Autobiografie fototestuali al femminile nella letteratura francese contemporanea*

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L’articolo prende in esame l’inserimento della fotografia nel testo autobiografico contemporaneo francese secondo una prospettiva di genere e diacronica, a partire dagli esordi, rintracciabili nell’opera di Claude Cahun Aveux non avenus (1930), fino al contemporaneo. L’obiettivo è di riconoscere le peculiarità di questa produzione e individuarne i nuclei semantici nell’ambito della letteratura francese al femminile dagli anni Novanta. L’analisi dell’opera delle scrittrici che si sono servite dell’immagine per coniugare memoria coloniale e memoria personale – è il caso di Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous e Colette Fellous – e di quelle la cui prospettiva è più personale, intimista, come Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin e Catherine Cusset ha messo in rilievo la presenza di un’importante costante formale e tematica: il modello dell’album fotografico e del suo layout nel fototesto autobiografico contemporaneo. Tale modello consente alla scrittura di focalizzarsi sul minuscolo e sul quotidiano di vite secondarie che diventano così protagoniste, al centro di un’attenzione e una partecipazione caratteristiche della cultura femminile del care. Abbiamo inoltre scorto nell’interrogazione dell’album famigliare un modello a cui questi testi si ispirano e nella scrittura banale e inespressiva una delle modalità che ne accomuna la poetica, al punto da poter parlare di un’autofotobiografia al femminile nella letteratura francese contemporanea che potremmo definire, coniando un neologismo, ‘autofotoginobiografia’

The article examines the insertion of photography in the contemporary French autobiographical text according to a diachronic perspective on gender, starting from the outset, in the works of Claude Cahun, Aveux non avenus (1930), passing through Roland Barthes and Marguerite Duras, up to the contemporary. The goal is to recognise the peculiarities of this production and identify its semantic core in the context of French feminine literature since the nineties. The analysis of the work of writers who used the image to combine colonial memory and personal memory – as is the case of Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous and Colette Fellous – and of those whose perspective is more personal, intimist, as Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin and Catherine Cusset, highlighted in the contemporary autobiographical photo-text the presence of an important formal and thematic constant: the model of photo album and its layout. This model allows writing to focus on the minuscule and everyday life of secondary people who thus become protagonists, at the centre of attention and participation that characterise the feminine culture of care. We also saw in the interrogation of the family album – a model to which inspired these texts – and in the banal and inexpressive writing, one of the modalities that those poetics have in common, to the point of being able to speak of a feminine ‘self-photo biography’ in contemporary French literature.

 

L’inserimento della fotografia nel testo narrativo è una delle declinazioni di quel visual turn che coinvolgerà progressivamente tutte le scienze umane a partire dagli anni Novanta. Alla base di opere transgeneriche che elaborano nuovi paradigmi dell’archivio e del ricordo, è tra i maggiori vettori d’innovazione formale ed estetica della letteratura contemporanea. Risale al 1892 Bruges-la-morte, romanzo decadente del belga Georges Rodenbach che, per serendipità dell’autore o dell’editore, è considerato il primo fototesto della storia della letteratura francese. Le avventure del protagonista, il misogino Hughes Viane, si stagliano sullo sfondo delle riproduzioni d’archivio di Bruges: grazie all’impaginazione, palazzi e chiese, riflessi nei canali, offrono una declinazione visiva del principio di analogia che governa la trama.[1] In letteratura, il ricorso alla fotografia come oggetto concreto o come metafora – si pensi alle sperimentazioni surrealiste, a quelle dell’école du regard fino alla letteratura degli ultimi anni – ha mutato la definizione di fototesto in dispositivo foto-letterario, quest’ultimo più adatto a sottolineare la reciprocità dell’interazione semiotica tra immagine e scrittura.

La critica letteraria tende spesso, come sottolinea Nachtergael, ad equiparare testo e immagine, di fatto introducendo un gap metodologico che impedisce al lettore di cogliere il significato del dispositivo foto-letterario valutandone il crocevia visivo-testuale.[2]

Il caso dell’autobiografia associata all’immagine è tra i più interessanti in quanto, pur interpellando lo statuto testimoniale della fotografia, il racconto autobiografico spesso trasforma l’immagine in un nodo polisemico che va interrogato nel fitto dialogo con la scrittura:

 

La rencontre du texte et de l’image dépasse donc de très loin la simple juxtaposition: elle crée des interactions, mais aussi des interférences, qui font qu’aucun des deux éléments ne peut sortir indemne de la relation photobiographique, dès lors que chacun est tributaire de l’autre dans sa construction du rapport au réel. C’est pourquoi la photographie perd assez vite, dans les textes autobiographiques, sa valeur d’illustration ou de preuve.[3]

 

In campo critico, l’incontro tra studi fotoletterari e studi sull’autofiction ha aperto nuove prospettive:[4] agli inizi degli anni Ottanta, considerando la fotografia come ‘amplificatore dell’esistenza’ e riflettendo sull’autobiografia letteraria, Gilles Mora e Claude Nori hanno definito una nuova forma artistica di auto-scrittura, la ‘fotobiografia’.[5]

La nostra indagine parte dalla constatazione che nonostante l’autofotobiografia sia praticata da numerose artiste e scrittrici francesi del Novecento e contemporanee,[6] non vi sono studi che abbiano recensito globalmente questa produzione da un punto di vista cronologico e secondo una prospettiva di genere. Ci proponiamo qui di individuare, da un lato, gli esordi di questo filone nella storia letteraria, trovandolo nello sperimentalismo creativo degli anni Trenta e, a partire da questa origine, di riconoscerne le peculiarità. Una costante in queste opere è il ricorso al modello dell’album familiare e, finanche in molti casi, alla sua grafica. Vi hanno attinto personalità molto diverse tra loro: Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous e Colette Fellous associano ricerca personale e storia dei paesi d’origine a immagini personali e d’archivio. Per altre, come Annie Duperey, Marie Desplechin, Annie Ernaux, Sylvia Baron Supervielle e Chantal Akerman, la ricomposizione dell’album familiare serve ad affrontare sofferenze, traumi, amnesie e diventa il luogo di una riflessione sulla creazione letteraria e artistica, come appare evidente nell’opera di Anne-Marie Garat. L’album fotografico funziona per queste scrittrici come un potente attivatore della creatività.[7] Abbiamo inoltre preso in considerazione una serie di opere che nasce da una scelta diversa, come quelle di Camille Laurens, Marie Ndiaye, Catherine Cusset, ma pure Annie Ernaux in L’Usage de la photo,[8] che sfruttando il connubio fotografia-scrittura privilegiano un progetto estetico.

Ci siamo poi interrogate sul tipo di foto scelte dalle scrittrici, sui soggetti rappresentati; abbiamo analizzato la grafica del layout, il paratesto (didascalie e commenti) e messo in rilievo lo sguardo. Si tratta di una prima ipotesi che descrive gli esiti di questa corrispondenza a livello formale e tematico per sondarne le origini e individuarne i nuclei semantici peculiari nella loro articolazione sintattica nell’ambito della letteratura francese al femminile dagli anni Novanta.

 

1. Sperimentalismi: moltiplicazioni e trasformismi

Abbiamo identificato l’esordio dell’autofotobiografia femminile negli Aveux non avenus, pubblicati nel 1930, di Claude Cahun, al secolo Lucy Schwob, personaggio straordinario e ambiguo, che conduce la sua ricerca artistica parallelamente a quella del Surrealismo.[9]

La foto forniva ai surrealisti un mezzo sperimentale eccezionale per indagare le frontiere tra realtà e sogno, per trasformare, anche tramite il collage plurimaterico, il quotidiano in un’avventura ora umoristica ora fantastica. Diventa una fonte inesauribile di esplorazione dell’immaginario, degli stati di coscienza, capaci di rinnovare i campi della fantasia, dell’erotismo e della sublimazione del corpo femminile. Il primo autofotobiotesto è stato pubblicato nel 1928 proprio da André Breton con Nadja.[10] Breton vi racconta, mettendosi a nudo, la sua breve e intensa storia d’amore con Nadja, alias di Léona Delcourt, giovane donna sull’orlo della follia che sarà poco dopo rinchiusa in un ospedale psichiatrico dove morirà nel 1941. All’interno di una narrazione abbastanza classica, le fotografie dei luoghi significativi per la storia d’amore, di qualche oggetto e di alcuni schizzi della donna evitano il ricorso alla descrizione. Quest’ultima, nel ‘Manifesto del 1924’ veniva considerata come la peggiore espressione del romanzo realistico e messa al bando per la sua inadeguatezza nell’esprimere la complessità dell’individuo. Le foto riprodotte nel testo, commissionate da Breton a Jacques-André Boiffard, assistente di Man Ray, non erano state da lui ritenute all’altezza del progetto surrealista perché troppo banali. Le immagini, in effetti, svolgono in Nadja un ruolo ancillare e documentario testimoniato dal fatto che sono corredate da didascalie. Come ha ampiamente notato la critica, anche nel caso di Nadja, Breton non sfrutta appieno le potenzialità narrative dell’interazione tra foto e testo.[11] Inoltre, la vicenda narrata, di cui l’autore vuole mettere in luce l’eccezionalità inserendola all’interno di un universo surreale dominato dal caso, è raccontata secondo una prospettiva scontata in cui Nadja incarna il ruolo di donna musa costituendo un ‘pretesto’ per la narrazione.

