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Il volume di Nicoletta Mainardi su Luzi e lo sguardo dell’arte (Edizioni ETS, 2020) propone uno studio inedito della figura di Mario Luzi critico d’arte e poeta. La passione figurativa del poeta non è sconosciuta, così come la sua attività di critico d’arte: i libri en artiste e le prove di poesia visiva sono stati oggetto di indagine da parte degli studiosi negli ultimi anni e già nel 1997 – vivo l’autore – sono stati raccolti gli scritti critici del poeta (Luzi critico d’arte, LoGisma Editore, 1997), con significativi saggi introduttivi. Mainardi apre tuttavia una nuova strada di ricerca, non descrivendo soltanto una vera e propria ‘galleria’ delle opere che Luzi prediligeva e teneva a mente nel suo personale processo di «creazione incessante», ma mettendo finalmente in luce le caratteristiche peculiari del rapporto di scambio reciproco che lega lo «sguardo sull’arte», la critica vera e propria e la produzione letteraria dell’autore. Lo studio tiene costantemente insieme questi tre elementi e rileva come il poeta guardasse all’arte figurativa con occhi plasmati dalla propria poetica, assorbendone d’altro canto immagini e linguaggio – restituiti poi nei testi. Lo stesso Luzi ha parlato di questa complementarità tra figurazione e lingua poetica («La pittura per me è come la parola» è la dichiarazione più celebre, qui a p. 5) in diverse occasioni, e un grande merito di questo libro sta nelle indagini sulla presenza – soprattutto lessicale – dei linguaggi delle arti visive nei componimenti in apparenza più lontani da questo ambito: la studiosa mette bene in evidenza, nei diversi capitoli, come Luzi abbia assorbito la lingua dell’arte e della critica artistica e la riproponga nei suoi testi prettamente poetici, mostrando una stretta correlazione tra i due campi.

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Abstract: ITA | ENG

L’articolo prende in esame l’inserimento della fotografia nel testo autobiografico contemporaneo francese secondo una prospettiva di genere e diacronica, a partire dagli esordi, rintracciabili nell’opera di Claude Cahun Aveux non avenus (1930), fino al contemporaneo. L’obiettivo è di riconoscere le peculiarità di questa produzione e individuarne i nuclei semantici nell’ambito della letteratura francese al femminile dagli anni Novanta. L’analisi dell’opera delle scrittrici che si sono servite dell’immagine per coniugare memoria coloniale e memoria personale – è il caso di Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous e Colette Fellous – e di quelle la cui prospettiva è più personale, intimista, come Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin e Catherine Cusset ha messo in rilievo la presenza di un’importante costante formale e tematica: il modello dell’album fotografico e del suo layout nel fototesto autobiografico contemporaneo. Tale modello consente alla scrittura di focalizzarsi sul minuscolo e sul quotidiano di vite secondarie che diventano così protagoniste, al centro di un’attenzione e una partecipazione caratteristiche della cultura femminile del care. Abbiamo inoltre scorto nell’interrogazione dell’album famigliare un modello a cui questi testi si ispirano e nella scrittura banale e inespressiva una delle modalità che ne accomuna la poetica, al punto da poter parlare di un’autofotobiografia al femminile nella letteratura francese contemporanea che potremmo definire, coniando un neologismo, ‘autofotoginobiografia’

The article examines the insertion of photography in the contemporary French autobiographical text according to a diachronic perspective on gender, starting from the outset, in the works of Claude Cahun, Aveux non avenus (1930), passing through Roland Barthes and Marguerite Duras, up to the contemporary. The goal is to recognise the peculiarities of this production and identify its semantic core in the context of French feminine literature since the nineties. The analysis of the work of writers who used the image to combine colonial memory and personal memory – as is the case of Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous and Colette Fellous – and of those whose perspective is more personal, intimist, as Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin and Catherine Cusset, highlighted in the contemporary autobiographical photo-text the presence of an important formal and thematic constant: the model of photo album and its layout. This model allows writing to focus on the minuscule and everyday life of secondary people who thus become protagonists, at the centre of attention and participation that characterise the feminine culture of care. We also saw in the interrogation of the family album – a model to which inspired these texts – and in the banal and inexpressive writing, one of the modalities that those poetics have in common, to the point of being able to speak of a feminine ‘self-photo biography’ in contemporary French literature.

