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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

 

Nel 1974, a un mese di distanza, escono i due film di Rainer Werner Fassbinder Martha e Fontane Effi Briest. Il primo girato in 16 millimetri per la televisione, ispirato a un racconto di Cornell Woolrich, il secondo trasposizione dal romanzo omonimo di Theodor Fontane per il cinema. Durante il protrarsi delle fasi di ripresa di Effi Briest a causa della malattia di uno degli attori, Fassbinder decide di realizzare Martha, sorta di versione horror e di parafrasi moderna, come da lui stesso dichiarato (Trimborn, 2014, p. 177), dei temi già presenti in Effi Briest.

Forgiati al pari di due facce della medesima medaglia, i due lungometraggi possono facilmente essere accostati per la rilevanza accordata a un tema costante del cinema di Fassbinder: i rapporti di dipendenza e di potere in una coppia. In entrambi sono anche presenti componenti stilistiche riconducibili al melodramma, con specifiche declinazioni, tra le altre la scelta di disegnare le traiettorie delle dinamiche amorose all’interno degli spazi chiusi di una casa, che assume i connotati di un luogo concentrazionale (Salvatore, 2018, p. 146). Il melodramma, scelto dal regista quale codice elettivo per le due pellicole dopo la folgorante visione dei film di Douglas Sirk nel 1971, secondo Elsaesser è il genere «capable of reproducing more directly than other genres the patterns of dominance and exploitation existing in a given society, […] by emphasizing so clearly an emotional dynamic whose social correlative is a network of external forces directed oppressingly inward, and with which the characters themselves unwittingly collude to become their agents» (Elsaesser, 1991, p. 86). La ricorrenza figurativa di specchi, finestre, soglie, scale, oggetti d’arredo, non è al servizio di una funzione decorativa, non è scena inerte, manifesta piuttosto metaforiche allusioni al vissuto dei protagonisti e all’accentuazione delle dinamiche affettive che vedono nell’incontro d’a-mur tra donna e uomo, nel caso in particolare di Martha, protagonista del film omonimo, un oscillare tra obbedienza e inconsapevole dominio sull’altro. Uso intenzionalmente il termine a-mur, ovvero la pronuncia in francese del lemma amour per evocare, sulla scia di Lacan, come le dinamiche dell’amore possano a volte richiamare una lotta contro un muro.

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L’amicizia fra Laura Betti e Pier Paolo Pasolini è una delle avventure più toccanti dell’industria culturale italiana. Qui si ripercorrono alcuni dei momenti più intensi del loro rapporto attraverso una fitta serie di documenti della stessa Betti. I frammenti di lettere, interviste e scritti autobiografici confermano la temperatura emotiva di un legame davvero unico.

The friendship between Laura Betti and Pier Paolo Pasolini is one of the most touching adventures of the Italian cultural industry. Here some of the most intense moments of their relationship are retraced through a dense series of documents by Betti herself. The fragments of letters, interviews and autobiographical writings confirm the emotional temperature of a truly unique bond.

 

 

 

Avevo veramente una doppia vita. Ma l’ho avuta sempre. L’ho anche adesso, probabilmente. Avevo questa capacità di amministrare una vita e un’altra vita… Comunque nel rapporto con Pier Paolo questo si poneva: io non rinunciavo ad essere una mascalzona. Avevo bisogno di molte cose, mi piaceva moltissimo la mondanità. Che Pier Paolo detestava.

Laura Betti

 

 

Il profilo artistico e biografico di Laura Betti ruota intorno al rapporto con Pasolini: l’incontro con ‘il veneto’ rappresenta una svolta per la funambolica avventura dell’attrice («Fino ad allora, la mia vita non era stata altro che un’abitudine. Lui è diventato la mia vita»),[1] che da quel momento si voterà a una dedizione fatale, con tratti di «folle ambiguità».[2] La loro ‘relazione’ scardina i presupposti dell’industria culturale italiana, perché non resta confinata al modello-Pigmalione: Betti, pur incarnando fino in fondo il ruolo di «pupattola bionda»,[3] sarà l’artefice prima dell’edificazione della mitografia pasoliniana e si trasformerà pertanto da musa a vestale della memoria e dell’opera dello scrittore-regista.[4] Tale sbilanciamento, frutto di una determinazione assoluta, rende le traiettorie della ‘coppia’ inconsuete per il sistema divistico italiano: nessuna amicizia intellettuale riuscirà a eguagliare il primato di una reciprocità così profonda, nessuna partnership sarà tanto longeva e feconda.