 

A. Breton, Ritratto con didascalia, «J’envie (c’est une façon de parler) tout homme qui a le temps de préparer quelque chose comme un livre…”», Nadja, 1928, p. 195

 

Il caso di Nadja è un buon esempio per suffragare quanto ha già dimostrato Rosemont secondo cui l’attualità e il futuro potenziale dell’avventura surrealista sono maggiori delle sue realizzazioni storiche.[12] Gli esiti più autenticamente innovativi dell’avventura surrealista sono opera delle artiste che negli anni Trenta si sono avvicinate al movimento per intraprendere un percorso di liberazione sociale e di valorizzazione della loro creatività. Esplorando, infatti, la tematica del ‘femminile’ e sviluppando una ricerca intermediale, Leonor Fini, Leonora Carrington, Dorothea Tanning, Gisèle Prassinos si posizionano in opposizione alle figure convenzionali della ‘bambina-donna’, della ‘musa’ o della ‘collaboratrice’ di poeti, di pittori e fotografi riconosciuti.[13] Di questa schiera di creatrici fa parte Lucy Schwob, i cui esiti in ambito autobiografico sfociano nel 1930, due anni dopo Nadja, nella pubblicazione di Aveux non avenus.[14] Il titolo, Confessioni non avvenute, focalizzato sull’impossibilità di uno svelamento completo dell’io sulla pagina, preannuncia un progetto narrativo che si situa agli antipodi della ‘gabbia di vetro’ in cui Breton, alla ricerca di una verità esistenziale assoluta, si espone, esponendo così anche Nadja. All’interrogativo identitario che apre Nadja, «Qui suis-je?», Lucie/Lucy Schwob alias Claude Cahun, attraverso la parola e la fotografia, risponde con una narrazione che esplora tutti i limiti dei generi – sessuali, grammaticali, letterari, ideologici. In questa produzione centrata sull’autorappresentazione, l’io visuale e testuale tenta di proiettarsi in una dimensione altra. La ricerca è sottesa da una riflessione che sonda le caratteristiche dell’identità femminile tradizionale per metterle in questione e sovvertirle.

 

C. Cahun, Fotomontaggio ‘À septans je cherchais déjà …’, in Aveux non avenus, 1930, pos. 104

 

Organizzato in brevi sequenze scritte, il testo raccoglie frammenti di momenti vissuti, sogni, lettere, brani di diario, prose polemiche, considerazioni introspettive, riflessioni, racconti e poesie. Si tratta di un’impresa autobiografica che vuol rendere conto dello scorrere incoerente della vita di cui fissa alcune schegge. I dieci fotomontaggi che inframezzano il testo sono stati ideati da Claude Cahun in collaborazione con la sua compagna, Suzanne Malherbe alias Marcel Moore e assemblano con fini narrativi soprattutto degli autoritratti dell’autrice. La foto non ha qui valore documentario ma funziona come mise en abyme del testo di cui amplifica la nozione di diffrazione identitaria. Al centro della ricerca di Cahun, che la critica recente ha trasformato in un’icona transgender avant la lettre, vi è l’interrogativo sulla possibilità di nuove modalità esistenziali.[15] In questo senso Cahun ha interpretato con maggior efficacia di Breton lo spirito della rivoluzione surrealista il cui intento era quello di proporre attraverso l’arte un modo radicalmente nuovo di vivere i ruoli individuali e sociali.

La sperimentazione intermediale e autobiografica, iniziata con grande anticipo e all’epoca con poca risonanza da Claude Cahun, sarà ripresa in ambiti diversi da artiste quali Cindy Sherman, Michaela Moscouw, Francesca Woodman e, in Francia, da Sophie Calle.

È infatti la fotografia, più della letteratura, a sfruttare il potenziale sperimentale del fototesto rispetto all’indagine della soggettività, nodo che già Cahun aveva fatto emergere. Nei decenni che seguono sono infatti numerose le artiste attirate dalle possibilità espressive e narrative che offre la foto, non più intesa nella sua valenza mimetica, ma come strumento per rappresentare una visione soggettiva di sé e del mondo. La critica comprende sotto l’etichetta di ‘Nouvelle vision’ queste fotografe che sperimentano tecniche ed inquadrature nuove: primi piani eccessivi, punti di vista insoliti, sfocature, fotomontaggi e altre pratiche sperimentali, viste dall’alto o dal basso, dispositivi autoreferenziali o autoriflessivi (ad esempio specchi, riflessi, ombre) sono tutte modalità che consentono di raccontare il rapporto del soggetto con la realtà in maniera inedita.[16] Nella Parigi dell’epoca, la fotografia non solo offre a queste artiste il modo per raggiungere l’indipendenza economica, ma diventa anche il mezzo per esprimere un nuovo sguardo su sé stesse – abbondano gli autoritratti – e sul mondo moderno sottoposto a un cambiamento frenetico.

La riflessione sull’identità sottesa a questi autoritratti è la loro eredità, più immediatamente percepibile nel percorso creativo di Sophie Calle, esponente dell’‘arte narrativa’. Le sue performances – istallazioni e scritti – sono infatti caratterizzate dalla proliferazione di un’autorappresentazione fotografica in cui il corpo femminile è inteso quale espressione metaforica di intimità e di identità. L’opera di Calle inizia nel 1979 con Les Dormeurs, installazione in cui l’artista fotografa degli sconosciuti da lei invitati a dormire nel suo letto. Grazie al regime autobiografico adottato, le sue narrazioni giocano sull’ambiguità del doppio registro tra verità e finzione.

 

S. Calle, ‘8 heures. Il ne s’imaginepas…’, in Les Dormeurs, 1979

 

Un’altra eredità della creazione fototestuale femminile degli esordi è raccolta da Nicole Gravier, artista francese attiva stabilmente a Milano dal 1971. Nel 1978, nella mostra Mythes et Clichés. Fotoromanzi, vengono esposte sue fotografie a colori in cui interpreta il ruolo delle protagoniste del fotoromanzo, genere narrativo popolare basato sulle foto, accanto a vignette tratte dai rotocalchi originali. Smascherando in tal modo gli stereotipi veicolati da questo racconto paraletterario, Gravier critica la concezione della donna e del suo corpo diffusa nella cultura occidentale.

 

N. Gravier, Mythes et Clichés. Fotoromanzi, 1978

 

In questi decenni l’interrogazione sulla valenza semiotica dell’autofotobiotesto è condotta più sul versante della fotografia, mentre la letteratura, affascinata dal ruolo narrativo dell’immagine, soprattutto cinematografica, ne assorbe tecniche e modalità espressive. Le opere letterarie comprese nell’ambito dell’école du regard hanno l’ambizione di sostituire la soggettività della prospettiva letteraria con l’oggettività dell’obiettivo della macchina fotografica e della cinepresa.

 

2. Fotografia e scrittura negli anni Settanta

Dagli anni Trenta agli anni Sessanta il romanzo, influenzato da fotografia e cinema, sperimenta nuove temporalità e punti di vista inediti, mettendo al bando la ricerca intimista e lo scavo psicologico.

