Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Tra casa e ‘palazzo’ del governo si dipana una rete di relazioni che attinge al carattere polifunzionale degli edifici nelle loro pratiche d’uso, agli assetti socio-economici e ai regimi simbolici socio-culturali, nella loro mutua interazione. Il contributo intende riflettere sulla messa in scena delle spazialità in questione nella rappresentazione di donne ai vertici del governo della res pubblica proposta dall’attuale serialità televisiva e in narrazioni ambientate nel presente. In particolare ci si soffermerà su due prodotti, la serie danese Borgen e la spagnola Privacy (Intimidad), entrambe attualmente disponibili in Italia su Netflix. Nella loro dislocazione in un Nord e un Sud dell’Europa sono parse infatti offrire una interessante, e talora inattesa, prospettiva di osservazione.

A web of relationships unravels between home and government ‘palace’ that draws on the multifunctional character of buildings in their practices of use, socio-economic arrangements, and socio-cultural symbolic regimes in their mutual interaction. The paper intends to reflect on the enactment of the spatialities involved in the portrayal of women at the top of the Res Publica proposed by current television seriality and in narratives set in the present time. In particular we will focus on two productions, the Danish TV series Borgen and the Spanish Privacy (Intimidad), both currently available in Italy on Netflix. In their dislocation in Northern and Southern Europe they indeed seemed to offer an interesting, and sometimes unexpected, perspective of observation.

Tra casa e ‘palazzo’ del governo si dipana una rete di relazioni che attinge al carattere polifunzionale degli edifici nelle loro pratiche d’uso, agli assetti socio-economici e ai regimi simbolici socio-culturali, nella loro mutua interazione. Come ricorda Carlo Tosco nel suo Il castello, la casa, la chiesa (2003), l’architettura è infatti un fenomeno complesso non certamente riducibile al mero aspetto costruttivo. I due riferimenti architettonici configurano dunque campi dinamici di interazioni, più o meno polarizzate, di cui l’edificio costituisce solo una delle componenti. Singolarmente e nella reciproca tensione, risultano particolarmente sensibili in un’ottica di genere, indagata del resto da una consolidata tradizione di studi. Il contributo intende riflettere sulla messa in scena delle spazialità in questione nella rappresentazione di donne ai vertici del governo della res pubblica proposta dall’attuale serialità televisiva e in narrazioni ambientate nel presente. In particolare ci si soffermerà su due prodotti, la serie danese Borgen - Il potere (Borgen, 2010-2022; S. 4, Ep. 38)* e la spagnola Privacy (Intimidad, 2022; S. 1, Ep. 8), entrambe attualmente disponibili in Italia su Netflix. Nella loro dislocazione in un Nord e un Sud dell’Europa sono parse infatti offrire una interessante, e talora inattesa, prospettiva di osservazione.

 

1. Donne (seriali) al Palazzo del governo

La serialità televisiva è un osservatorio privilegiato per monitoraggi di genere e luogo di promozione di politiche di gender balance, più o meno compiutamente realizzate. Negli ultimi decenni una significativa gamma di proposte è stata incentrata sull’ascesa di donne a ruoli apicali nelle istituzioni pubbliche di governo (Moïsi 2017). Vi si annoverano narrazioni con esplicita matrice biografica ora a valenza documentaristica (tra tutte, il biopic in cinque episodi Thatcher: A Very British Revolution, 2019) ora liberamente ispirate al fascino imperituro di grandi regine e personalità. Di carattere invece finzionale (inteso qui nell’accezione di non direttamente attribuibile a un referente individuale dichiarato), Borgen - Il potere (Borgen, 2010-2022; S. 4, Ep. 38)* e Privacy (Intimidad, 2022; S. 1, Ep. 8) si alimentano di tendenze sociali e cronache contestuali.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Durante la Seconda guerra mondiale il cinema italiano, che conosce una stagione piuttosto fervida, dovuta alla politica cinematografica del fascismo, tende a occultare i problemi del presente, privilegiando – come è noto – rappresentazioni evasive, stilizzate ed edulcorate della realtà. A uno sguardo più ravvicinato, tuttavia, è possibile cogliere alcuni indicatori del malessere serpeggiante; piccoli segnali che raggiungono la superficie dello schermo condensando desideri repressi, frustrazioni e bisogni. Tra questi il cibo si rivela un topos significativo atto a veicolare non solo in senso letterale la fame che attanaglia gli italiani ma, in quanto metafora, anche un anelito tutto femminile di libertà espresso tra lo spazio privato della cucina e quello pubblico del soggiorno. L’intervento mette in luce il legame tra le figure femminili e il cibo negli spazi domestici delle commedie cinematografiche del 1943, come spia del complesso rapporto con la realtà e come metafora dei limiti e delle possibilità offerte dalla stessa rappresentazione audiovisiva.

