1. Spazio domestico e ‘gesti fatti di aria’
Al di là dell’apparente, presunta immediatezza del genere diaristico, Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) di Carla Lonzi è un libro ostico: ci lascia continuamente nell’apertura, quando non nelle contraddizioni – a dire il vero ovvie, se pensiamo al fatto che copre, a cadenza più o meno quotidiana, le trasformazioni di un periodo lungo quattro anni e mezzo (agosto 1972-gennaio 1977) – e, nello stesso tempo, nel continuo ribattere errante sulla stessa questione irrisolvibile, non chiudibile: l’autocoscienza.
In una pagina dell’agosto 1974, formulando l’ipotesi relativa a un progetto documentario sul gesto femminile, Lonzi scrive alcune righe, già al centro del mio ragionamento in altri scritti (Bertelli 2021a; Bertelli 2021b), che risultano un importante punto di attacco per una riflessione sullo spazio domestico:
Di nuovo mi è venuta voglia di fare dei filmini sui gesti delle donne che provvedono al sostentamento dell’umanità: rigovernare, accudire i bambini, i malati, ecc. Il titolo «Cultura femminile del sostentamento dell’umanità». Prendere coscienza del suo valore non solo pratico, ma culturale può essere un modo per capire chi siamo e da dove veniamo. Vorrei filmare i gesti per mettere in evidenza la perizia e il tramando di esperienza che richiedono. […] vorrei filmare quelli che non diventano un prodotto, ma solo un accudire. Gesti nell’aria come quelli degli equilibristi, gesti fatti di aria. Su questi gesti senza seguito è costruita la nostra vita. (Lonzi 1978, pp. 763 e 767; Cfr. Cardone 2014).
Questo passo pone la questione del senso dell’operazione documentaria come mediazione estetica rimasta incompiuta, e della sua rimediazione nel diario. Tale rimediazione permette di cogliere l’intera operazione come operazione critica di ‘visibilizzazione’ di prassi, relazioni e oggetti altrimenti relegati ai margini, nell’insignificanza dal punto di vista del loro apporto culturale. Partire dalla visibilità di quei gesti è un modo per «mettersi intorno quella casa che lei è» (Irigaray 1984, p. 55) e riguarda allora il processo opposto, quanto al suo significato, rispetto a un’estetizzazione della tradizione che situa la donna nella casa, facendo di quest’ultima l’elemento protettivo e, insieme, imprigionante (un «esilio interno», ancora con le parole di Irigaray). In primo luogo, dunque, è evidente che a questi gesti è assegnata una nuova iscrizione simbolica che ne fa emergere tutta la loro rilevanza politica nella misura in cui essi, attraverso la radicale revisione critica del femminismo, sono decisamente sottratti alla dimensione privata, intesa come sfera separata da quella pubblica, che sarebbe figlia di un altro ordine. Non si tratta soltanto di smascherare la natura economica del privato e di porre l’attenzione sui rapporti sociali che nascono all’interno dello spazio domestico, ma si tratta di ripercorrere e risignificare tale spazio. Ciò riguarda, ovviamente, tanto una parte del modo in cui le donne sono state nella storia quanto una parte delle ragioni dalle quali, storicamente, ha preso avvio la presa di parola femminile: «L’autocoscienza diventa il metodo di politicizzazione del privato» (Pasquinelli 1977; Cfr. Fraire 2002, pp. 71-83), politicizzazione che è stata, com’è ampiamente noto, tradotta nella formulazione ‘il personale è politico’, laddove nell’adozione del termine ‘personale’ si consuma la demistificazione della separazione delle due sfere, della donna come soggetto naturale e impolitico, e della politica come amministrazione del potere. Nelle parole di Lonzi appare, allora, anche un senso ulteriore, punto che costituisce il centro della mia riflessione in queste pagine.
