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Stella brillante di alterne intermittenze, capace di orbitare dall’algido bianco e nero dei film antonioniani alle sgargianti cromie della commedia, Monica Vitti irradia nello scenario del cinema italiano luci e significati differenti, che aprono a riflessioni continue. Parto dunque da lei e dai film dalla cosiddetta tetralogia dei sentimenti (e in particolare mi soffermerò su L’eclisse, 1962) anzi tutto perché questo corpus offre inesauste occasioni di produrre pensiero (cfr. Cuccu 1997, p. 11), ed anche perché, a mio parere, queste prime interpretazioni di Vitti si offrono come performance profetiche e politiche, testimoniando, in un certo senso sotto pelle, il lavorio e il rovello interiore che ha portato molte donne, per vie oblique, negli anni immediatamente successivi, alla pratica del femminismo.

Intendo il termine ‘politica’ in una accezione precisa, che ha a che fare non con partiti, elezioni, logica dello scambio, ma con l’autenticità delle relazioni fra donne e con la capacità di affermare e insieme accogliere la differenza, l’altro da sé. Intendo politica nel suo senso primo, che non significa meramente cercare soluzioni ma porre gli interrogativi

In altre parole, vuol dire guardare al potenziale rivoluzionario del pensiero femminista, fare i conti con la sua radicalità, che sta altrove rispetto alle battaglie della militanza. Mi riferisco in particolare alle elaborazioni del gruppo di Rivolta Femminile, fondato nei primi anni ’70 da Carla Lonzi, che pone, scandalosamente, i corpi al centro del discorso politico. A portarne il segno spiazzante sugli schermi italiani è, secondo me, la Monica Vitti della tetralogia dei sentimenti; è lei a incarnare il Soggetto imprevisto di cui scrive Lonzi nel celebre Sputiamo su Hegel. È un soggetto che nasce da un doppio movimento: dalla decostruzione puntuale del «momento più alto raggiunto dall’uomo (con l’arte, la religione, la filosofia, esattamente in senso hegeliano)» (Lonzi 1978, p. 40); e dalla riflessione autocoscienziale che mette primariamente a tema la sessualità, luogo sorgivo della colonizzazione maschile che, se pure a caro prezzo, può tramutarsi in uno spazio di libertà per le donne, attraverso lo smascheramento del mito della complementarità della coppia. Dall’interrogarsi su di sé, sul godimento femminile e sulle sue infinite rifrazioni sociali ed esistenziali nasce la «donna clitoridea», che ha coscienza della propria e autonoma sessualità e che osa pensare l’impensato, abbandonando le sponde sicure ma anguste della femminilità consentita, e scommettendo, senza alcuna certezza di riuscita, su inauditi modi di esistenza. Questa soggettività nuova non ha niente a che fare con la donna emancipata, che invero conferma, con una rammodernata disponibilità, l’ordine patriarcale, rendendosi ancor più disponibile al desiderio maschile e rimuovendo il proprio.

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L’oggettivazione del sé, tema centrale delle battaglie femministe degli anni Settanta, anima anche le sperimentazioni di alcune artiste e filmmaker italiane che, in quel periodo, trovano nella macchina da presa un efficace strumento di autoanalisi. I loro percorsi eterogenei convergono verso un cinema diaristico, simile alla scrittura automatica, che inevitabilmente stravolge le canoniche modalità dell’agire attoriale (e autoriale) davanti e dietro alla mdp.

In questi film, infatti, i canonici Ê»ruoliʼ (parola che vedremo ritornare più volte nelle dichiarazioni delle protagoniste) si confondono o si sovrappongono: talvolta la filmmaker coglie a distanza ravvicinata un momento privato vissuto con il soggetto ripreso; altri sono realizzati attraverso delle auto-riprese, l’autrice e la protagonista sono cioè la stessa persona che si filma, mantenendo la visione in soggettiva o rivolgendo la mdp verso di sé.

Seppur realizzate da professioniste, queste pellicole non hanno avuto, perlomeno inizialmente, una circolazione pubblica; si tratta infatti di film autobiografici, confezionati da un’ ‘amatrice’ unicamente per se stessa o per le proprie amiche, tali da poter essere considerati amatoriali secondo quell’accezione etimologica tracciata da Maya Deren (Deren 1965, p. 45).

Un dato non secondario è che questi film non sono mai stati impiegati come pratica di autocoscienza all’interno di un gruppo, in quanto spesso concepiti proprio come alternativa a questo tipo di attività, ritenuta non più sufficiente per riuscire a realizzare l’istanza primigenia della rivoluzione femminista, quel «trovarsi e riconoscersi come singola e, finalmente, dire io» (Cardone 2011 p. 46).

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Dalla metà degli anni Settanta anche in Italia, in linea con quanto stava accadendo in tutta Europa e soprattutto negli Stati Uniti, quasi in risposta alla domanda che a inizio decennio aveva posto Linda Nochlin dalle pagine di Art News (Nochlin 1971, p. 122), sono molte le donne che calcano la scena artistica, operando attraverso inedite modalità espressive, in molti casi specificatamente legate al loro genere. Artiste e donne. Sebbene tale atteggiamento, che coniuga consapevolezza linguistica ed esigenze espressive profonde, venga declinato da ciascuna delle protagoniste di questo contesto in maniera personale, ci sono alcuni elementi che risultano ricorrenti nelle loro ricerche le quali, pur inserendosi per molti aspetti nelle trame del tessuto artistico dell’epoca, affondano le loro radici proprio nelle istanze legate al femminismo e pongono in primo luogo la complessa questione della ricerca di una (non schematizzabile) identità altra, diversa rispetto a quella maschile, che si iscrive nel quadro di una più complessa e articolata contestazione di tutta la storia culturale. Va riscritta la storia, va cambiato il presente a livello intimo e profondo, e siffatta operazione comporta una messa in discussione di ogni certezza, con aperture a punti di vista inediti: smontato il sistema, sono le più varie le istanze che hanno diritto di esistenza.

Il nuovo femminismo si impone in Italia sin dall’inizio del decennio, soprattutto grazie all’impulso dato delle rivoluzionarie posizioni di Carla Lonzi, il cui pensiero segna un passaggio imprescindibile, anche a livello internazionale, in seno alla riflessione sulla condizione femminile. Se la posizione di Lonzi ha avuto un’eco notevole, è pur vero che in Italia già dalla seconda metà degli anni Sessanta altre donne erano state attive nella medesima direzione: basti pensare al gruppo milanese DEMAU, che nasce tra il 1965 e il 1966. Intorno al 1975 queste posizioni, che si sono sviluppate (anche in direzioni non convergenti) attraverso l’azione di numerosi gruppi attivi sul territorio nazionale, trovano eco anche nell’ambito della cultura visiva e incoraggiano la diffusione di un profondo ripensamento sulle questioni identitarie, che interessa anche quante non abbracciano espressamente il femminismo.

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