During World War II, Italian cinema, going through a rather fervent season due to the film policy of fascism, tended to conceal the problems of the present, favoring - as is well known - evasive, stylized and sweetened representations of reality. At a closer look, however, it is possible to grasp some indicators of the social malaise; small signals that reach the surface of the screen condensing repressed desires, frustrations and deep needs. Among these, food proves to be a significant topos apt to convey not only in a literal sense the hunger that grips Italians but, as a metaphor, also an all-female yearning for freedom expressed between the private space of the kitchen and the public space of the living room. The paper highlights the connection between female figures and food in the domestic spaces of 1943 film comedies, as an indicator of the complex relationship with reality and as a metaphor for the limits and possibilities offered by audiovisual representation itself.  

 

1. Mangiare con gli occhi

Tra le metafore più suggestive che siano mai state applicate allo schermo, quelle di ‘telo’ e ‘tovaglia’ godono di una recente quanto corposa fortuna. In quanto superficie ampia, lo schermo accoglie tutto ciò che viene apparecchiato per gli spettatori, e che concerne non soltanto gli elementi della rappresentazione, ma anche il modo in cui le cose si danno (o non si danno) a vedere. È pertanto sorprendente – per chi si accinga a una ricerca anche introduttiva al riguardo – quanto sia cospicua la presenza del cibo, della tavola nonché dell’atto del mangiare o del bere al cinema (Alberto, 2009; Bower, 2004; Keller, 2006). La vocazione realista del racconto cinematografico incrocia e si annette inevitabilmente una delle attività che scandiscono i tempi della giornata e della vita di ciascuno. Dalla dimensione rappresentativa a quella simbolica, poi, il passo è breve: i rituali di preparazione e di consumo del cibo esprimono identità e appartenenze socio-culturali che vengono interpretate dal pubblico in relazione a pattern consolidati (Gelsi, 2002; Lapertosa, 2002). Anche gli ambienti in cui questi hanno luogo, mentre àncorano i personaggi a spazi verosimili (la cucina dove si prepara il pranzo e la sala in cui è consumato; gli eleganti salotti in cui si beve champagne; oppure gli spazi pubblici, come i tabarin, le trattorie e i ristoranti), aggiungono contenuti che definiscono tratti di personalità e funzioni narrative secondo strati di complessità che vengono inconsciamente rielaborati dagli spettatori.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Unica donna a firmare il Manifesto del New American Cinema Group e co-fondatrice della Film-Makers’ Cooperative, Shirley Clarke (NYC 1919-Boston 1997) ha eletto la settima arte come privilegiata «stanza tutta per sé», dedicandosi con fervore alla causa del cinema indipendente e di ricerca. Già danzatrice e coreografa, è stata autrice di innovativi film di cinedanza e in stile cinéma-vérité, oltre che docente di cinema. Iniziò a fare film a New York nel 1953 con una cinepresa avuta come regalo di nozze, e contribuì da protagonista di spicco al rinnovamento del cinema statunitense e alle sue ‘espansioni’ con una variegata sperimentazione formale e tematica, nella costante tensione verso un’idea di arte partecipata e relazionale. La mia proposta intende ricostruire l’eclettica pratica artistica di questa filmmaker di rango, che dalla danza si spinge agli albori della videoarte: un esemplare impegno estetico e civile all’insegna del rigore, della passione e della originalità espressiva

The only woman who signed the New American Cinema Group Manifesto, co-founder of the Film-Makers’ Cooperative, Shirley Clarke (NYC 1919-Boston 1997) elected the seventh art as her privileged «room of one’s own», devoting herself fervently to the cause of independent and research cinema. Formerly a dancer and choreographer, she authored innovative cinédanse movies as well as movies in cinéma-vérité style, and was also a film teacher. She started her film career in New York in 1953 with a movie camera she had as a wedding gift, contributing as a prominent protagonist to the renewal of the US cinema and its ‘expansions’ with a varied formal and thematic experimentation, in constant tension towards an idea of participatory and relational art. My proposal is meant to reconstruct the eclectic artistic practice of this high-ranking woman filmmaker, which goes from dance to the dawn of videoart: an exemplary aesthetic and civil commitment under the banner of rigor, passion and expressive originality.