 

L’inserimento della fotografia nel testo narrativo è una delle declinazioni di quel visual turn che coinvolgerà progressivamente tutte le scienze umane a partire dagli anni Novanta. Alla base di opere transgeneriche che elaborano nuovi paradigmi dell’archivio e del ricordo, è tra i maggiori vettori d’innovazione formale ed estetica della letteratura contemporanea. Risale al 1892 Bruges-la-morte, romanzo decadente del belga Georges Rodenbach che, per serendipità dell’autore o dell’editore, è considerato il primo fototesto della storia della letteratura francese. Le avventure del protagonista, il misogino Hughes Viane, si stagliano sullo sfondo delle riproduzioni d’archivio di Bruges: grazie all’impaginazione, palazzi e chiese, riflessi nei canali, offrono una declinazione visiva del principio di analogia che governa la trama.[1] In letteratura, il ricorso alla fotografia come oggetto concreto o come metafora – si pensi alle sperimentazioni surrealiste, a quelle dell’école du regard fino alla letteratura degli ultimi anni – ha mutato la definizione di fototesto in dispositivo foto-letterario, quest’ultimo più adatto a sottolineare la reciprocità dell’interazione semiotica tra immagine e scrittura.

La critica letteraria tende spesso, come sottolinea Nachtergael, ad equiparare testo e immagine, di fatto introducendo un gap metodologico che impedisce al lettore di cogliere il significato del dispositivo foto-letterario valutandone il crocevia visivo-testuale.[2]

Il caso dell’autobiografia associata all’immagine è tra i più interessanti in quanto, pur interpellando lo statuto testimoniale della fotografia, il racconto autobiografico spesso trasforma l’immagine in un nodo polisemico che va interrogato nel fitto dialogo con la scrittura:

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A distanza di pochi anni dalla pubblicazione di Condominio Oltremare (L’orma, 2014), Giorgio Falco e Sabrina Ragucci tornano sulla via dell’incontro fra letteratura e fotografia, contribuendo a dare ulteriore impulso alle dinamiche verbo-visive messe in atto dalle produzioni fototestuali contemporanee. Flashover. Incendio a Venezia (Einaudi, 2020) è infatti l’ultima tappa – al momento – di un sodalizio che vede impegnati nella realizzazione di opere ibride e proteiformi uno scrittore la cui prosa mostra di possedere una spiccata propensione al visuale e una artista visiva che ha da poco scelto di dedicarsi, con il romanzo Il medesimo mondo (Bollati Boringhieri, 2020), alla scrittura letteraria. E di questa inscindibilità tra spazio narrativo e racconto fotografico, tra sguardi di natura diversa ma disposti a contaminarsi, Flashover sembra recare il segno già a partire dalla struttura del volume. Se si osserva la successione delle pagine, si nota che i frammenti iconografici, costituiti complessivamente da settantatre fotografie di Ragucci e da uno scatto eseguito da Falco (cfr. p. 52), sono intercalati nel testo privi di didascalie. L’esperienza di lettura che se ne ricava, pertanto, si nutre di un simultaneo integrarsi dei tasselli fotografici con l’impianto narrativo.

Riguardo innanzitutto alla componente verbale, il racconto appare racchiuso da una cornice che, nell’attacco e nei brani conclusivi, ricalca l’andamento descrittivo di una tradizionale terza persona romanzesca. Sul piano della forma, tuttavia, il testo di Falco sfugge alle definizioni. Non è «né romanzo, né saggio, né novella, né poesia» (p. 10) e – accordandosi, da questo punto di vista, a una più generale tendenza del romanzo contemporaneo ad accogliere documenti ‘grezzi’, linguaggi e generi del discorso non finzionali – concentra il funzionamento dell’ingranaggio narrativo sul recupero dei fatti. L’episodio di cronaca al quale l’opera si ispira è l’incendio del Teatro La Fenice appiccato nel gennaio del 1996 dal titolare di una ditta specializzata in impianti elettrici, Enrico Carella, con la complicità del cugino, nel tentativo di sottrarsi alla penale che la società avrebbe dovuto pagare per il ritardo accumulato rispetto alla fine prevista dei lavori. Riportando anche stralci delle deposizioni dei testimoni e degli imputati chiamati a processo quattro anni dopo l’accaduto, la voce narrante sviluppa in slow motion il racconto del gesto doloso e del modo in cui è stato premeditato, delle operazioni necessarie all’estinzione delle fiamme, della vita che in quegli istanti si consuma nella parte della città lagunare in cui si trova il teatro. Accanto a questo nucleo tematico, che procede come in studiata sintonia con l’imparzialità di un referto, si situano frequenti ‘smarginature’ della prosa, con l’effetto di una moltiplicazione dei livelli semantici. I passaggi divaganti rispetto al flusso diegetico sono di vario tipo. Numerosi sono i brani in cui, come a bilanciare il ritmo della narrazione, la voce narrante dialoga con se stessa – come quando, con un significativo slittamento dalla terza alla seconda persona, nelle pagine iniziali interviene e avverte: «(Da qui in avanti rinunci al romanzo […]. Rifiuti di assegnare profondità a ciò che profondo non è. Niente psicologismi, meglio abbandonare i personaggi alla solitudine dei propri gesti; […])» (pp. 9-10) – oppure anticipa gli eventi, secondo una più consueta funzione prolettica, oppure ancora esprime una dimensione universale liberata da condizionamenti di ordine sia spaziale che temporale: «(Compiamo sempre gli stessi gesti modulati attorno a piccolissime variazioni», si legge in una temporanea pausa dall’incendio, «ciononostante, crediamo ogni volta di fare qualcosa di nuovo; crediamo alle nostre menzogne, […] impreparati all’esito dei nostri gesti abitudinari; […])» (p. 69). Al di là degli esempi menzionati, evidenti sono anche le implicazioni metatestuali generate dalla progressione delle fasi dell’incendio: «(Ignizione, propagazione, incendio pienamente sviluppato, decadimento finale. Inizio, svolgimento, svelamento, conclusione. L’incipit è l’innesco, l’accelerante: […]. Quest’opera, invece, scaturisce dalla sequenza, dal montaggio. […])» (p. 38). All’interno di tale processo, il ‘flashover’ non solo rinvia alla fase di massima diffusione delle fiamme, al cosiddetto ‘incendio generalizzato’, ma diventa anche il punto di convergenza, testimoniato e accentuato dal titolo del volume, di una articolata risemantizzazione del termine in chiave metaletteraria.