 

 

La dimensione ‘leggendaria’ di questo legame si deve non solo alle aperture mondane dei due, alla loro disinvoltura nel presenziare a festival, cerimonie, kermesse teatrali o cinematografiche, ma anche alla spiccata propensione di Betti per l’affabulazione romanzesca; non c’è intervista, lettera o manifesto in cui lei non chiami in ballo il poeta, un po’ per la curiosità morbosa di giornalisti e paparazzi, un po’ per la necessità di restare attaccata all’ombra dell’amico scomparso («Il passaggio del tempo, soprattutto da quando non c’è Pier Paolo, per me è disperso al vento. Certo, non sono la sua vestale, ma, per me, è ancora l’unica cosa che vale nella vita»).[5] La storia di questo côté affettivo è dunque puntellata di aneddoti, dichiarazioni, invenzioni più o meno audaci, che testimoniano l’intimità e l’ostinazione della ‘giaguara’, il suo essere irrimediabilmente votata a una fedeltà senza misura, e in ultimo la sostanza mitica di un rapporto capace di superare il limite dell’esistenza.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Il contributo indaga il rapporto fra Anne Wiazemsky e Pier Paolo Pasolini a partire dal racconto dell'attrice-scrittrice all'interno dei suoi romanzi autofinzionali sull’esperienza dei set pasoliniani. Nel confronto fra l'io narrante-io narrato di Anne con i personaggi di Odetta e Ida interpretati da lei in Teorema e Porcile, emerge il potere liberatorio e dirompente che l’esperienza della regia pasoliniana ha avuto su Wiazemsky, nei termini di una libertà ritrovata proprio nei ruoli controversi interpretati nelle pellicole italiane.

The article focuses on the crucial role played by Pier Paolo Pasolini and his cinematic poetics on the Bildung process that invests the autofictional character of Anne in Anne Wiazemsky's romanesque autobiographical trilogy. By comparing the characterization of Anne to her roles played in Teorema and Porcile, what emerges is the liberating and disruptive power that Pasolini's directing had on Wiazemsky.

Anne Wiazemsky incontra Pier Paolo Pasolini alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1967, per caso, mentre si trova su un vaporetto che va da Venezia al Lido, dove è attesa da Jean-Luc Godard – con il quale si è da poco sposata – e Bernardo Bertolucci. Si trova al festival per promuovere, insieme al marito e cineasta, La chinoise, presentato poche settimane prima in anteprima mondiale al Festival di Avignone, e che la vede tornare, dopo l’esperienza di Au hasard Balthazar di Robert Bresson (1966), nuovamente sullo schermo. L’incontro con il regista italiano, che avrebbe presentato la sera stessa il suo Edipo re, viene descritto dall’attrice e scrittrice nei termini di un avvenimento epifanico, quasi si trattasse di un’espressione di quel destino inesorabile che muove le vite dei personaggi dei film pasoliniani cui parteciperà lei stessa:

 

C’è un elemento che colpisce nel modo in cui l’attrice descrive l’incontro pasoliniano. Wiazemsky, infatti, assume una postura del corpo che condividerà con il personaggio che Pasolini riconosce immediatamente in lei: come Odetta, anche Anne è silenziosa, volge gli occhi verso il basso, quasi a vergognarsi di essere «una piccola francese molto ignorante» (ibidem) che non sa chi si trova di fronte. Eppure, è proprio la grazia di Wiazemsky che il regista riconosce come una folgorazione, quella grazia che deriva proprio dalla capacità di mantenere uno sguardo ingenuo nei confronti del mondo e di sé, simile a quello del giovane uomo che si toglie una spina dal piede, ancora inconsapevole della propria bellezza, nel Teatro delle marionette di Heinrich Von Kleist.