Faccio questo lavoro per rendermi felice

Shirley Clarke

 

Unica regista tra i 22 firmatari del Manifesto del New American Cinema nel 1960, cofondatrice della Film-Makers’ Cooperative nel 1962, Shirley Clarke (Brimberg, NYC 1919 – Boston 1997) è stata protagonista del rinnovamento cinematografico statunitense fin dagli esordi ispirati alla sua formazione di danzatrice e coreografa (con Martha Graham, tra gli altri) [fig. 1].

Di famiglia agiata e la maggiore di tre figlie, Shirley era una ribelle già da bambina. Fece ottimi studi universitari e nel 1942, per sottrarsi al severo controllo paterno, sposò un fotolitografo di nome Bertram Clarke, padre della sua unica figlia Wendy, dal quale divorziò nel 1963. Nei primi anni Cinquanta intraprese un nuovo percorso creativo, scegliendo il cinema come privilegiata «stanza tutta per sé», e inaugurando la sua carriera di filmmaker con cortometraggi di cinedanza, ai quali collaborò il marito, e che presto avrebbero lasciato il posto a lungometraggi in parte ispirati al cinéma-vérité. Nel 1955 si iscrisse all’Institute of Film Techniques di New York. Allieva di Hans Richter, ebbe tra i compagni di classe Jonas Mekas, come lei habitué delle programmazioni della Cinema 16 Film Society di Amos Vogel. Fece parte della Independent Film-Makers Association (1953-1955), che la inserì nel milieu artistico del Greenwich Village animato da Maya Deren, Stan Brakhage, Lionel Rogosin e lo stesso Mekas.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Questo breve saggio tiene come punto di partenza implicito la considerazione dello spazio domestico, delle relazioni che storicamente lì si sono strutturate – e ancora si strutturano – e del lavoro che lì si consumava e si consuma, come uno dei centri della critica alla produzione capitalistica da parte di posizionamenti femministi considerati, a ragione, anche molto distanti tra loro. La casa, dunque, come spazio generatore di conflitto politico, la casa come luogo dal quale, paradossalmente, partire per una critica alla privatezza e per tornare, rilanciandola, sulla differenza tra personale e privato (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). Nell’agosto del 1974 Carla Lonzi scrive, nel suo Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), di star progettando la realizzazione di alcuni «filmini sui gesti delle donne che provvedono al sostentamento dell’umanità: rigovernare, accudire i bambini, i malati, ecc.». Questo piano, mai realizzato, ma al quale Lonzi si cura di dare anche un titolo (‘Cultura femminile del sostentamento dell’umanità’) sarà l’oggetto al centro del saggio, analizzato in relazione alla serie di fotografie che Lonzi inserisce nello stesso Diario (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). Il saggio studia questi progetti lonziani, al di là della loro modalità di realizzazione, come compiuti atti espressivi, leggendoli come uscita possibile alla critica dell’atto artistico e del mito dell’artista sulla quale Lonzi insiste già a partire dalla metà degli anni Sessanta, e che diventerà, come già ampiamente studiato, un tema ricorrente ed esemplare del suo femminismo (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

This short essay holds as an implicit point of departure the consideration of domestic space, of the relationships that historically have been structured there – and even still are structured there – and of the labor that was and still is consumed there, as one of the centers of critique of capitalist production by feminist positionings considered, with good reason, also very distant from each other. The home, then, as a space that generates political conflict, the home as a place from which, paradoxically, to start for a critique of privateness and to return, relaunching it, to the difference between the personal and the private (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). In August 1974 Carla Lonzi wrote, in her Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), that she was planning to make some «short films on the gestures of women who provide for the sustenance of humanity: cleaning up, caring for children, for the sick, etc.». This plan, which was never realized, but to which Lonzi also takes care to give a title (‘Female culture of humanity sustenance’) will be the object at the center of the essay, analyzed in relation to the series of photographs that Lonzi includes in the same diary (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). The essay studies these projects, beyond their mode of realization, as accomplished acts of expression, reading them as a possible exit to the critique of the artistic act and the myth of the artist on which Lonzi already insists since the mid-1960s, and which will become, as already extensively studied, a recurring and exemplary theme of her feminism (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