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Provare a indagare la figura poliedrica del letterato artista Ardengo Soffici non è un’operazione priva di rischi. Ciò nonostante, nel volume edito da Le Lettere, il giovane studioso Ruben Donno li affronta senza timore, destreggiandosi all’interno di una letteratura critica vasta e interdisciplinare. L’intento dell’autore è quello di avanzare, attraverso una dettagliata ricostruzione cronologica della vita dell’artista, una lettura contigua della sua opera letteraria e figurativa. Sin dal primo capitolo difatti, essa viene esplorata in maniera duplice: da un lato, analizzando l’attenta scelta lessicale che lascia trasparire il genuino soggettivismo proprio della sperimentazione letteraria di Soffici, dall’altro, ponendola in dialogo con l’operazione eminentemente ecfrastica della critica longhiana. Il denominatore comune di questa particolare forma di scrittura è rappresentato per Donno dalla messa in luce di una volontà sottesa nel «dare forma plastica alle parole e far sì che esse, fuoriuscendo dalla pagina per effetto pop-up, possano modellarsi concretamente sulla scorta del dato figurativo» (p. 25). L’uso fluido di una terminologia specifica, priva dei tecnicismi propri della disciplina storico-artistica, coadiuvato dal forte gusto narrativo e metaforico – non esente da localismi e toni colloquiali – evidenzia così quel «parlar figurato» (G. De Robertis, ‘Ardengo Soffici’, in A. Soffici, Fior Fiore. Pagine scelte e ordinate da Giuseppe De Robertis, Firenze, Vallecchi, 1937, p. 15) che caratterizza la scrittura dell’autore del Poggio, oggetto di curiosità e interesse di un pubblico eterogeneo.

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Il volume di Marcello Ciccuto (Torino, Aragno, 2018) è una monografia sul fitto intreccio dell’opera poetica e prosastica di Montale con il mondo delle arti. La contaminazione di codici, così tipica della difficoltà (a volte dell’ambiguità) della scrittura montaliana, è al centro della dissertazione dell’autore che insegue la miriade di letture ed esperienze culturali del poeta alla base dell’elaborazione di un personalissimo modello critico applicabile, senza soluzione di continuità, a tutte le espressioni artistiche. Questo vasto approccio ermeneutico, che vede il poeta accostare in maniera significante l’impressionismo storico al verismo musicale, l’opera di Gatto a quella del primo de Chirico, la poesia di Pea alle sculture classiche, viene indagato mettendo in luce consapevolmente ciascun riferimento. L’intera analisi di Ciccuto dimostra come «i cenni di cultura figurativa in Montale siano invariabilmente pluri-direzionali e assommino più esperienze visive e mentali» (p. 281) ricostruendo così una vera e propria teoria estetica montaliana.

La sequenza dei dieci capitoli dell’indice suggerisce un percorso attraverso la coscienza artistica di Montale: nei primi capitoli (Una specchiata indifferenza; Impressionismo, arabeschi, astrazioni; Polifonie cromatiche) l’autore descrive l’allontanamento del poeta dalla «gioia luminosa» impressionista per dimostrare l’adesione ad una «metafisica arida e decolorata» realizzata in «linee profonde, scultoree, monocromatiche» (p. 37, poi in Effetto scultura e Realismo Metafisico). L’aridità, riconosciuta in Sbarbaro, Svevo, Emanueli, Gide, De Falla, è strettamente connessa alla riduzione di tono, espressione di una poetica schiva dalla «seduzione mimetica» e lontana dalle fredde soluzioni delle fotografie realistiche (tema del capitolo Contro il fotografico) per andare, ricalcando i titoli di altri capitoli, Verso una nuova visione classica seguendo il Magistero di Paul Cézanne

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