Bisognerà attendere gli anni Settanta, infatti, per vedere riprendere una narrazione autobiografica che ha al suo centro l’interazione tra parola e immagine. Nel 1975 Roland Barthes par Roland Barthes introduce il mitologema dell’album di famiglia letterario;[17] tre anni dopo esce sia un numero speciale del Nouvel Observateur con testi di scrittori, sia Notre antéfixe, testo sperimentale divenuto nel tempo un riferimento ineludibile. Si tratta di una serie di autoscatti eseguiti in luoghi significativi come la camera da letto, un sentiero, uno specchio da Denis e Françoise Roche per celebrare la loro coppia, accompagnati da commenti del poeta.[18]

Scrittura letteraria e fotografia si potenziano nuovamente a vicenda. Ed è stata proprio una scrittrice isolata, al di fuori delle mode letterarie, come Marguerite Yourcenar a sfruttare ancora il potere evocativo dell’immagine nella sua ‘autobiografia’ Le Labyrinthe du monde.[19] L’epistolario rivela l’importanza delle istantanee – una sessantina in tutto – nella composizione dell’opera e l’influenza della riflessione fotografica di Gisèle Freund.[20] Sin dal primo volume della trilogia, Souvenirs Pieux (1974), dopo il racconto della sua nascita, la narratrice decide di ripercorrere a ritroso la storia del ramo materno e paterno. La trilogia si trasforma dunque in una sorta di ricerca archeologica in cui Yourcenar riesuma oggetti, leggende, ricordi di prima e seconda mano per avvicinarsi ai suoi avi che, senza conoscerla, l’hanno involontariamente formata. In particolar modo le fotografie – frammenti del passato attualizzati dalla scrittura attraverso lo sguardo dell’enunciatrice – contribuiscono in maniera efficace a una ricostruzione memoriale originale. Le istantanee, mai riprodotte nel testo, sono descritte come documenti d’archivio e la loro ekphrasis spesso trascolora nella finzione, a fronte di un ricordo personale accessorio e spesso delusivo. Meritano una menzione a parte le tanatografie della madre, tipiche dell’epoca, riprese dalla figlia che, pur rappresentandole in termini di pura denotazione, ne coglie il punctum – una zampetta del bassotto Trier intravista sulla coperta del letto in cui era stata sistemata la defunta – che riporta un’affettività domestica nella scena luttuosa. Anche nei due volumi successivi – Archives du Nord (1977) e Quoi? L’Éternité (1988) – le foto sono dei palinsesti, testimonianze oggettive e occasioni di riflessione, schegge di uno spazio-tempo definito, capaci di intersecare parola narrante e parola commentante.

È sempre negli anni Settanta che, anche sulla spinta del movimento femminista, nel mondo della letteratura francese la riflessione sulla fotografia come strumento di interrogazione dell’identità femminile e del proprio vissuto inizia a sottendere la creazione letteraria. Nel 1977, qualche anno prima del grande successo dell’Amant (1984),[21] Marguerite Duras pubblica un libricino illustrato di fotografie, Les Lieux de Marguerite Duras, in collaborazione con la giornalista Michelle Porte.[22] È la trasposizione di un documentario di due puntate in cui quest’ultima evoca i luoghi dell’artista, le sue case, i boschi circostanti, il mare e le spiagge che appaiono nei suoi romanzi e nei suoi film. Nell’intenzione delle autrici il libro è un autoritratto di Marguerite Duras, ma qui l’iconografia non illustra il testo: le foto sono prive di bordi, riunite in sezioni non cronologiche in cui si giustappongono istantanee familiari a quelle dei set cinematografici e accompagnate da didascalie ‘parlate’, anche composte di passi delle opere dell’autrice. E così le immagini si legano intrinsecamente alla scrittura: «il faut lire les photos, souvent commentées par Marguerite Duras, comme un prolongement du texte».[23]

 

M. Duras, Les Lieux de M. Duras, 1978, p. 53

 

Nel 1984, il grande successo dell’Amant imprime una svolta decisiva non solo nella sua produzione, fino ad allora ristretta alla cerchia dello sperimentalismo dei nouveaux romanciers, ma alla letteratura francese tutta. La matrice autobiografica mai direttamente evocata si manifesta in un’autoreferenzialità rappresentativa che coglie la verità dei fatti in enunciati rapsodici e incantatori. La fotografia è qui protagonista sotto forma di ekphrasis che sanciscono un cambiamento radicale nella relazione della protagonista con il passato. È ancora la storia della sua vita in Indocina, già più volte rappresentata attraverso lo schermo della finzione romanzesca e teatrale.[24] Ma qui l’istantanea appare sin dall’incipit, per giocare sulla distanza tra il presente dell’enunciazione, contraddistinto dal volto dell’autrice segnato dal tempo, e quello adolescenziale del passato, colto nel momento che dà origine alla storia, quando, seducente e vestita come un’adulta, la protagonista incontra il futuro amante cinese durante l’attraversamento del fiume Mekong. Quest’immagine iniziale, seppure inventata sub specie fotografica, reca gli indici visivi della trasposizione linguistica del codice fotografico e inaugura un’era letteraria nuova in cui la fotografia – non solo come image absolue, ricordo immaginifico e posteriore alla contingenza – diviene il palinsesto mnemonico su cui si costruisce l’opera, caratterizzata da uno stile paratattico che procede, come un’immagine, per indici di contiguità.[25]

Il destino fotografico dell’Amant è inscritto sin dalla sua elaborazione: nato per sostituire un album fotografico di immagini dell’autrice e dei suoi film, proposto dal figlio della Duras alle edizioni Minuit, il romanzo poggia sulle descrizioni delle istantanee dei Lieux che fungono da rappresentazioni cataforiche, anticipando i futuri accadimenti. L’Amant si costruisce sotto lo sguardo del lettore come un album di famiglia: coglie momenti del passato, li rende significativi come si cattura un attimo del reale scattandone l’istantanea. Il testo sovverte stile e rappresentazione tradizionali e, scavando nelle crudeltà e nelle crepe emotive di quest’album immaginario, ribalta schemi e saperi dell’universo coloniale e della letteratura francese.

 

3. Un passato che non passa: la memoria coloniale

Attorno agli anni Novanta, nel contesto dell’emanazione delle leggi memoriali,[26] periodo in cui la società francese fa i conti con lo scomodo passato anche coloniale, lo strumento fotoautobiografico diventa mezzo privilegiato per Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous, per indagare le loro vicende personali e familiari sullo sfondo della tragica esperienza dell’occupazione francese. Con ‘Terre et hommes’ (1988), Marie Cardinal partecipa al progetto dell’album Pieds-noirs Algérie 1920-1954 che documenta con testi e fotografie la storia dei francesi rimpatriati dalle colonie al momento delle guerre di Liberazione.[27] Nata ad Algeri da genitori francesi e costretta ad emigrare al momento dell’Indipendenza, la scrittrice racconta in chiave autobiografica l’infanzia in un testo che riproduce sia foto tratte dagli archivi familiari che immagini, di altra provenienza, dei luoghi dove ha vissuto e dei loro abitanti.

Il racconto si arresta al momento della morte del padre e non affronta la guerra fratricida, il cui ricordo è ancora troppo doloroso per l’autrice di Les mots pour le dire (1975).[28]

Risale al 1994 Photos de racines che raccoglie delle conversazioni di Mireille Calle-Gruber con Hélène Cixous, un testo di Jacques Derrida e la narrazione autobiografica ‘Album et légendes’. Alternando fotografie e racconto, la scrittrice, nata nel 1937 nell’Algeria coloniale, interroga le origini ebraiche ricostruendo attraverso le foto di famiglia il suo albero genealogico. Cixous, teorica femminista negli anni Settanta, inaugura con questo volume una scrittura autobiografica che svilupperà successivamente in altre opere in cui ritornerà sull’infanzia algerina. ‘Album et légendes’ si apre con la descrizione di un vecchio album di famiglia rovinato che la scrittrice percepisce come un cimitero in cui ad ogni foto corrisponde una tomba. Vi sono riprodotte trentotto fotografie e immagini tra cui spiccano, accanto ad alcune sue foto, ritratti dei bisnonni, dei nonni e dei genitori. La storia della famiglia e dell’infanzia in Algeria appare agli occhi di Cixous come indissolubilmente legata all’atto della creazione: «Que ce que je raconte ici (oublis et omissions compris) c’est ce qui pour moi n’est pas dissociable de l’écriture. Il y a une continuité entre mes enfances, mes enfants et le monde de l’écriture- oudurécit».[29]

Anche Leïla Sebbar, nata da padre algerino e madre francese, commenta delle foto risalenti al periodo della guerra d’Algeria. In Femmes des Hauts-Plateaux. Algérie 1960 (1990),[30] i testi fungono da didascalia alle foto di Marc Garanger, giovane soldato che aveva catturato sguardi e gesti di donne degli altopiani, regione natale della scrittrice. La quotidianità di quell’universo muliebre si contrappone alle atrocità della guerra allora in corso. Il ricorso alla foto pare aver funzionato come innesco della scrittura autobiografica anche in questo caso: Sebbar pubblica, infatti, tra il 2004 e il 2013 una tetralogia di iconotesti che raccontano la sua appartenenza ibrida (Mes Algéries en France. Carnet de voyages, 2004; Journal de mes Algériesen France, 2005; Voyage en Algériesautour de ma chambre, 2008; Le Pays de ma mère, voyage en Frances, 2013).[31] Le testimonianze iconografiche tratte da album personali e archivi collettivi servono a costruire un tessuto di memoria dove sfumano i confini tra i generi – racconto storico, finzione, notizie giornalistiche, resoconto pubblico e memoria privata. L’individuale si interseca con il collettivo nella ricreazione di una storia plurale filtrata attraverso il prisma dell’immagine.