1. Spazio domestico e ‘gesti fatti di aria’

Al di là dell’apparente, presunta immediatezza del genere diaristico, Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) di Carla Lonzi è un libro ostico: ci lascia continuamente nell’apertura, quando non nelle contraddizioni – a dire il vero ovvie, se pensiamo al fatto che copre, a cadenza più o meno quotidiana, le trasformazioni di un periodo lungo quattro anni e mezzo (agosto 1972-gennaio 1977) – e, nello stesso tempo, nel continuo ribattere errante sulla stessa questione irrisolvibile, non chiudibile: l’autocoscienza.

In una pagina dell’agosto 1974, formulando l’ipotesi relativa a un progetto documentario sul gesto femminile, Lonzi scrive alcune righe, già al centro del mio ragionamento in altri scritti (Bertelli 2021a; Bertelli 2021b), che risultano un importante punto di attacco per una riflessione sullo spazio domestico:

 

Questo passo pone la questione del senso dell’operazione documentaria come mediazione estetica rimasta incompiuta, e della sua rimediazione nel diario. Tale rimediazione permette di cogliere l’intera operazione come operazione critica di ‘visibilizzazione’ di prassi, relazioni e oggetti altrimenti relegati ai margini, nell’insignificanza dal punto di vista del loro apporto culturale. Partire dalla visibilità di quei gesti è un modo per «mettersi intorno quella casa che lei è» (Irigaray 1984, p. 55) e riguarda allora il processo opposto, quanto al suo significato, rispetto a un’estetizzazione della tradizione che situa la donna nella casa, facendo di quest’ultima l’elemento protettivo e, insieme, imprigionante (un «esilio interno», ancora con le parole di Irigaray). In primo luogo, dunque, è evidente che a questi gesti è assegnata una nuova iscrizione simbolica che ne fa emergere tutta la loro rilevanza politica nella misura in cui essi, attraverso la radicale revisione critica del femminismo, sono decisamente sottratti alla dimensione privata, intesa come sfera separata da quella pubblica, che sarebbe figlia di un altro ordine. Non si tratta soltanto di smascherare la natura economica del privato e di porre l’attenzione sui rapporti sociali che nascono all’interno dello spazio domestico, ma si tratta di ripercorrere e risignificare tale spazio. Ciò riguarda, ovviamente, tanto una parte del modo in cui le donne sono state nella storia quanto una parte delle ragioni dalle quali, storicamente, ha preso avvio la presa di parola femminile: «L’autocoscienza diventa il metodo di politicizzazione del privato» (Pasquinelli 1977; Cfr. Fraire 2002, pp. 71-83), politicizzazione che è stata, com’è ampiamente noto, tradotta nella formulazione ‘il personale è politico’, laddove nell’adozione del termine ‘personale’ si consuma la demistificazione della separazione delle due sfere, della donna come soggetto naturale e impolitico, e della politica come amministrazione del potere. Nelle parole di Lonzi appare, allora, anche un senso ulteriore, punto che costituisce il centro della mia riflessione in queste pagine.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

«Non un televisore qualunque… ma un apparecchio collaudato da una lunga esperienza nella fabbricazione […] che possa essere adoperato dalle signore di casa come un comune ferro da stiro». Così recita una pubblicità dell’apparecchio Raymond TV apparsa sulle pagine di «Radiocorriere» nel 1954. Sarà necessario attendere alcuni anni prima che il televisore irrompa – più o meno democraticamente – nelle case degli italiani, eppure si intravvedono fin da subito, in nuce, le imminenti ridefinizioni che investiranno lo spazio domestico e il ruolo della figura femminile all’interno di quest’ultimo. Il contributo intende soffermarsi sui discorsi sociali che riguardano il rapporto tra le donne e l’ingresso dell’apparecchio televisivo all’interno del focolare domestico. Si seguiranno in particolare due direttrici: la sistemazione del televisore all’interno della casa e la creazione di un ‘galateo televisivo’ per la ‘buona padrona di casa’. Questi nodi verranno affrontati attraverso lo studio dell’Enciclopedia della donna.