La ‘cultura del sostentamento dell’umanità’, visibile soltanto se fatta passare attraverso una mediazione estetica, non è la veste rappresentazionale ed estetizzata né del ruolo tradizionale femminile, foss’anche quella che recupera l’etica della cura domestica e del lavoro artigianale non alienato in funzione critica rispetto al lavoro salariato sfruttato, né della sua denuncia per il tramite di una riflessione sul lavoro domestico, peraltro ben presente in Lonzi quando nel Manifesto di rivolta femminile scrive: «Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permetta al capitalismo, privato e di stato, di sussistere» (Lonzi 1970, p. 14). Piuttosto, essa è una delle dimensioni ‘creative’ che Lonzi scopre vicine, in quanto «non diventano un prodotto», alla liberazione e la trasformazione che hanno luogo quando si assume il primato della relazione non finalizzata e l’interdipendenza dei soggetti.
Come appare con chiarezza in alcuni passi del diario, così come in Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra e Armande sono io, attraverso la rappresentazione di ciò che, a prima vista, si dà nella forma dei tradizionali gesti femminili, Lonzi intende raffigurare ciò che per lei dà senso alla creazione stessa, cioè la relazione. Così leggiamo, appunto, in Armande: «Voglio dire che non mi interessa molto quello che può succedere fuori di me, mi interessa quello che posso provocare io e lasciare che altri provochino in me, il mio interesse è soprattutto lì. [...] questo mi sembra che voglia dire che per me le cose nascono nella vita concreta dove c’è un controllo reciproco sull’atteggiamento di verità assunto con gli altri: è lì che può verificarsi qualcosa che valga la pena di essere scritto» (Lonzi 1992, p. 21). Oppure diversamente mediato.
2. L’album fotografico come ricerca di sé
Se è vero che c’è in Lonzi un’indubitabile preminenza accordata alla scrittura come espressione di sé, è altrettanto vero che, in particolare nel diario, è insistente la riflessione su altri media, tanto nel loro statuto tecnologico (Cfr. Lonzi 1978, p. 277), quanto nella funzione e nel ruolo che assumono non solo all’interno della cultura – tema già molto conosciuto e ben studiato a partire dal significato che ebbe per Lonzi l’abbandono della critica d’arte – ma anche, in senso opposto, per la coscienza e il suo farsi: «Vorrei un mondo dove ogni espressione restasse a livello esistenziale: scrivere, suonare, dipingere, fare operazioni di qualsiasi tipo e con qualsiasi mezzo. Perché questo si realizzasse occorrerebbe che tutti fino all’ultimo accettassero il bisogno di esprimersi. Se uno solo restasse fermo, bloccato, l’Arte manterrebbe radici nella sua unica mente» (Lonzi 1978, p. 949). Prendere in considerazione questo secondo aspetto, per come esso è convocato da Lonzi nel diario, è quanto mi interessa per il discorso che sto portando avanti in queste pagine.
I progetti di espressione di sé di cui Lonzi parla, e che adotta come pietra di paragone per la critica alle «femministe artiste (e viceversa)» (Lonzi 1978, p. 949), non sono pochi. Compare la realizzazione di alcuni quadri e l’idea per una mostra, un piano che da solo, visto il rapporto di Lonzi con gli artisti figurativi, meriterebbe un saggio a parte. Compare un’ampia riflessione sul teatro, quasi un ritorno alle origini per Lonzi che aveva dedicato la tesi di laurea con Roberto Longhi ai Rapporti tra la scena e le arti figurative dalla fine dell’800. Compaiono, oltre a quella già commentata, diverse idee di film corti – «i soliti tre minuti» (Lonzi 1978, p. 287) –, dei quali alcune scene vengono effettivamente girate: un «pianto irrefrenabile […] di liberazione» (Lonzi 1978, p. 357), l’iniziativa per il quale sembra essere di ‘Sara’ (la donna che Lonzi scrive di aver riconosciuta per prima nella sua autenticità e al rapporto con la quale sono dedicate molte pagine del diario, Ritva Raitsalo), il progetto «il profilo e il bacio» (Lonzi 1978, p. 287), un filmino comico (Lonzi 1978, p. 997) e uno sui suoi genitori (Lonzi 1978, p. 1001), fino a una sceneggiatura non meglio identificata (Lonzi 1978, p. 643).
