazione che oppone i nobili (spesso decaduti) di città, amanti dello sfarzo, del lusso e delle comodità, mossi quasi sempre dall’interesse, dai comportamenti moralmente riprovevoli e schiavi dei propri vizi, da una parte, ai benestanti borghesi di campagna che invece vivono in armonia con la natura e gli animali, intessono relazioni sincere e prive di formalità (benché paternalistiche) e sono dotati di buon senso e spirito di iniziativa con cui sanno far fronte alle situazioni più complicate. Si tratta di un atteggiamento comune a diversi film del periodo (da Violette nei capelli, di Carlo Ludovico Bragaglia, a Mamma, di Guido Brignone, entrambi del 1941), nei quali il canto funge da veicolo di armonizzazione tra i due orientamenti, con la prevedibile affermazione dei valori tradizionali (Faccioli, 2010). Nel Birichino di papà lo scontro si profila dall’inizio come l’unica modalità di contatto tra i due mondi: quello di Chiaretta Gelli, che canta inneggiando alla natura mentre guida in modo spericolato un calesse, e quello dei marchesi Della Bella (madre e due figli) i quali stanno raggiungendo in automobile (di malavoglia) la casa di campagna perché l’erede sta per sposare Livia (Anna Proclemer), la ricca proprietaria terriera sorella di Nicoletta. È facile capire quale posto occupino il cibo e l’atto del mangiare in questo contesto: mentre nell’ariosa villa di campagna si vede l’abbondanza – in cucina ben tre cuoche si stanno affaccendando intorno a pentole e verdure per preparare il pranzo [fig. 4] –, nella villa dei marchesi si beve tea versato da eleganti contenitori in argento. Ancora: la punizione di Nicoletta, costretta a rimanere ‘a pane e acqua’ per tre giorni per aver fatto scherzi inopportuni alla Marchesa (Dina Galli), viene mitigata dal padre (Armando Falconi) che di nascosto porta alla ragazza un vassoio con del cibo [fig. 5]; l’incontro tra i due, che avviene non casualmente nella camera da letto della ragazza, è occasione per scambiarsi sentimenti sinceri e profondi. Questa intimità non si trova più negli spazi affollati e impersonali del collegio in cui è rinchiusa Nicoletta, la quale fa di tutto per sovvertirli, finendo confinata nella cella e poi nell’infermeria dell’istituto. Dopo l’evasione, la ragazza scopre casualmente l’infedeltà del cognato, e si adopera per sottrarre la sorella agli spazi ostili di casa Della Bella. Riparatesi nel modesto studio-abitazione di un avvocato (Carlo Campanini), le due sorelle mettono in atto il piano di riconquista dell’unità familiare, mentre condividono (dopo averla salvata da una bruciatura) una semplice frittata.

Qui, nel territorio neutro dell’appartamento dell’avvocato, ha luogo la ricomposizione familiare (una sorta di ‘rimatrimonio’ nell’accezione di Stanley Cavell, 1999), suggellata da un banchetto [fig. 6]. Il giovane ha chiesto scusa alla moglie, e si è impegnato al cambiamento; Livia, indossato il grembiule, ha cucinato per tutti un semplice, ma gustoso, risotto ai funghi, mentre la notizia di un bambino in arrivo viene sancita da un brindisi con un corposo vino rosso. La nuova famiglia può comporsi all’insegna della novità: non più futilmente aristocratica e nemmeno tradizionalmente campagnola, ma pragmaticamente capace di affrontare il cambiamento mettendo in gioco competenze pratiche e valori solidi.