Per l’affamato non esiste il problema del mangiare correttamente. L’etichetta del comportamento corretto a tavola ha senso solo per chi mangia sempre e non ha problemi in merito, tanto da permettersi il lusso di crearsene altri.

Franca Ongaro e Franco Basaglia, 1971, p. XI

1. Introduzione

«Non un televisore qualunque… ma un apparecchio collaudato da una lunga esperienza nella fabbricazione […] che possa essere adoperato dalle signore di casa come un comune ferro da stiro». Così recita una pubblicità [fig. 1] dell’apparecchio Raymond TV apparsa sulle pagine del «Radiocorriere» il 26 dicembre del 1954, a poco meno di un anno dall’ufficiale lancio delle trasmissioni televisive in Italia. Sarà necessario attendere alcuni anni prima che il televisore irrompa – più o meno democraticamente – nella maggior parte delle case degli italiani, eppure, sul finire di quell’anno cardine, si intravvedono già in nuce le ridefinizioni che investiranno lo spazio domestico e che interesseranno in particolare le donne, o meglio, le ‘signore di casa’.

Analizzare i grandi mutamenti legati all’ingresso del televisore nelle case italiane nei primissimi anni di vita del mezzo significa prendere in esame ‘alcune’ case, quelle della media e alta borghesia; allo stesso modo, interrogarsi sui cambiamenti che il nuovo ‘elettrodomestico’ ha portato nel campo delle relazioni sociali e, in particolare, nelle esistenze delle donne dell’epoca, significa necessariamente esplorare le vite di ‘alcune’ donne. Donne avvezze a gestire ogni ambiente della propria casa, ad amministrare con cura ogni aspetto della vita quotidiana e a risolvere tempestivamente ogni imprevisto o contrattempo, donne educate a dirigere il lavoro di uno o più domestici, specialmente in occasione di cene, party, incontri pomeridiani con le amiche, partite a canasta o a bridge.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Quando una regina del grande schermo (una diva) è chiamata a interpretare un’altra regina (realmente esistita sul palcoscenico della storia), si crea un amalgama fotogenico di corpi e fantasmi che rende la personaggia di fatto illeggibile. Prendendo in esame alcuni casi particolarmente significativi, sia riferibili al cinema classico sia alla contemporaneità, si vuole riflettere sul modo in cui l’ingombro di questi corpi regali si inscrive nella planimetria degli spazi che gli sono propri, individuando le possibili stanze della libertà – una libertà che, in fondo, si esprime anche nel nascondimento, nella fierezza estrema della posa, essendo ogni regina il radioso simulacro di un’attrice, come suggerisce Shakespeare nel finale de Il racconto d’inverno.

When a screen queen (a diva) plays another queen (really existed on the stage of history), a photogenic amalgam of bodies and ghosts takes place and the character results unreadable. Considering some of the most significant examples, both from classical cinema and from contemporaneity, we would like to reflect on the way the volume of these royal bodies is inscribed in the planimetry of its own spaces, by locating the possible rooms of freedom – a freedom which can express itself also in concealment, in the extreme pride of the pose, since every queen is the bright simulacrum of an actress, as Shakespeare suggest in the final scene of The Winter’s Tale.    

Elisabetta non divenne mai reale nel senso in cui era stata reale la regina Vittoria, eppure non divenne mai creatura di invenzione nel senso in cui lo sono Cleopatra e Falstaff. La ragione sembrerebbe il fatto che si sapeva poco […] la sua invenzione era sotto controllo. Così la regina si muoveva in un mondo ambiguo, fra fatto e finzione, né corporea né incorporea. C’è un senso di vuoto e di sforzo, di tragedia senza crisi, di personaggi che si incontrano ma non cozzano.