Anche la trilogia autobiografica Avenue de France (2001), Aujourd’hui (2005), Plein été (2007) di Colette Fellous è un’impresa personale, e insieme collettiva e storica, tesa a far riaffiorare attraverso la foto, soprattutto di luoghi, un passato dimenticato.[32]

 

4. Il contemporaneo: scrittura della ‘filiation’ e album di famiglia

Colette Fellous è l’ideatrice della collana ‘Traits et Portraits’ che testimonia l’interesse dell’editoria per il legame tra autobiografia e documento fotografico. Dal 2004 ad oggi sono apparsi, presso l’editore Mercure de France, autoritratti di poeti, scrittori, cineasti, pittori, attori, fotografi e stilisti che combinano testi scritti con fotografie, dipinti e disegni «qui habitent les livres comme une autre voix en écho, formant presque un récit souterrain».[33] La Fellous è allieva di Roland Barthes, colui che ha inventato l’album di famiglia come dispositivo fotoautobiografico. In Roland Barthes par Roland Barthes (1975) una quarantina di foto – immagini personali, familiari e riproduzione di documenti – accompagnate da didascalie commentate in corsivo in cui l’autore, premesso che «ce que je dirai de chaque image ne sera jamais qu’imaginaire»,[34] esplora il fascino esercitato dalle fotografie: «qui me frappe d’un enchantement, telle Méduse, dans la sidération. [...] Cela a été, disent les photos, et, dès lors, je m’abime dans cette affirmation vide, coupante, je suis dans l’anamnèse, non dans le souvenir, encore moins dans le regret».[35]

 

R. Barthes, ‘La demande d’amour’, in Roland Barthes par Roland Barthes, 1975, p. 7

 

Lo scrittore contemporaneo, erede problematico di Barthes e Duras, «échafaude des récits de filiation, pour exhumer les vestiges d’un héritage en miettes et raccommoder les lambeaux de sa mémoire déchirée».[36] Per risolversi, i personaggi devono riannodare i fili con il loro passato personale, così come l’autore con quello della sua eredità letteraria.[37]

Il tema dell’album, accompagnato dalle sue riproduzioni, contraddistingue Le Voile noir di Anny Duperey pubblicato nel 1992.[38] L’opera racconta la tragedia che ha segnato l’infanzia della scrittrice: la perdita di entrambi i genitori morti asfissiati in un incidente domestico provocato da una perdita di monossido di carbonio nel bagno di casa. A seguito del trauma, la Duperey, allora bambina, era stata colpita da un’amnesia causata anche dal senso di colpa poiché più volte, quella mattina fatidica, i genitori l’avevano chiamata perché li raggiungesse in bagno. Le Voile noir riporta, sotto il titolo, la dicitura «Photographies de Lucien Legras» definito poco dopo «inconnu». La scrittura nasce infatti dalle lastre e dai negativi delle immagini scattate dal padre, Lucien, fotografo professionista, rimaste a lungo conservate come un reliquario intangibile in un mobile, denominato significativamente «sarcophage».[39] Tali foto, sviluppate dall’autrice molti anni dopo, le permetteranno, in assenza di qualsiasi ricordo personale, di far luce sul proprio passato familiare. Sono schegge di un album di famiglia mai esistito, interrotto, e rimandano a uno spazio-tempo puramente archeologico per l’autrice. Il testo è la didascalia delle immagini del padre ed evoca l’emozione suscitata nella figlia dall’apparizione delle figure familiari, dall’affiorare di luoghi e paesaggi nel bagno della camera oscura. Quest’ultima rappresenta infatti una rinascita personale e familiare: il superamento del trauma, con la riappropriazione della memoria da parte della Duperey, avviene attraverso l’atto creativo della scrittura legato alle fotografie di Legras. In tal modo, lo sguardo del padre passa il testimone alla parola della figlia.[40] La grafica del testo lo esemplifica: fotografie senza didascalie introducono la scrittura che trasmette silenzi, assenze, ricordi più recenti. L’ultima immagine, un paesaggio con una strada innevata, allude metaforicamente al percorso di riconoscimento del legame filiale da parte dell’autrice e alla pagina bianca su cui è stata raccontata questa storia.

Due anni dopo, sarà Anne-Marie Garat, scrittrice nota al grande pubblico e da sempre studiosa di fotografia, a riprendere il nodo teorico e affettivo dell’album di famiglia in Photos de famille, Un roman de l’album.[41] Pubblicato nella collana letteraria ‘Fiction &Cie’ – diretta dal fotografo e poeta Denis Roche, cofondatore dei Cahiers de la photographie– riveduto e ampliato nel 2011 – è un testo in bilico tra saggio, autofiction e racconto di sé. Analizza la foto di famiglia e il suo contenitore ideale, l’album, delineandone la storia culturale come pratica femminile e domestica, luogo di memoria analogo al diario e all’autobiografia. Garat teorizza l’album come romanzo di famiglia, la cui costruzione narrativa eroizza vite minuscole alla stregua della letteratura. Con una mise en abyme l’autrice pratica il genere che ha appena definito, commentando istantanee di famiglia e di sconosciuti raccolte nei mercatini, con digressioni autofinzionali ed ekphrasis in absentia.[42] Già la copertina – una foto di sghembo, strappata e ricomposta, con i segni negli angoli della sua appartenenza a un album familiare anonimo e scomparso – dà il tono all’opera. Sin da subito ne è chiaro il layout: la scrittura funge da commento, da didascalia alle immagini riprodotte, copre i silenzi, inventa le vite inghiottite dal tempo.

 

Immagine tratta da un album anonimo e utilizzata da A.-M. Garat per la copertina di Photos de famille, Un roman de famille, 1994

 

Anche Marie Desplechin nell’Album vert (2006) sottolinea come la trasmissione delle foto di famiglia da parte della nonna sia stata vissuta dalla scrittrice come un’eredità da trasmettere, un impegno nei confronti della storia familiare e personale che, ad anni di distanza, ha innescato un racconto memoriale e immaginario.[43]

L’album di famiglia, custode di testimonianze di una storia minore, assemblaggio di immagini di fattura spesso mediocre, è privo di valore artistico e di ogni altro valore se non per un membro del clan famigliare che, solo, è in grado di interpretarlo e narrativizzarlo. Questo oggetto, reso ormai desueto dal digitale, diventa per molte scrittrici contemporanee un serbatoio infinito di storie. La parola – che restituisce corpo e anima a immagini, che rende omaggio a esistenze comuni riportando in vita azioni quotidiane, gioie e sofferenze – funziona come un aspetto del care, di quella cura che è tipicamente femminile. Come nella paziente arte del kintsugi, in queste opere le fratture evidenziate vengono impreziosite con didascalie che si ampliano fino a coincidere con il testo. Ai frammenti (foto isolate, rovinate, prive di margini) così riuniti, viene conferito loro un nuovo valore. Analogamente alla ceramica giapponese che riassembla i cocci di un oggetto con del metallo prezioso – oro, argento – la scrittura conferisce all’album un aspetto nuovo e ancor più pregevole.