Pur strettamente legata al significato di queste immagini, compare tuttavia nel diario, come già qualche anno prima in Autoritratto, una relazione ulteriore con la dimensione visuale: non più elementi richiamati dalla parola scritta, ma immagini vere e proprie, più specificamente fotografie, che scandiscono il passaggio da un anno all’altro in Taci, anzi parla. In particolare, le analogie di senso tra il progetto filmico sui gesti delle donne nello spazio domestico e le fotografie inserite nel diario sono particolarmente rilevanti nella misura in cui s’inseriscono in una ricerca di sé che implica non solo la ricontestualizzazione delle immagini, ma anche un nuovo lavoro d’interpretazione di ciò che in esse è colto.
Sono trentaquattro le fotografie inserite in Taci, anzi parla, esclusivamente nell’edizione del 1978 (Zapperi 2017, p. 289). Dieci sono collocate alla fine del diario dell’anno 1972 e sono immagini dei primi anni di vita [fig. 1]; cinque sono collocate alla fine delle pagine del 1973 e risalgono all’infanzia e alla prima adolescenza, fino agli anni della seconda guerra mondiale [figg. 2-3]; otto sono inserite alla fine dell’anno successivo e raffigurano Lonzi ragazza, fino agli anni dell’università [figg. 4-5]; undici, infine, si trovano alla fine dell’anno 1975 e riguardano il periodo che va da pochi giorni prima della nascita del figlio nel 1959 fino all’estate del 1976 [figg. 6-8]. Quasi tutte le foto la ritraggono come unico soggetto. Le eccezioni sono date da due foto del primo gruppo, in cui Carla bambina compare rispettivamente in braccio alla madre e al padre, i quali, tuttavia, per come figurano nel diario, risultano quasi completamente tagliati dalle due immagini, tanto che siamo in grado di dire che si tratta effettivamente della madre e del padre solo grazie alle didascalie apposte alla fine del volume. Inoltre, in altre due foto, appartenenti anch’esse al primo gruppo, Carla compare insieme alla sorella Lidia, entrambe nei primi anni di vita. Infine, una foto dell’ultimo gruppo la ritrae insieme al figlio. Le fotografie provengono dalle raccolte, private o di famiglia, di Lonzi e gli ultimi cinque scatti sono di Maria Grazia Chinese, la quale aveva pubblicato nel 1976, sempre per Scritti di Rivolta Femminile, La strada più lunga, volume composto in larga parte da fotografie (Chinese 1976). È interessante che, nel caso delle didascalie alle foto del diario, Lonzi scelga di nominare effettivamente Chinese invece di utilizzare ‘Piera’, il nome con il quale è nominata, numerose volte, nel diario (Lonzi 1978, p. 412).
Anche nel diario le fotografie sono disposte, nuovamente, in modo da formare le pagine di un album: è dunque questo dispositivo memorialistico, come osservato anche da Giovanna Zapperi, a costituire la cornice interpretativa generale del significato di tali immagini (Kittler 2014 e 2020; Zapperi 2017). Le fotografie dell’album di famiglia, in particolare nella forma consueta del ritratto, si trovano ordinariamente catturate e iscritte in un doppio codice. Da una parte, il ritratto sembra celebrare il nostro sé, ciò che vi è di unico e singolare nella nostra fisionomia; dall’altra esso, e in particolar modo quello consueto nell’album di famiglia, è ciò che ci restituisce a noi stesse come altre, anche nel senso dell’appartenenza al ruolo sociale che impersoniamo (Sekula 1986): «La foto – osserva Lonzi nel diario – è un modo di conoscere la propria immagine e di dare riscontro agli altri sulla loro» (Lonzi 1978, p. 412).