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La seconda prova cinematografica di Emma Dante prende le mosse dall'omonimo spettacolo ma la drammaturgia dei corpi e degli spazi vira subito verso una dimensione intimamente cinematografica, affidata a millimetriche transizioni temporali e a un intenso gioco performativo che vede coinvolte dodici interpreti, sensibili a una serrata grammatica di movimenti. La lettura che qui si propone mira a recuperare la matrice del dispositivo sororale e la dimensione 'materiale', organica della trama visuale, esposta ai danni della luce e del tempo.

Emma Dante's second direction test is derived from the show of the same name, but the dramaturgy of bodies and space quickly shifts towards a quintessentially cinematographic dimension, made of instant temporal transitions and an intense acting game with 12 performers who follow a fast-paced grammar of movement. The interpretation proposed here is an attempt to retrace the scheme of the sorority  theme and the material, organic dimension of the visual plot, exposed to the damages of light and time

 

 

«Non ci si dice molto perché

non c’è molto da dire, ogni

volta

è come se ci inseguisse

qualcosa».

Riccardo Frolloni, Materiali II

 

 

La scrittura franta di Riccardo Frolloni può essere la giusta porta d’accesso alla geografia emotiva e fisica de Le sorelle Macaluso, seconda prova cinematografica di Emma Dante che, dopo il debutto veneziano, ha appena conquistato cinque prestigiosi Nastri d’argento. Entrare dentro gli spazi di questo film attraverso la lente di Frolloni significa fare innanzitutto i conti con il perimetro degli interni, continuamente esposti a epifanie d’altrove: un verso della lirica Materiali I – «la casa era prima di terra e poi / d’aria»[1] – consente di inquadrare con un solo movimento quella che a tutti gli effetti sembra essere la promessa su cui si fonda la riscrittura per immagini della pièce, ovvero la possibilità che le protagoniste possano davvero trasformarsi in «uno stormo di uccelli che partecipano al proprio funerale e a quello degli altri».[2] La dimensione del lutto, a cui si accompagna una comunità di affetti e ricordanze fra vivi e morti, appartiene del resto al codice drammaturgico di Dante da sempre, per un’intrinseca vocazione al tragico mitigata a tratti da una controspinta umoristica, secondo un principio di contraddizione che insiste irrimediabilmente in quella lancinante ‘terra di teatro’ che è la Sicilia. Ereditando il sangue e gli spasmi di una imagery intimamente isolana, Dante attribuisce alle sue figure, e in particolare alle sorelle Macaluso,[3] un’ansia di assoluto che confligge con gli umori terragni, con la cupa violenza di ogni liturgia familiare, e così al centro dell’azione performativa si ritrova spesso lo scarto tra la furia del vivere e la disperazione del morire.

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Premessa

Questo secondo Focus di Punctum in motion: fotografia e scritture dell’io presuppone il quadro teorico tracciato nell’introduzione al primo, pubblicato su Arabeschi n. 16. In quell’orizzonte ideale vanno infatti collocati i contributi qui raccolti, che riannodano il filo tra narrazione e immagini attraverso l’analisi di alcune opere di scrittori, cineasti e videoartisti prodotte dagli anni Settanta fino ad oggi. In particolare, nei casi analizzati l’interazione tra immagine, filmico e parola autobiografica tende ad effetti stranianti, ottenuti valorizzando gli ‘scarti’; è qui sovvertito il senso di luoghi di memoria assai banali come l’album familiare e le riproduzioni di monumenti e quadri famosi. I nove saggi interdisciplinari sono dedicati agli incroci intermediali più sperimentali e alle implicazioni culturali e formali – tra analogico e digitale – tanto dell’uso dell’immagine fotografica, quanto della sua relazione con l’immagine filmica o la videoarte, nel quadro di fenomeni narrativi che si sono fatti sempre più multimodali. Rispetto alla macchina da presa, la videocamera diviene una protesi, una lente d’ingrandimento sempre più efficace, in grado di rappresentare la relazione tra fotografia e racconto di sé: un occhio straniante capace di indagare e mostrarci cosa succede poco prima e poco dopo un’immagine pittorica o un’istantanea fotografica, di rivelare le sfasature tra film e autoritratto evocando sperimentalmente la soggettività presente nel secondo. La fotografia associata al racconto diviene inoltre un oggetto artistico a sé nelle forme della Narrative Art che riprende, anche in questo caso distorcendoli, aspetti effimeri e marginali del nostro quotidiano. Alla maniera delle minuziose osservazioni fenomenologiche già realizzate dai prosatori del Nouveau Roman, l’immagine, come in un album di famiglia, è trattata innanzitutto come traccia memoriale. Anche gli autofotobiotesti e le autovideobiografie, il cui modello implicito è sempre l’album familiare, incrociano originalmente ritrattistica e racconto di sé, offrendosi come nuovi prodotti estetici che rinnovano il rapporto tra arte, introspezione e intimità. Tre case studies, ad esempio, approfondiscono alcune scelte estetiche innovative: la scrittrice Marie Ndiaye, la videoartista Valérie Mréjen e la regista Fiorenza Florentine Menini condividono l’analisi di sé attraverso il proprio e l’altrui sguardo in un caleidoscopio di prospettive in cui vengono proposte nuove riflessioni sull’identità del singolo nella sua relazione, mai pacifica, con l’altro.