Affascinata e incuriosita dal potere delle immagini, Annie Ernaux cerca di sfruttarne le molteplici potenzialità. La fotografia, istantanee tratte dall’album famigliare, è sempre stata, fin dall’esordio narrativo, strumento privilegiato nella narrazioneper interrogare il passato e cercarne le tracce nel presente. L’ekphrasis materializza il ricordo, è la prova della sua verità e, allo stesso tempo, prende il posto di una memoria che non si ha più o che è stata cancellata. Il duplice carattere della foto, supporto materiale e simulacro di un passato immateriale, permette all’autrice di penetrare nello spazio irreale che si apre virtualmente dietro la sua superficie, raggiungendo così un altro tempo e un altro luogo. Con L’autre fille (2011), richiestole dall’editrice per la collana ‘Les affranchis’ delle edizioni Nil,[44] Annie Ernaux decide di indirizzare alla sorellina morta a sei anni e mai conosciuta una lettera che le permetta di liberarsi di un passato doloroso. Sulla figura di Ginette, l’altra figlia, è sempre aleggiato in famiglia un silenzio carico di dolore. All’interno del volume sono inserite due foto in bianco e nero, senza didascalia, delle case abitate in tempi diverse dalle due bambine, Ginette e Annie. Di qualità mediocre, mal inquadrate, senza scopo artistico, queste istantanee sembrano tratte da un album di famiglia. A prima vista, sono immagini mute e deludenti, poiché inespressive. Vengono riprodotte in quanto luoghi in cui sono impressi sia l’impronta spettrale della bambina scomparsa che il dolore dei genitori; soltanto attraverso la penna della scrittrice esse riescono ad evocare la sofferenza e il lutto senza rappresentarle.[45]

L’esposizione di qualsiasi altra immagine della famiglia, immagini che ben figurerebbero in un iconostesto autobiografico, come i ritratti di Ginette e dei genitori, è inaccettabile per la scrittrice, poiché appartengono a una storia personale e possiedono una carica emotiva che vuole evitare. Questo spiegherebbe la scelta di non includere nel testo la foto della tomba di Ginette, presente nel dossier del Fondo Ernaux depositato alla Bibliothèque Nationale, ma assente dal testo. Le due foto inserite nel testo, come grigie, banali, anodine, potrebbero quindi essere definite ‘piatte’, e rispondere così alla poetica e allo stile adottati da Annie Ernaux. Inoltre, nella loro cancellazione e nel loro enigmatico silenzio, nella loro assenza dell’essere, esse forniscono il palcoscenico su cui la scrittura può prendere avvio.

Nello stesso anno la Ernaux pubblica Écrire la vie (2011).[46] Si tratta di un ‘fotogiornale’ rispondente ai dettami della collana ‘Quarto’ di Gallimard che pubblica biografie di autori contemporanei corredate da loro immagini. L’autrice decide riprodurvi estratti del suo diario in diverse epoche della sua vita e foto di persone e luoghi per lei importanti. Paesaggi e volti di tutte le epoche, già incontrati dal lettore dell’opera ernausiana nei romanzi, sfilano come in un album di famiglia in cui le didascalie, dando informazioni fattuali, forniscono la chiave di lettura. Riproducendo alcune delle foto descritte in lavori precedenti, il fotogiornale di Écrire la vie disvela un sistema di riferimenti intertestuali e intersemantici tra testo e immagine che attraversa l’intera opera.

Vi figura la foto della casa di Lillebonne pubblicata in L’autre fille,[47] ma qui accompagnata da una didascalia e dall’anno in cui è stata scattata, 1990.[48] Più avanti è riprodotta una foto della facciata del Caffè-negozio di alimentari dei genitori.[49] Alla finestra del primo piano Annie adolescente è tra due cugine.[50]

Vi sono anche due foto di Ginette, una delle quali, quella della comunione a Le Havre, è a lungo descritta in L’autre fille.[51]

Riferendosi all’ipotesi di riprodurre in L’autre fille le foto della sorella, Annie Ernaux osserva: «L’hypothèse même d’exposer l’une d’elle me glace, comme un sacrilège».[52] È che questi testi, pur inserendosi nello stesso spazio autobiografico e riproducendo foto personali dell’autore, non appartengono allo stesso genere. L’autre fille è un’opera letteraria, mentre il fotogiornale di Écrire la vie è una sorta di album biografico che l’autrice ricostruisce come un puzzle, in un momento posteriore. È quindi portatore di una verità diversa dai testi letterari, come spiega Annie Ernaux: «Il faut, je crois, le considérer comme un autre texte, troué, sans clôture, porteur d’une autre vérité que ceux qui suivent».[53] L’ordine qui è quello impresso dalla vita stessa, mentre L’autre fille obbedendo a un progetto letterario, persegue una verità universale.

Se anche le tre foto riprodotte in Lettres à des photographies (2013) di Silvia Baron Supervielle[54] sono tratte da un album di famiglia, la loro qualità e il loro soggetto sono molto diversi rispetto alle istantanee di L’autre fille. Si tratta dell’opera di un fotografo professionista e quindi sono formalmente perfette: due ritraggono la madre e sono poste all’inizio e alla fine del volume; la terza, al centro rappresenta un gruppo famigliare in vacanza in un ambiente campestre.

Silvia Baron Supervielle è una di quelle autrici transnazionali che hanno lasciato il loro Paese. È nata in Argentina nel 1934, ma ha deciso nel 1961 di partire per la Francia, paese che non ha mai lasciato e la cui tradizione l’ha fortemente influenzata. Il testo è formato da centosessanta frammenti, le lettere alla madre, Inès, morta di parto quando la scrittrice era ancora bambina. I due ritratti della madre giovane e sorridente le forniscono l’occasione per riportarne alla luce la personalità, ricostruendo parallelamente la storia dei suoi avi e della sua famiglia. Le successive nozze del padre e il trasloco in una nuova casa avevano cancellato la memoria della madre, aggiungendo alla sofferenza per la perdita fisica quella del silenzio che avvolge il ricordo di Inès. I frammenti costituiti da ekphrasis, ricordi, biografie di antenati, evocazioni di testi e autori letterari, riflessioni esistenziali, dialoghi con la madre scomparsa ruotano attorno alla fotografia centrale[55] che rappresenta la famiglia dell’autrice quando era ancora formata dai due genitori con le figlie piccole. La morte di Inès è coincisa con la deflagrazione del mondo dell’infanzia per la piccola Silvia e costituisce ancora una ferita esistenziale troppo vivida che la porta ad interrogare incessantemente quelle immagini.

Ancora all’album di famiglia attinge la regista e scrittrice Chantal Akerman in Ma mère rit (2013).[56] Gran parte della sua produzione autobiografica è legata alla figura della madre, un’ebrea polacca emigrata in Belgio, sopravvissuta ai campi di concentramento, che diventa soggetto di un’opera ‘diffusa’ – letteraria, fotografica, artistica e filmica – in cui ogni singolo prodotto è caratterizzato da un’originale intermedialità.[57] Poiché la nebulosa autobiografica della Akerman è vasta, abbiamo scelto di focalizzare la nostra attenzione su tre opere.[58] Tutto ha inizio nel 1976 con News from Home,[59] documentario sperimentale: sotto gli occhi dello spettatore scorrono sequenze della New York di quegli anni, in profonda crisi. Sono ripresi quartieri anonimi, stazioni della metropolitana, strade fantasma, in cui si caricano e scaricano merci, e passanti colti nella loro misera routine quotidiana. La voce fuori campo inespressiva e monotona della regista legge le lettere scritte dalla madre in occasione del trasferimento della figlia nella metropoli americana. Una meditazione banale e struggente, sociale e personale che associa l’alienazione urbana all’alea di una relazione familiare disfunzionale.

La Akerman pubblica Ma mère rit nella già citata collana diretta della Fellous: è un testo autobiografico con trenta fotografie, alcune tratte dall’album familiare e personale dell’artista, altre, la maggior parte peraltro, fotogrammi di film, documentari, installazioni video dell’artista. Accanto a poche immagini affettive (due ombre vicine proiettate sulla strada, la regista bambina che gioca con la sorella, madre e figlia abbracciate sulla spiaggia con i volti sorridenti), vi sono gli scatti che dettagliano geometrie urbane, silhouettes allungate, immagini sfuocate di masse anonime in attesa qualcosa, accanto a istantanee del cielo scattate dalla finestra dell’appartamento della regista. Tutto contribuisce ad accordare la narrazione del declino fisico della madre con quella del disagio psichico della figlia. In tal senso Ma mère rit è un vero e proprio laboratorio della creazione letteraria, in cui la Akerman diventa a poco a poco soggetto della scrittura e definisce la propria ricerca di identità attraverso la relazione con la madre.