L’album di famiglia è, classicamente, un dispositivo estetico e sociale che sta sulla soglia tra privato e pubblico, contribuendo a definire, con il suo gioco di rappresentazioni, il limite che intercorre tra lo spazio domestico e il suo esterno. Questa linea di confine tra ‘interno’ ed ‘esterno’ che l’album come dispositivo contribuisce a rendere porosa, opera facendo leva su una memoria condivisa da riattivare, oppure su una memoria personale che s’intende condividere. In questo senso l’album richiede sempre una forma di relazionalità più o meno implicita.
Le immagini fotografiche dell’album di famiglia offrono i frammenti di tale memoria comune, la quale s’intreccia con un quotidiano che, tuttavia, è già sempre passato. Queste tracce del quotidiano passato possono essere intese come la forma di base del particolare tipo di mediazione estetica del quale l’album si incarica. Nel caso del montaggio che compare in Taci, anzi parla esse, con un gesto, vengono estrapolate dalla serie di cui fanno parte in quanto frammenti di un album. Rimosse dal contesto domestico cui appartengono, le fotografie vengono così integrate in un’altra serie, che è quella che si compone nelle pagine di un testo destinato alla pubblicazione. In questo gesto di decontestualizzazione e ricontestualizzazione consiste il senso della mediazione. Il rendere visibile passa attraverso un’esposizione di tali frammenti.
Su quale tipo di memoria fa leva questo gesto di trasferimento dei frammenti da un tipo di album a un altro? Dal momento che ritengo che non si tratti della rivalutazione della biografia personale come elemento dell’opera, a quale funzione adempiono allora queste immagini fotografiche? Esse sono inserite da Lonzi, nel diario così come in altri testi, non tanto come segni di vicinanza al vissuto, ma piuttosto come momenti della propria identità sui quali tornare (e ritornare) in quanto portatori di un’autocoscienza che, tuttavia, è ancora sepolta, non dispiegata. Anche se non ancora riconosciuti e riconoscibili, questi momenti sono ‘già’ delle tappe di quel percorso che conduce alla possibilità di fessurare il ruolo sociale che pure essi mettono in scena in forma di immagine. Questa funzione è decisiva, perché la fessurazione produce l’effetto non scontato d’un avvio della trasformazione di sé nel processo dell’autocoscienza.
L’idea di questo particolare inconscio ottico è un aspetto esplicitato almeno nel caso di una fotografia, quella scattata a Lonzi da Piero Consagra alla fiera internazionale di S. Antonio, poi inserita in Autoritratto e divenuta una delle fotografie più conosciute e usate tra quelle che la ritraggono. Nel diario Lonzi scrive infatti che uno dei motivi per il quale aveva selezionato quell’immagine di sé era perché vi ritrovava «il sorriso dell’autenticità misconosciuta» (Lonzi 1978, p. 35). Conferendole un contenuto visibile, l’immagine mostra l’impossibilità stessa di un riconoscimento, tanto da parte degli altri quanto da parte di sé. Tale impossibilità, la cui comprensione ha anche il valore di un inizio, può essere riconosciuta soltanto retrospettivamente a partire dall’autocoscienza. Essa è dunque una latenza, cui l’istante del sorriso dà una raffigurazione. In altre parole, se quella foto aveva colto l’istante in cui una mimica – quella del sorriso – stava esprimendo un’autenticità che, pur essendo tutta da guadagnare, era già presente, è anche vero che la foto racconta pure del misconoscimento di tale autenticità. L’immagine della foto può essere allora interpretata alla luce di una dialettica tra misconoscimento e riconoscimento, che ha come posta in gioco sia la relazione con sé e con l’altro, sia il processo che conduce verso il recupero del quotidiano come terreno da esplorare nuovamente. Non è dunque un caso che sia questa stessa foto a essere scelta come immagine della copertina del testo, uscito postumo, che raccoglie le poesie di Lonzi. Le poesie, infatti, sono a loro volta altrettanti squarci nell’obliterazione di sé e nel guadagno di sé, passi inconsapevoli alla ricerca di sé per una strada sbagliata, tentativi buoni ma in un’esistenza ancora falsa, «omaggi al sentirsi stritolare» (Lonzi 1978, p. 285), ‘scacchi ragionati’.
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