4. Fame di vivere

4 ragazze sognano di Guglielmo Giannini è una commedia giovanile di intonazione corale che, seppure ambientata in America, non lesina allusioni al presente storico italiano e anzi, attraverso lo sguardo di ragazze ormai uscite dalla scuola e proiettate verso la vita adulta, getta numerosi interrogativi sul futuro (Mosconi, 2021). Prima di pensare ad assecondare i loro sogni, tuttavia, le ragazze devono risolvere il problema della fame in quanto, nonostante una di loro abbia ereditato un lussuoso appartamento al trentesimo piano di un grattacielo, tutte sono a corto di denaro, e l’enorme frigorifero che si trova nella cucina del defunto, pieno di vettovaglie (che si intuiscono attraverso una vetrina trasparente), è chiuso a chiave. Poco avvezze ai cibi in scatola, riescono a ‘liberare’ il contenuto del frigorifero con l’aiuto di un gangster di buon cuore (Paolo Stoppa), salvo poi accorgersi che la vetrina della ghiacciaia è foderata di un poster pubblicitario contenente un’immagine di cibi succulenti [fig. 7].

L’ironia di Giannini apre numerosi squarci su problemi di carattere sociale e politico, come la modernizzazione, la pervasività dei media, il ruolo della politica, il divorzio, il prelievo fiscale e il caro vita, come pure l’etica professionale, attraverso battute fulminee: ad esempio, davanti al grande acquario ubicato nell’appartamento, le ragazze che nutrono i pesci commentano: «Almeno questi sono voraci in modo onesto e sincero… Va bene che sono animali e non uomini…». Fame e voracità, nella cornice ‘noir’ del film, riguardano non solo le difficoltà dell’approvvigionamento, ma anche il diverso approccio alla vita di uomini apparentemente inappuntabili, eppure avidi e malvagi, bramosi di denaro, rispetto a ragazze assorellate da un’amicizia leale e da vero spirito di corpo. Tingendosi di echi ‘femministi’, la commedia sovverte le aspettative sui sogni tradizionali delle giovani, solitamente ancorati alla dimensione sentimentale, per suggerire forme di vita alternative, di stampo solidaristico: Ada, l’ereditiera, considera la sua fortuna economica come proprietà condivisa. Così le ragazze, tutte dotate di solida istruzione borghese, che non ha nulla da invidiare rispetto a quella di notai e avvocati, progettano un’avveniristica ditta «delle quattro ragazze: tutto per la donna», dotata di un gabinetto medico per donne e bambini, di un ufficio di consulenze legali per la clientela femminile, di servizi di traduzione e di un’accademia di danza classica. Una sorta di consultorio ante-litteram che, non a caso, ha come sede la casa ereditata: lungi dall’essere un bene esclusivo, questa dimora, che è vissuta con libertà e armonia nei suoi diversi spazi dalle ragazze [fig. 8], viene riadattata in funzione della loro nuova impresa femminile.

Poco importa che la ditta delle ‘4 del grattacielo’ venga sciolta in breve tempo, anche per effetto dell’ulteriore ingentissimo patrimonio ereditato (e sempre condiviso dalle ragazze), e che la conclusione sancisca un ritorno all’ordine con la formazione della coppia composta da Ada e Al, il gangster generoso. Ciò che sembra maggiormente contare è la possibilità di lasciare spazio ai sogni, senza inscriverli in confini angusti, di immaginare scenari nuovi e diversi in vista di un’uscita imminente dalle protettive ‘pareti di vetro’ della commedia dei telefoni bianchi.

Forse non è casuale il fatto che, nel gruppo delle attrici che partecipano al film, accanto a Valentina Cortese, Luisa Garella e Vanna Vanni, si trovi la figlia del regista Giannini – prossimo a fondare il movimento dell’‘Uomo qualunque’ –, Yvonne, nel ruolo più significativo della sua scarna filmografia. La giovane avvocatessa della pellicola, astuta e pronta a battersi per le giuste cause, presenta tratti in comune con l’interprete che, da antifascista, prende parte alla Resistenza, per poi fondare e dirigere il settimanale La Donna Qualunque (1946/47), dove si fa sostenitrice di cause a favore dell’emancipazione delle donne e del suffragio universale (Franchini, Soldani, 2004). Anche la fame di una donna borghese, portata sullo schermo, può accendere appetiti di emancipazione e giustizia sociale.

 

Bibliografia

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