 

Ch. Akerman, ‘Ma mère et moi’, in Ma mère rit, 2013, pos. 178

 

Le loro due voci si sovrappongono in una vertigine pronominale che, insieme con il discorso indiretto libero, rendono indissociabile la madre dalla figlia, talvolta riunite in una diade soggettivante, talaltra distanziate dalla cinepresa. Scriversi e insieme vedersi morire è il paradigma della creazione autobiografica della Ackerman, avviluppata in una vera e propria motherland emotiva e artistica. Ma mère rit sembra fungere da ipotesto all’ultima produzione della regista, il film No Home Movie,[60] quasi interamente girato nell’appartamento materno a Bruxelles. Piani fissi compongono un insieme molto fotografico, che riprende le vicende del libro: la decadenza della madre intimamente legata ai disturbi della figlia, che si definisce un «vieil enfant» mai cresciuto, che ha passato la vita a fuggire da casa e a farvi sempre ritorno dopo aver costruito lontano il suo lavoro di artista. Quest’ultimo appare come l’elaborazione del gioco del fort-da.[61] No Home Movie uscirà nel 2015, anno in cui la regista si toglierà la vita.

 

5. Fotografia e creazione, la scrittura come care

Questa ultima parte è dedicata all’opera di scrittrici, Camille Laurens, Marie Ndiaye, Annie Ernaux con L’Usage de la photo e Catherine Cusset che, scegliendo di non riprodurre all’interno dei loro testi autofotobiografici ritratti o foto provenienti dall’universo famigliare, hanno sviluppato una riflessione originale sull’utilizzo dell’immagine in regime autobiografico. Si tratta, infatti, di un’operazione che si inscrive sotto il segno della sottrazione deliberata della foto nel suo valore indiziale e testimoniale e che rivendica il diritto di trasformare la realtà attraverso il gesto artistico.

È il caso di Camille Laurens in Cet absent-là, pubblicato nel 2004,[62] in collaborazione con il fotografo Rémi Vinet, che riprende l’autofiction iniziata con Philippe (1995)[63] dove raccontava la morte del figlio neonato. La scrittura, ordinata in paragrafi, insiste su quella scomparsa e sul vuoto lasciato dall’uomo amato che la abbandona, ed è corredata da venti ritratti sfuocati, opachi e incerti, provenienti dal progetto ‘Figures’ di Vinet.

 

C. Laurens,Cet absent-là, 2004, p. 62

 

Queste fotografie in bianco e nero vogliono evocare, al di là del loro aspetto innocuo e nella loro serialità, l’esistenza effimera di un essere umano neutro e senza nome che non c’è più. Le immagini, spesso sfocate, fuori centro o scure al punto di non permettere di percepire i tratti facciali, assumono la configurazione di anti-ritratti. Dove il ritratto, dai busti greco-romani, mirava a una riproduzione espressiva di aspetti salienti del carattere di un individuo, nelle foto di Vinet i contorni scompaiono, cancellati dalla sovraesposizione o dalla sottoesposizione. Il volto perde così la sua singolarità per presentarsi come il simulacro dell’esistenza di un essere assente, indipendentemente dal fatto che sia altrove o morto. Queste istantanee evocano un passaggio e testimoniano un’assenza di personaggi universali che colpisce lo spettatore e spiega il titolo del libro.

Due diversi ‘usi’ della fotografia caratterizzano l’opera di Marie Ndiaye. Enigmatiche e fuorvianti sono le immagini che l’autrice inserisce in Autoportrait en vert (2005),[64] eludendo volutamente il tema autobiografico anche nel testo. Diversa l’interrogazione sulla fotografia in Y penser sans cesse (2011),[65] tassello di un progetto multimediale più vasto. Apparizioni di colori ostili sullo sfondo dell’esondazione della Garonna nel primo e di fantasmi storici nei luoghi più familiari – l’appartamento di Berlino dove la Ndiaye si è trasferita col figlio – confermano un realismo magico che si nutre delle difficoltà dei suoi personaggi di adattarsi alle regole del mondo. Autoportrait en vert si compone di racconti, lettere, fotografie autobiograficamente centrifughe, pronunciato da un’istanza enunciatrice opaca, senza alcun riferimento cronologico. Anche le fotografie non sono di aiuto per la loro indeterminatezza: diciassette immagini di cui alcune dell’artista Julie Gazin e altre, tratte da un album di famiglia anonimo dell’inizio del Novecento, quindi temporalmente sfasato rispetto alla biografia della Ndiaye.[66] Non vi è nemmeno corrispondenza con le ekphrasis menzionate nel testo, che risalgono agli inizi degli anni Duemila. L’impossibile risonanza autobiografica sempre in cortocircuito è sottolineata dall’immagine iniziale e finale: in entrambe figura una donna ripresa di schiena.

Nel progetto Y penser sans cesse, pur nell’assenza di nesso logico tra testo e fotografie, la scrittura evoca l’immagine nel suo svolgersi: sono riprodotti alcuni fotogrammi del video, girato da D. Cointe, dal finestrino di un treno che attraversa Berlino. Si scorgono i contorni dei volti dei passeggeri sullo sfondo di binari, paesaggi urbani vecchi e nuovi, aree verdi. Le stazioni attraversate dalla ferrovia rimandano a un altro tempo, quello della Seconda guerra mondiale, e alla deportazione degli ebrei. La scrittrice e il figlio, infatti, scoprono che nel loro appartamento di Berlino ha vissuto un bambino ebreo poi deportato. Mentre le madri ai giardinetti osservano serene il giuoco dei figli, ignare della Storia recente di cui non hanno elaborato il lutto, madre-scrittrice e figlio, le cui radici identitarie affondano nell’altrove, si fanno carico del bimbo scomparso e ne trasmettono la testimonianza. Le fotografie di D. Cointe rimandano al progetto multimediale di cui il libro è solo una delle traslazioni inter artes. Altre forme artistiche tra cui la performance personale dell’autrice – con un’interazione tra la componente visiva (video), musicale e testuale – la traduzione in tedesco e la digitalizzazione narrano la stessa storia e ne condividono il tema autobiografico e l’interrogazione sull’identità, una costante nella produzione dell’autrice. Sono le domande del figlio a offrire lo spunto ad una narrazionein cui sono collegati, nel segno del colore verde, testo e immagini, colori e parole, indagine personale e familiare, urbana e storica.

 

Un fotogramma di M. Ndiaye, Y penser sans cesse, 2011

 

È ancora Annie Ernaux con L’Usage de la photo (2005) a produrre uno degli esiti più interessanti di questo filone letterario. Il suo primo autofotobiotesto testimonia, infatti, di un percorso di creazione che è frutto di una lunga riflessione sul valore di un testo che scaturisce dall’intreccio fra parola e immagine. In questo testo appaiono quattordici fotografie scattate dalla scrittrice e da Marc Marie, suo compagno di allora e coautore del volume. Si tratta di immagini degli abiti dei due amanti, gettati a terra prima di fare sesso e fotografati in diverse stanze della casa della Ernaux a Cergy.

Le foto sono pre-testi che i due scrittori ‘usano’ per comporre una sorta di romanzo epistolare; il titolo è una mise en abyme del processo di composizione che sta alla base della scrittura. La critica ha evidenziato soprattutto l’assenza del corpo, che queste foto accentuano riproducendo solo abiti, e ha messo in relazione questa iconografia con l’evocazione della morte legata al cancro che aveva allora colpito la protagonista. Ci pare utile, tuttavia, sottolineare come si racconti anche la storia di una rinascita resa possibile grazie alla presenza dell’uomo amato: rinascita fisica dopo la malattia e rinascita alla creazione letteraria tramite le foto.[67] Il tema della nascita è, del resto, presente in due punti chiave del testo, all’inizio dove la descrizione del progetto fotografico è seguita dall’ekphrasis in absentia di un’altra foto e nella pagina finale. La foto del sesso eretto dell’amante fotografato da Annie Ernaux all’inizio della loro relazione è descritta senza essere riprodotta («Je peux la décrire. Je ne peux pas l’exposer aux regards»),[68] a differenza delle altre. Ernaux paragona questa foto mancante al famoso dipinto di Courbet, L’origine del mondo, di cui costituirebbe il pendant: l’origine del mondo, ovviamente, in quanto il sesso, come in Courbet, è strettamente connesso con la creazione. La foto mancante è testimonianza della nascita di una storia d’amore, ma anche dell’inizio di un sodalizio creativo che produrrà le altre immagini riprodotte, quelle, nel testo. Questo tema è ripreso alla fine del volume, dopo l’operazione al seno salvifica, quando la scrittrice, a letto, con la testa dell’amante tra le cosce, ha la sensazione di metterlo al mondo: «J’étais accroupie sur M., sa tête entre mes cuisses, comme s’il sortait de mon ventre. J’ai pensé à ce moment-là qu’il aurait fallu une photo. J’avais le titre, Naissance».[69] Annie Ernaux pone qui in rilievo come l’amore, la creazione e la fotografia intrattengano tra loro una relazione privilegiata. Il ventre femminile può allora essere avvicinato ad una camera oscura, matrice di storie future.