Virginia Woolf

Fuori continua a nevicare. Non c’è pace per la regina Cristina. Non è sola nella stanza della locanda, ma un velo di inquietudine le impedisce di godere a pieno del tepore del fuoco e delle attenzioni del suo amante, totalmente ignaro di trovarsi al cospetto della potente sovrana di Svezia. Così abbandona il giaciglio, si alza in piedi e inizia a muoversi nell’ambiente, sfiorando le superfici dei mobili e delle pareti, accarezzando gli oggetti. Quando l’uomo le chiede spiegazioni, la sua risposta evoca lo spettro di un’esistenza stritolata in una morsa di doveri e convenzioni: «Sto memorizzando questa stanza. In futuro, nella mia memoria, trascorrerò tante ore in questa stanza… Ho immaginato la felicità, ma è qualcosa che non si può immaginare. La felicità bisogna provarla, è una gioia infinita. Oh, sapessi quanto mi sento felice adesso!… Questo deve avere provato il signore quando ha finito di creare il mondo e tutte le sue creature, a cui aveva dato vita…».

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il caso di Anna Magnani offre una fenomenologia sempre feconda sulle possibiltà di osservare l’opera di un’attrice come la testimonianza creativa di un autore. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) afferma non soltanto un compendio di figure e personaggi che diventano essenziali per capire il paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma anche un manifesto sulla creazione del personaggio in un momento in cui dalle cinematografie nate dal dopoguerra europeo spuntano i ritratti della femminiltà moderna (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film delle immagini ricorrenti che si ripetono intorno alla sua presenza. Intendiamo queste immagini come motivi visuali (Balló & Bergala, 2016) che accompagnano la costruzione dei personaggi dall’attrice di film in film, e che a volte diventano delle vere unità di significazione narrativa e simbolica composte intorno alle sue figure. Il motivo più costante che troviamo a questo riguardo è quello della donna sdraiata sul letto. Un’immagine composta intorno a dei momenti significativi delle sue eroine realiste, che esprimono l’angoscia, la calma, la tristezza o la gioia della solitudine nell’intimità della propria camera. Pur non essendo in apparenza il motivo più rilevante in un senso narrativo, è quello più frequente e probabilmente quello che rege un maggior simbolismo nella carriera di un’attrice che ha esplorato e rappresentato le idee degli affetti e del desiderio oltre la narrativa melodrammatica classica e dell’amore romantico.  Attraverso il motivo della donna sul letto, questo studio cercherà di delineare il significato e l’importanza che prendono i luoghi dell’intimità legati allo spazio domestico nella costruzione del divismo di un’attrice per cui la rappresentazione della femminilità è stata fondamentale nella sua politica di attrice. 

The case of Anna Magnani offers an always fertile phenomenology on the possibilities of observing the work of an actress as the creative testimony of an author. Her actress policy (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) affirms not only a compendium of figures and characters that become essential for understanding the filmic landscape of Italian neo-realism, but also a manifesto on the creation of the character at a time when portraits of modern femininity were emerging from post-war European cinema (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). From a figurative point of view, we find recurring images around her films. We understand these images as visual motifs (Balló & Bergala, 2016) that accompany the construction of characters by the actress from film to film, and that sometimes become true units of narrative and symbolic signification composed around her figures. The most constant motif we find in this regard is that of the woman lying on the bed. An image composed around significant moments of his realist heroines, expressing the anguish, calm, sadness or joy of loneliness in the intimacy of their own room. Although it is apparently not the most relevant motif in a narrative sense, it is the most frequent and probably the one that holds the most symbolism in the career of an actress who explored and portrayed the ideas of affection and desire beyond classical melodramatic fiction and romantic love.  Through the motif of the woman on the bed, this study will attempt to delineate the meaning and importance of the places of intimacy linked to domestic space in the construction of the stardom of an actress for whom the representation of femininity was fundamental in her politics as an actress.

Il caso di Anna Magnani offre numerose possibilità di osservare nel percorso di un’attrice la testimonianza creativa di una autrice. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnicé Mur, 2015) mostra non soltanto un compendio di figure essenziali del paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma appare anche come un manifesto della creazione del personaggio in un momento in cui nelle cinematografie europee del dopoguerra affiorano i tratti della femminilità moderna (Sieghlor, 2000; Jandelli, 2007; Pravadelli, 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film una serie di immagini ricorrenti che muovono intorno alla sua presenza, generando una certa familiarità tra il mondo drammaturgico legato ai suoi gesti e la memoria degli spettatori. Ne sono esempi il motivo della pietà, quello della donna che corre, l’attrice nel suo camerino, o la donna sul letto. Vorrei leggere queste immagini attraverso il prisma della prospettiva teorica con la quale autori come Casetti e Di Chio (1994) o Balló e Bergala (2016) osservano i motivi visuali nell’analisi filmica, ovvero unità iconografiche che nutrono di senso l’universo filmico, diventando esse stesse unità autonome di significazione narrativa e simbolica. In questo caso, i motivi visuali appena elencati accompagnano la costruzione del personaggio di Anna Magnani di film in film, definendo una serie di tratti di familiarità e iconicità nel suo ventaglio di eroine quotidiane, così da offrire un ritratto profondo e non stereotipato dell’identità femminile del suo tempo.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