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I film The Woodmans (Scott Willis, 2010) e il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000) ripercorrono in modi diversi e complementari la vicenda biografica della fotografa Francesca Woodman, scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, e da allora figura centrale nell’arte visiva contemporanea. I due lavori appaiono costruire una distanza, come una sfasatura tra colei che dice io nelle sue opere, e che però può essere colta solo nel suo essere assente, o meglio, nella metamorfosi del sé nella pratica artistica, e coloro che prendono parola per lei per raccontarla, definirla e forse rinchiuderla in una forma alla quale, però, gli scatti di Francesca sembrano voler sfuggire; ed è su questa discrasia, sorta di corrispondenza perduta tra il racconto del film e le figure delle fotografie, che questo mio intervento lavora.

The film The Woodmans (Scott Willis, 2010) and the experimental documentary of the American director Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), explore in different yet complementary ways the biographical journey of the photographer Francesca Woodman, disappeared by her own will in 1981, at twenty-two, and since then a major protagonist of contemporary visual art. The two films appear to build a distance of sorts, a shift between the woman that says ‘I’ in her works, that can be grabbed in her absenceonly – or, better, in the metamorphosis of the self offered by her artistic practice –, and those who speak for her to recount her story, define her and maybe imprison her in a form to which her pictures seem to be willing to escape from. It is precisely on this dyscrasia, a lost correspondence between the pictures and the images of the films, that my contribution deals with.

 

 

 

1. Pellicole. Fotografie e film

Scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, Francesca Woodman si delinea ormai come figura centrale dell’arte visiva contemporanea, in un caso notevole di celebrità sorta e come esplosa poco tempo dopo – e forse a causa – di quella morte precoce e drammatica. In effetti, a partire dalla prima esposizione postuma nel 1986, negli anni a seguire sono state proposte numerose retrospettive delle sue opere, tra le quali una monografica di più di centoventi scatti al Guggenheim di New York nel 2012; e sono apparsi poi svariati saggi e monografie,[1] fino a fare di Woodman un nome molto noto e ricorrente anche negli ambienti meno specializzati, in una dinamica non lontana da quella che ha dato forma alla leggenda di Vivian Maier in anni ancora più recenti.[2]

Il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), ripercorre la vicenda biografica di Woodman in una dimensione per molti aspetti inusuale, giacché gli scatti dell’artista non sono mostrati ma rievocati in descrizioni affidate a una voce over e performati da modelle che ne replicano le pose, così da costruire una sorta di ritratto in absentia dai toni suggestivi e talvolta inquietanti.[3]

Dal canto suo, il film di Scott Willis The Woodmans, presentato al Festival di Roma nel 2010 e dalla struttura più convenzionale, è dedicato al ricordo della fotografa in una sorta di album di memorie raccolte dai familiari e da chi le è stato vicino, come indica il titolo, in una polifonia di voci e immagini che accosta interviste, fotografie di famiglia, pagine di diario a filmati e immagini prodotti dalla stessa Francesca.[4]