La procreazione, la creazione letteraria e la fotografia sono temi intimamente connessi in New York, journal d’un cycle, ancora un titolo della collana ‘Traits et portraits’.[70] Catherine Cusset, già nota per le sue autofictions, attraverso una sorta di cronaca newyorkese delle sue passeggiate a due ruote, racconta la frustrazione di non riuscire a restare incinta. Il ‘ciclo’ del titolo si riferisce al mezzo di locomozione, al tempo del matrimonio nella Grande Mela ma, soprattutto, al ‘ciclo’ come periodo di ovulazione. Le foto di biciclette contorte dopo incidenti o deturpate in seguito a tentativi di furto, scattate dall’autrice nelle sue passeggiate, rinviano per analogia a un ciclo femminile disfunzionale perché non perviene alla procreazione.

Anne-Marie Garat aveva già messo in relazione l’affinità che esiste tra il buio fotografico e l’oscurità uterina, spazio dove il possibile è in nuce: «l’analogie avec l’étrangeté organique de l’engendrement, comme avec celle de l’écriture, qui font de la chambre noire un ventre de mémoire obscure où s’écrit notre histoire».[71]

Come abbiamo visto, le scrittrici francesi hanno dato vita ad un vero e proprio filone costituito da autofotobiotesti in cui sperimentano gli esiti dell’‘uso’ della foto. Si tratta di una produzione che è tuttora vitale, come testimonia il numero di testi pubblicati in ‘Traits et portraits’ a cui Chantal Thomas ha affidato De sable et de neige (2021), ma anche la creazione nel 2019 di ‘Diaporama’, collana dell’Imec (Institut mémoires de l’édition contemporaine) che accoglie autoritratti «en écriture et en images» con la volontà di spingere gli scrittori contemporanei a «se raconter et parler de littérature autrement».

Le scrittrici che abbiamo presentato hanno colto l’alterità costituita dalla foto nel momento in cui viene innestata nel testo; di questo incontro hanno declinato le potenzialità, ognuna secondo una sensibilità e con esiti narrativi differenti. All’interno di questo panorama variegato, si colgono, tuttavia, due fili rossi che talvolta scorrono paralleli, talvolta si annodano: da un lato il modello dell’album viene utilizzato per raccontare, attraverso la storia dei famigliari, la propria personale e insieme quella collettiva. Abbiamo sottolineato come la foto di personaggi minori, costituisca il ‘pretesto’ che consente di ridar loro una dignità destinata altrimenti ad essere inghiottita nel silenzio della morte. Nei testi analizzati, la scrittura si focalizza sul minuscolo, sul quotidiano, sul dettaglio di queste vite secondarie che diventano così protagoniste. Si riscontra in questo approccio alla foto dell’album famigliare una cura, un’attenzione e una partecipazione caratteristiche della cultura femminile del care. È qui la stessa scrittura, nell’evocare gli esseri scomparsi, a sostituirsi a quei gesti domestici e quotidiani di cura con cui si circondano nella cerchia famigliare le persone care più fragili. Questa postura narrativa influenza anche lo stile che si presenta come dimesso, quotidiano, ‘piatto’, privo di enfasi, ma proprio per questo efficace nel trasmettere il pathos soggiacente.

Un secondo gruppo di opere affronta la narrazione autobiografica inserendo foto che non fanno parte dell’universo personale o famigliare. Le immagini di vestiti dismessi, di volti sfocati di sconosciuti, di donne misteriose permettono alle scrittrici di interrogare, in una dimensione in cui l’autobiografico si interseca con il collettivo, la fotografia nel suo duplice valore di presenza e assenza. Le immagini, volutamente non testimoniali e irrelate alla sfera famigliare, sono utilizzate da una prospettiva autobiografica come cassa di risonanza di interrogativi universali sulla vita, sull’amore e sulla morte. La foto, di cui viene sottolineata l’analogia con il processo della nascita, sembra in questo caso essere percepita dalle scrittrici come camera oscura per la creazione artistica.

Questa ricognizione, per quanto non esaustiva, ci ha permesso di tracciare i contorni di un fenomeno letterario, non sempre riconosciuto nella sua specificità, che attraversa la letteratura francese contemporanea: numerose sono, infatti, le artiste e le autrici che,affascinate e attratte dal potere semiotico e memoriale delle immagini, le fanno dialogare col testo inserendole nelle loro opere autobiografiche. Abbiamo scorto nell’interrogazione dell’album famigliare un modello a cui questi testi si ispirano e nella scrittura banale e inespressiva, una delle modalità che ne accomuna la poetica. Abbiamo identificato anche una seconda modalità di approccio nella quale la foto non è convocata nel suo valore testimoniale, ma in quanto frutto di un processo percepito come analogo a quello della creazione letteraria e della creazione tout court. Sono queste le caratteristiche che, dopo una rapida rassegna delle opere, ci consentono di parlare di un’autofotobiografia al femminile nella letteratura francese contemporanea, che potremmo definire, coniando un neologismo, ‘autofotoginobiografia’.

 

* Quest’articolo è stato concepito congiuntamente dalle due autrici, ma per la stesura materiale del testo Alessandra Ferraro ha scritto il I, II e V paragrafo e Valeria Sperti ha scritto l’Introduzione, il III e il IV paragrafo.


1 G. Rodenbach, Bruges-la-morte, Paris, Marpon & Flammarion, 1892.

2 M. Nachtergael, ‘Photographie et machineries fictionnelles. Les mythologies de Roland Barthes, Sophie Calle et Hervé Guibert’, Épistémocritique, VI, Hiver 2010 <https://epistemocritique.org/photographie-et-machineries-fictionnelles/> [accessed 30 January 2021].

3 V. Montémont, ‘Le pacte autobiographique et la photographie’, Le Français aujourd’hui, 161, 2008/2, pp. 43-50: p. 49.

4 La bibliografia critica sul fototesto è cospicua e in piena espansione: per ragione di spazio saranno riportati solo i riferimenti alle opere citate.

5 G. Mora, C. Nori, L’été dernier. Manifeste photobiographique, Parigi, Éditions de L’Étoile, 1983, pp. 10-15; G. Mora, ‘Photobiographies’, RITM, 20, 1999, pp. 183-189.

6 Cfr. S. A. Jordan, ‘Chronicles of Intimacy: Photography in Autobiographical Projects’, in N. Edwards, A. L. Hubbell, A. Miller (eds.), Textual and Visual Selves: Photography, Film, and Comic Art in French Autobiography, Lincoln, University of Nebraska Press, 2011, pp. 51-77; A. Ferraro, ‘Autofiction féminine et photographie dans le roman sentimental de l’extrême contemporain’, in H. Meter, F. Bercegol (a cura di), Métamorphoses du roman sentimental XIXe-XXe siècle, Paris, Classiques Garnier, 2015, pp. 249-260. Cfr. anche S. A. Jordan, ‘État présent: Autofiction in the Feminine’, French Studies, 67, 2013, pp. 76-84.

7 Sull’album come fonte di creazione letteraria legata alla trasmissione generazionale, cfr. V. Montémont, ‘L’épreuve de l’épreuve’, in C. Andriot-Saillant (a cura di), Paroles, Langues et silences en héritage, Clermont-Ferrand, PU Pascal, Collection Littératures, 2009, pp. 373- 384.

8 A. Ernaux, M. Marie, L’Usage de la photo, Paris, Gallimard, 2005.

9 C. Cahun, Aveux non avenus [1930], Paris, 1001 Nuits, 2011.

10 A. Breton, Nadja [1928], Paris, Gallimard (Folio), 2013.

11 Cfr. J. Arrouye, ‘La photographie dans Nadja’, Mélusine, IV, 1982 (Le livre surréaliste), pp. 123-150.

12 Cfr. P. Rosemont, Surrealist Women: an International Anthology, Austin, University of Texas Press, 1998.

13 Cfr. W. Chadwick (a cura di), Mirror Images: Women, Surrealism, and Self-Representation, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1998.