Nel numero 12 di Film d'oggi, pubblicato nel marzo 1946, una serie di scatti ritrae Isa Miranda davanti alle macerie della casa milanese di Porta Genova dove era cresciuta. Allo sguardo smarrito dell'attrice, che osserva quello che resta della dimora traballando sui tacchi in bilico sulle pietre, si accompagna un breve componimento in poesia, dedicato proprio a quelle mura arcigne che pure avevano accolto i suoi primi anni di vita. In effetti il legame con Milano rappresenta un tratto forte della personalità divistica dell’attrice, e lo spazio domestico ne accoglie spesso le raffigurazioni. Nelle scritture della diva (romanzi e raccolte di liriche) come nelle personagge che incarna sullo schermo, da La signora di tutti (M. Ophuls, 1934) all’episodio di Siamo donne (L. Zampa, 1953), la casa si delinea come luogo ambivalente, segnato dalle tracce orgogliose di un percorso tenace verso il successo e insieme da una ricorrente inclinazione melanconica dagli accenti lancinanti che appanna la figura di femme fatale sovente attribuita a Miranda.

 

 

1. Isa Miranda, milanese

La prima sequenza de La signora di tutti basta ad affermare per Isa Miranda la postura di femme fatale e al contempo ne segnala l’inevitabile piegatura tragica. Lo spazio che la inquadra è quello della camera di un hotel elegante: le corbeille di fiori, i ricchi arredi, i lampadari lucenti introducono chi guarda al personaggio di Gaby Doriot segnalandone da subito lo statuto di diva. Ma il corpo di lei, avvolto in una liseuse di seta, giace a terra, inerte: la donna ha tentato il suicidio. Le stanze sfarzose, i saloni signorili, i camerini accoglienti, le ville di lusso circondano poi la figura di Gaby lungo tutto il racconto accompagnandone le svolte drammatiche che conducono al suo destino fatale: seduttrice senza intenzione, la donna porta alla rovina gli uomini che hanno la ventura di innamorarsi di lei, per poi darsi la morte [fig. 1]. Dunque il film di Max Ophuls assegna Miranda al ruolo di donna del destino, sul quale l’attrice costruirà la sua fama e il viaggio a Hollywood, dove lo star system la accosterà a Greta Garbo e Marlene Dietrich (Muscio, 2009).

Ma l’immagine divistica di Miranda non è monolitica. I ruoli nei film italiani del decennio Trenta sembrano voler sfuggire al cliché della tragica seduttrice: meno fatali e più misurate sono, ad esempio, l’emigrante Maria Brunetti di Passaporto rosso (G. Brignone, 1935) o la sobria Velia di Scipione l’Africano (C. Gallone, 1937). Così, nei due testi autobiografici (Miranda, 1945 e 1946) come nella autofiction dal titolo La piccinina di Milano (1965), l’attrice tiene a distanza l’immagine della femme fatale per tracciare piuttosto il racconto degli anni difficili della gavetta, in quel tentativo tenace «di controllare il proprio personaggio pubblico», come scrive Elena Mosconi (2021), che percorre tutte le sue divagrafie. Il motivo ritornante è quello di Cenerentola: l’attrice disegna un ritratto di sé molto più terragno e ambienta in spazi modesti e miserabili un passato di ragazzina povera ma volitiva, impegnata in mille lavori, dalla aiutante di sartoria, la “piccinina”, a scatolaia, commessa, indossatrice, stenodattilografa, per sbarcare il lunario e potere, un domani, lasciare il «decrepito portone» da dove era «uscita un giorno per intraprendere il cammino della sua vita» (Miranda 1946).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Nel prestigioso salotto della villa paterna Il Salviatino, Paola Ojetti, traduttrice e giornalista cinematografica (Film. Settimanale di cinematografo, teatro e radio), costruì tra gli anni Trenta e Quaranta un’articolata rete sociale che annoverava anche diverse scrittrici e giornaliste. Tenendo in considerazione la storia di genere del periodo fascista, il breve contributo indaga la corrispondenza di Ojetti e della sua famiglia conservata in diversi archivi italiani. La giornalista disponeva di un’autorevole trama di relazioni e si servì del capitale sociale accumulato al Salviatino per accedere e farsi strada nel campo culturale, assumendo vesti non normative all’interno del quadro lavorativo del periodo fascista e valorizzando i progetti in cui era coinvolta. Inoltre, i documenti indagati portano alla luce l’importante rete femminile di cui faceva parte Ojetti: in particolare, nomi stimati come Margherita Cattaneo, Ada Negri, Alba De Céspedes e Ojetti stessa collaborarono in diverse occasioni (come la critica o il giornalismo cinematografico, i lavori di sceneggiatura, il periodico l’Almanacco della donna italiana) e si prestarono un importante supporto.