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Nombreux sont les artistes visuels qui – ponctuellement ou de manière récurrente –, choisissent de se filmer eux-mêmes et d’en faire œuvre. Françoise Parfait, dans l’ouvrage paru en 2001 Vidéo : un art contemporain, emploie au sujet de ces œuvres l’expression d’«auto-bio-vidéo-graphies», regroupant sous ce terme les pratiques vidéographiques fondées sur le récit de soi-même et l’autoreprésentation. Les autoportraits filmés par des artistes s’inscrivent à la rencontre de deux héritages : autobiographique et portraitique. Si l’autoportrait relève d’une tradition picturale ancienne, celle-ci est profondément renouvelée et transformée grâce à l’apparition de la vidéo dans les années 1970, la technique ajoutant à l’image son et mouvement, apportant au portrait un récit, et au visage une voix. À partir d’exemples puisés dans l’art contemporain, nous nous attacherons à déterminer la singularité du regard des plasticiennes en termes de processus et de représentations. Si la critique à l’encontre de l’art de l’intime a pu être virulente, des autrices s’accordent sur le fait que certaines œuvres échappent à cet écueil, à la condition qu’elles parviennent à dialectiser l’expérience subjective avec le monde extérieur ; dire « je », mais convoquer la présence de l’autre. Nous retiendrons ici dans cette perspective deux stratégies artistiques : la dissimulation (Élodie Pong) et la mise à nue (Justine Pluvinage). De la réticence au dévoilement à l’affirmation de la révélation, nous interrogerons ainsi la manière dont ces pratiques artistiques proposent des espaces de réflexion sur le moi et sa construction.

Many visual artists – occasionally or recurrently – choose to film themselves and to create their own work. Françoise Parfait, in the book published in 2001 Vidéo: un art contemporain, uses the expression «auto-bio-video-graphs» about these works, grouping under this term the videographic practices based on the narrative of oneself and the self-representation. The self-portraits filmed by the artists are part of a meeting of two legacies: autobiographical and portraiture. If the self-portrait is part of an ancient pictorial tradition, it is deeply renewed and transformed thanks to the appearance of video in the 1970s, the technique that adding sound and movement to the image, giving to the portrait a narrative, and to the face a voice. Using examples drawn from contemporary art, we will attempt to determine the singularity of the visual artist’s gaze in terms of processes and representations. While criticism of the art of the intimate have been virulent, some authors agree that certain works escape this pitfall, on the condition that they manage to dialectise the subjective experience with the outside world; saying ‘I’, but evoking the presence of the other. In this perspective, we will consider two artistic strategies: the concealment (Élodie Pong) and the laid bare (Justine Pluvinage). From reticence to unveiling to the affirmation of revelation, we will thus question the way in which these artistic practices offer spaces for reflection on the self and its construction

 

Nombreux sont les artistes visuels qui – ponctuellement ou de manière récurrente –, choisissent de se filmer eux-mêmes et d’en faire œuvre. Françoise Parfait, dans l’ouvrage paru en 2001 Vidéo : un art contemporain, emploie au sujet de ces œuvres l’expression d’« auto-bio-vidéo-graphies »,[1] regroupant sous ce terme les pratiques vidéographiques fondées sur le récit de soi-meÌ‚me et l’autoreprésentation. Les autoportraits filmés par des artistes s’inscrivent ainsi à la rencontre de deux héritages : portraitique et autobiographique.

 

1. Autoportraits filmés : une tradition portraitique

Ces autoportraits se situent dans la droite lignée d’une tradition du genre du portrait en réinvestissant certains codes picturaux. Ces œuvres se caractérisent par leur focalisation sur une personne, convoquant d’emblée le genre portraitique, définit par Jean-Marie Pontévia comme « un tableau qui s’organise autour d’une figure ».[2]

Cette figure est ici la seule fin de la représentation, les autres enjeux en étant exclus. Ce qui l’entoure est relégué au second plan – sinon éliminé – et subordonné à son élément principal : l’artiste se trouvant seul à l’écran et occupant le cadre de manière centrale. Par conséquent, le décor de ces vidéos est souvent réduit à un fond neutre en arrière-plan, la mise en scène est dépouillée, sinon abstraite. La figure du sujet filmé se découpe sur une forme de non-lieu visuel, un arrière-plan qui le décontextualise et focalise l’attention sur ses attitudes, son corps et son visage. La mise en cadre du portrait est en outre traditionnellement réglée par des conventions qui apparaissent dès l’entrée du genre à l’académie et perdurent dans les images des plasticiens contemporains. Le point de vue choisi est établi dans un rapport de frontalité avec le spectateur à venir ; les sujets filmés sont présentés de face, assis ou debout, le visage tendu vers l’objectif. Le visage est le plus souvent le point nodal des autoportraits filmés. Les sujets sont filmés en plans serrés, parfois cadrés en gros plans qui mettent en valeur leur physionomie.

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L’articolo prende in esame l’inserimento della fotografia nel testo autobiografico contemporaneo francese secondo una prospettiva di genere e diacronica, a partire dagli esordi, rintracciabili nell’opera di Claude Cahun Aveux non avenus (1930), fino al contemporaneo. L’obiettivo è di riconoscere le peculiarità di questa produzione e individuarne i nuclei semantici nell’ambito della letteratura francese al femminile dagli anni Novanta. L’analisi dell’opera delle scrittrici che si sono servite dell’immagine per coniugare memoria coloniale e memoria personale – è il caso di Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous e Colette Fellous – e di quelle la cui prospettiva è più personale, intimista, come Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin e Catherine Cusset ha messo in rilievo la presenza di un’importante costante formale e tematica: il modello dell’album fotografico e del suo layout nel fototesto autobiografico contemporaneo. Tale modello consente alla scrittura di focalizzarsi sul minuscolo e sul quotidiano di vite secondarie che diventano così protagoniste, al centro di un’attenzione e una partecipazione caratteristiche della cultura femminile del care. Abbiamo inoltre scorto nell’interrogazione dell’album famigliare un modello a cui questi testi si ispirano e nella scrittura banale e inespressiva una delle modalità che ne accomuna la poetica, al punto da poter parlare di un’autofotobiografia al femminile nella letteratura francese contemporanea che potremmo definire, coniando un neologismo, ‘autofotoginobiografia’

The article examines the insertion of photography in the contemporary French autobiographical text according to a diachronic perspective on gender, starting from the outset, in the works of Claude Cahun, Aveux non avenus (1930), passing through Roland Barthes and Marguerite Duras, up to the contemporary. The goal is to recognise the peculiarities of this production and identify its semantic core in the context of French feminine literature since the nineties. The analysis of the work of writers who used the image to combine colonial memory and personal memory – as is the case of Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous and Colette Fellous – and of those whose perspective is more personal, intimist, as Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin and Catherine Cusset, highlighted in the contemporary autobiographical photo-text the presence of an important formal and thematic constant: the model of photo album and its layout. This model allows writing to focus on the minuscule and everyday life of secondary people who thus become protagonists, at the centre of attention and participation that characterise the feminine culture of care. We also saw in the interrogation of the family album – a model to which inspired these texts – and in the banal and inexpressive writing, one of the modalities that those poetics have in common, to the point of being able to speak of a feminine ‘self-photo biography’ in contemporary French literature.

 

L’inserimento della fotografia nel testo narrativo è una delle declinazioni di quel visual turn che coinvolgerà progressivamente tutte le scienze umane a partire dagli anni Novanta. Alla base di opere transgeneriche che elaborano nuovi paradigmi dell’archivio e del ricordo, è tra i maggiori vettori d’innovazione formale ed estetica della letteratura contemporanea. Risale al 1892 Bruges-la-morte, romanzo decadente del belga Georges Rodenbach che, per serendipità dell’autore o dell’editore, è considerato il primo fototesto della storia della letteratura francese. Le avventure del protagonista, il misogino Hughes Viane, si stagliano sullo sfondo delle riproduzioni d’archivio di Bruges: grazie all’impaginazione, palazzi e chiese, riflessi nei canali, offrono una declinazione visiva del principio di analogia che governa la trama.[1] In letteratura, il ricorso alla fotografia come oggetto concreto o come metafora – si pensi alle sperimentazioni surrealiste, a quelle dell’école du regard fino alla letteratura degli ultimi anni – ha mutato la definizione di fototesto in dispositivo foto-letterario, quest’ultimo più adatto a sottolineare la reciprocità dell’interazione semiotica tra immagine e scrittura.

La critica letteraria tende spesso, come sottolinea Nachtergael, ad equiparare testo e immagine, di fatto introducendo un gap metodologico che impedisce al lettore di cogliere il significato del dispositivo foto-letterario valutandone il crocevia visivo-testuale.[2]

Il caso dell’autobiografia associata all’immagine è tra i più interessanti in quanto, pur interpellando lo statuto testimoniale della fotografia, il racconto autobiografico spesso trasforma l’immagine in un nodo polisemico che va interrogato nel fitto dialogo con la scrittura:

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Tra le pratiche concettuali degli anni Settanta, la Narrative Art si distingue per l’indagine condotta sulle fratture e sulle ambiguità del rapporto tra fotografia e scrittura. Come afferma Franco Vaccari, «lo spazio mentale della Narrative Art è quello incerto, ma pieno di fermenti, dove non esistono ancora configurazioni stabili, formulazioni esplicite, concetti definiti, ma dove è possibile cogliere questi elementi allo stato nascente. La Narrative Art è una pratica del senso e si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, al calcolo esatto, al ragionamento rigoroso». Partendo da una contestualizzazione storico-critica del fenomeno, il saggio evidenzia il carattere ipertestuale dei rapporti tra scrittura e fotografia proposti dalla Narrative Art e analizza le strategie di narrazione del sé attuate da Christian Boltanski, Jean Le Gac e Didier Bay, rintracciando in esse dinamiche trasformative proprie dei fototesti autobiografici.

Among the conceptual practices of the nineteen seventies, Narrative Art is notable for its investigation into the fractures and ambiguities found in the relationship between photography and writing. As Franco Vaccari states, «the conceptual dimension of Narrative Art is an uncertain one, but highly fertile, where stable configurations, explicit formulations and clearly-defined concepts do not yet exist, but where it is possible to grasp these elements in their germinal state. Narrative Art is a practice of meaning applied to fleeting, mobile, disconcerting and ambiguous realities, which do not lend themselves to precise measurement, exact calculation, or rigorous reasoning». Starting from a historical-critical contextualization of the phenomenon, the essay highlights the hypertextual nature of the relationships between writing and photography seen in Narrative Art and analyses the self-narrative strategies implemented by Christian Boltanski, Jean Le Gac and Didier Bay, exploring the transformative dynamics intrinsic to autobiographical phototexts.

 

Un uomo è sempre un narratore di storie;

vive circondato dalle sue storie e dalle storie altrui,

tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse,

e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse.

Ma bisogna scegliere: o vivere o raccontare.

Jean-Paul Sartre[1]

 

La comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa:

non posso cogliere me stesso al di fuori del tempo

e dunque al di fuori del racconto.

Paul Ricoeur[2]

 

Fotografia e scrittura giocano un ruolo centrale nella stagione della ‘smaterializzazione dell’oggetto artistico’:[3] innumerevoli artisti ricorrono infatti a questi mezzi per condurre operazioni variamente ascritte all’Arte Povera, all’Arte Processuale o alla Body Art ma tutte riferibili, invero, alla più vasta categoria di Arte Concettuale. A dispetto di ogni uso tattico, settario o militante del termine, la concettualità costituisce un denominatore comune a tutte le ricerche tese a rivendicare la priorità dell’idea e del processo sulla forma o a mettere in discussione ogni convenzione semantica. Non si compie infatti azione, processo o verifica senza intenzione, ipotesi o idea, cioè senza presupposti di ordine noetico; e non c’è operazione di questo tipo che non necessiti di supporti informativi, quali appunto fotografia e scrittura, per essere attuata, documentata, descritta e divulgata. Per dare un ordine generale alle molteplici forme assunte dall’Arte Concettuale è allora opportuno concentrarsi sulla funzione attribuita di volta in volta a questi mezzi: ‘analitica’, cioè tesa a verifiche interne e riflessioni tautologiche, o ‘mondana’, ossia volta a una più diretta e immediata presa sulla realtà fisica e sulle dinamiche dell’esistenza.[4]

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