14 C. Cahun, Aveux non avenus, Paris, Mille et une nuits, 2011.

15 Cfr. A. Oberhuber (a cura di), Claude Cahun: contexte, posture, filiation. Pour une esthétique de l’entre-deux, Montréal, Université de Montréal (Paragraphes, 27), 2007.

16 Cfr. Ch. Bouqueret, Les femmes photographes: de la nouvelle vision en France, 1920-1940, Musée Nicéphore Niépce, Paris, Marval, 1998.

17 R. Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, Paris, Seuil, (écrivains de toujours), 1975.

18 Nouvel Observateur, Spécial Photo, 3, 1978; D. Roche, Notre antéfixe, Paris, Flammarion, 1992.

19 M. Yourcenar, Le Labyrinthe du monde, t. 1, Souvenirs Pieux [1974]; t. 2 Archives du Nord [1977]; t. 3 Quoi? L’Éternité [1988], Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 1991.

20 Cfr. V. Sperti, Écriture et Mémoire, Napoli, Liguori, 1999, p. 114.

21 M. Duras, L’Amant, Paris, Minuit, 1984.

22 M. Duras, M. Porte, Les Lieux de Marguerite Duras, Paris, Minuit, 1977.

24 Cfr. M. Duras, Un Barrage contre le Pacifique, Paris, Gallimard, 1950 e Id., L’Éden cinéma, Paris, Mercure de France, 1977.

25 Cfr. V. Sperti, Fotografia e romanzo, Napoli, Liguori, 2005, pp. 42-64.

26 Con questo termine si designano leggi che offrono un punto di vista ufficiale su determinati eventi storici; tra il 1990 e il 2005 ne sono state emanate quattro che riguardano la creazione del reato di negazione del genocidio degli ebrei (1990); l’istituzione della commemorazione annuale del genocidio armeno (2001); il riconoscimento della tratta negriera e della schiavitù come crimine contro l’umanità (2001); il riconoscimento del contributo al Paese dei rimpatriati francesi (2005). Nel 1989 l’Assemblée Nationale aveva adottato una proposta di legge in cui si riconosceva la guerra d’Algeria.

27 M. Cardinal, Les Pieds-noirs, Algérie 1920-1954, Paris, Belfond, 1988.

28 M. Cardinal, Les Mots pour le dire, Paris, Grasset, 1975.

29 M. Galle-Gruber, H. Cixous, Photos de racines Paris, des Femmes, 1997, pp. 203-204.

30 M. Garanger, L. Sebbar, Femmes des Hauts-Plateaux. Algérie 1960, Paris, La Boîte à documents, 1990.

31 L. Sebbar, Mes Algéries en France. Carnet de voyages, Saint-Pourçain-sur-Sioule, Bleu autour, 2004; Id., Journal de mes Algéries en France, Saint-Pourçain-sur-Sioule, Bleu autour, 2005; Id., Voyage en Algéries autour de ma chambre, Saint-Pourçain-sur-Sioule, Bleu autour, 2008; Id., Le Pays de ma mère, voyage en Frances, Saint-Pourçain-sur-Sioule, Bleu autour, 2013.

32 C. Fellous, Avenue de France, Paris, Gallimard, 2001; Ead., Aujourd’hui, Paris, Gallimard, 2005; Ead., Plein été, Paris, Gallimard, 2007.

33 Cfr. il sito della collana: <https://www.mercuredefrance.fr/Catalogue/traits-et-portraits> [accessed 29 January 2020] e l’articolo di B. Ferrato-Combe, ‘Entretien avec Colette Fellous au sujet de la collection Traits et Portraits’, Recherches & Travaux, 75, 2009, pp. 57-66.

34 R. Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, p. 3.

35 R. Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, ‘Légendes/Images avant le texte’, inédit, BNF.

36 L. Demanze, Récits de filiation in Encres orphelines, Paris, Corti, 2008 <https://www.fabula.org/atelier.php?R%26eacute%3Bcits_de_filiation> [accessed 29 January 2020].

37 Cfr. D.Viart, ‘Filiations littéraires’, Écritures contemporaines n 2, Paris-Caen, Minard-Lettres modernes, 1999, p. 124.

38 A. Duperey, Le Voile noir, Paris, Seuil, 1992.

39 Ivi, p. 14.

40 Cfr. N. Amatulli, Scatti di memoria, Pesaro, Metauro, 2020, pp. 87-117.

41 A.-M. Garat, Photos de familles. Un roman de l’album [1994], Arles, Actes Sud, 2011.

42 D. Kunz Westerhoff, ‘La photographie au révélateur littéraire: de Denis Roche à Anne-Marie Garat’, Études de Lettres, 3-4, 2013, Narrations visuelles, visions narratives <https://journals.openedition.org/edl/582> [accessed 29 January 2020].

43 M. Desplechin, L’Album vert, Paris, Nicolas Chaudun, 2006.

44 A. Ernaux, L’autre fille, Paris, Nil, Les Affranchis, 2011.

45 Cfr. M. Bacholle-Bošković, ‘ph-auto•bio•graphie: Écrire la Vie par des photos (Annie Ernaux)’, Women in French Studies, v. 21, n. 1, 2013, pp. 79-93.

46 A. Ernaux, Écrire la vie, Paris, Gallimard, Quarto, 2011.

47 A. Ernaux, L’autre fille, p. 73.

48 A. Ernaux, Écrire la vie, p. 23.

49 A. Ernaux, L’autre fille, p. 17.

50 A. Ernaux, Écrire la vie, p. 24.

51 A. Ernaux, L’autre fille, pp. 66-68; Ead., Écrire la vie, p. 16.

52 A. Ernaux, L’autre fille, p. 53.

53 A. Ernaux, Écrire la vie, p. 9.

54 S. Baron Supervielle, Lettres à des photographies, Paris, Gllimard, 2013.

55 Ivi, p. 82.

56 Ch. Akerman, Ma mère rit, Paris, Mercure de France (Traits et portraits), 2013.

57 Cfr. M. Lambert, I don’t belong anywhere: the cinema of Chantal Akerman, 2015, documentario che percorre i luoghi delle peregrinazioni dell’artista: Parigi, Tel Aviv, New York e Bruxelles e Chantal Akerman par Chantal Akerman, France, 1997, 63 min.

58 7 fotogrammi dell’installazione Maniac Shadows (2012) sono ripresi in Ma mère rit (installazione originale 96 foto per 13 min. 35 in loop, con musica, colore e proiezioni multiple). Ma mère rit prélude (2012, 27 min. <https://soundcloud.com/mariangoodmangallery/chantal-akerman-my-mother-laughs-prelude> [accessed 29 January 2020]), in cui la Akerman legge un estratto del suo libro, è incluso nel video Maniac Summer (2012).

59 Ch. Akerman, News from Home, Belgique-France, 1976, 16 mm, 90 min.

60 Ch. Akerman, No Home Movie, Belgique-France, 2015, 115 min.

62 C. Laurens, Cet absent-là. Figures de R. Vinet, Paris, Leo Scheer, 2004.

63 C. Laurens, Philippe, Paris, P.O.L., 1995.

64 M. Diaye, Autoportrait en vert, Paris, Mercure de France (Traits et Portraits), 2005. Cfr. N. El Nossery, ‘Autoportrait en vert ou lo speculum de l’autre’, French Review, v. 8, n. 3, March 2015, pp. 121-132.

65 M. Diaye, Y penser sans cesse, Talence, L’Arbre vengeur, 2011.

66 Cfr. A. Asibong, S. Jordan, ‘Rencontre avec Marie Ndiaye’, Revue des sciences humaines, 293, 2009, 187-189.

67 Cfr. L. Ledoux, ‘Formes vides de corps. La fonction des vêtements dans L’Usage de la photo d’Annie Ernaux et Marc Marie’, Lignes de fuite, (Masques, vêtements et accessoires: mise à distance, mise en mouvement), 2009, pp. 1-7; N. Edwards, ‘The Absent Body: Photography and Autobiography in Hélène Cixous’s Photos de racines and Annie Ernaux and Marc Marie’s L’Usage de la photo, in N. Edwards, A. L. Hubbell, A. Miller (eds.), Textual and Visual Selves: Photography, Film and Comic Art in French Autobiography, pp. 79-98.

68 A. Ernaux, L’Usage de la photo, p. 20.

69 Ivi, p. 196.

70 C. Cusset, Journal d’un cycle, Paris, Mercure de France, (Traits et portraits), 2009.

71 A.-M. Garat, Photos de familles, p. 160.