In the prestigious salon of her father’s villa Il Salviatino, Paola Ojetti, translator and film journalist (Film. Settimanale di cinematografo, teatro e radio), built up an articulate social network between the 1930s and 1940s, which also included several female writers and journalists. Taking into account the gender history of the fascist period, this short essay investigates Ojetti and her family’s correspondence preserved in various Italian archives. Relying on the social capital achieved at Salviatino, the journalist had skillfully managed to make her way in the cultural field, taking on non-statutory roles within the working framework of the fascist period and enhancing the projects in which she was involved. Moreover, the documents investigated bring to light the important female network of which Ojetti was a member: in particular, esteemed names such as Margherita Cattaneo, Ada Negri, Alba De Céspedes and Ojetti herself collaborated on various occasions (such as film criticism or journalism, scriptwriting work, the periodical l'Almanacco della donna italiana) and lent important support to each other.

 

1. Il Salviatino e Paola Ojetti

«Da questo poggio dov’è casa mia, vedo tutta Firenze, quella bella, quella antica, quella di macigno e di marmo» (U. Ojetti [1914] 1954, p. 3). Così Ugo Ojetti, critico d’arte, giornalista e ‘accademico d’Italia’, descriveva nei suoi Taccuini la posizione privilegiata del Salviatino, la villa storica immersa nel verde di Fiesole dove dal 1913 si stabilì con la moglie Fernanda Gobba e la figlia Paola [fig. 1]. Il salotto della sua abitazione non si affermava soltanto sul profilo rinascimentale della città, ma anche sul panorama mondano italiano: durante il ventennio divenne infatti un importante luogo di ritrovo per artisti, intellettuali e gerarchi. All’interno di questo contesto pienamente integrato nella società fascista, si era formata tra anni Trenta e Quaranta una rete femminile: attraverso i loro rapporti di amicizia, alcune professioniste della scrittura e del giornalismo (anche nelle vesti della critica cinematografica e della sceneggiatura) conoscevano nuove occasioni lavorative, ponevano le basi per collaborazioni presenti e future e si prestavano un inedito supporto.

Mentre nuove opportunità e cambiamenti nelle possibilità di vita delle donne italiane convivevano e si scontravano con l’ideologia patriarcale e repressiva del fascismo (Benadusi 2014), il regime dispiegò nei confronti del lavoro femminile una radicale politica di discriminazione che faceva certamente leva su pregiudizi di vecchia data ma ne accentuava gli svantaggi e lo sfruttamento (De Grazia, 1992, p. 167). In questo quadro, le professioni intellettuali erano difficilmente accessibili alle donne. Eppure, alcune attività, come la scrittura, il giornalismo e la traduzione, in particolare se non si mostravano, in apparenza, di prestigio (come il lavoro di pubblicista o la letteratura rosa), parevano offrire una veste maggiormente consona al lavoro femminile. Ciò poteva accadere per una supposta posizione ancillare rispetto allo status autoriale, ma anche per la flessibilità di alcune figure e per la possibilità di svolgere certi compiti in una dimensione domestica (De Grazia, 1992, pp. 195-196; Ferrando, 2020). Proprio gli spazi della casa potevano configurarsi come un inedito territorio di emancipazione professionale, in particolare in contesti facoltosi e di prestigio sociale.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →