Provare a indagare la figura poliedrica del letterato artista Ardengo Soffici non è un’operazione priva di rischi. Ciò nonostante, nel volume edito da Le Lettere, il giovane studioso Ruben Donno li affronta senza timore, destreggiandosi all’interno di una letteratura critica vasta e interdisciplinare. L’intento dell’autore è quello di avanzare, attraverso una dettagliata ricostruzione cronologica della vita dell’artista, una lettura contigua della sua opera letteraria e figurativa. Sin dal primo capitolo difatti, essa viene esplorata in maniera duplice: da un lato, analizzando l’attenta scelta lessicale che lascia trasparire il genuino soggettivismo proprio della sperimentazione letteraria di Soffici, dall’altro, ponendola in dialogo con l’operazione eminentemente ecfrastica della critica longhiana. Il denominatore comune di questa particolare forma di scrittura è rappresentato per Donno dalla messa in luce di una volontà sottesa nel «dare forma plastica alle parole e far sì che esse, fuoriuscendo dalla pagina per effetto pop-up, possano modellarsi concretamente sulla scorta del dato figurativo» (p. 25). L’uso fluido di una terminologia specifica, priva dei tecnicismi propri della disciplina storico-artistica, coadiuvato dal forte gusto narrativo e metaforico – non esente da localismi e toni colloquiali – evidenzia così quel «parlar figurato» (G. De Robertis, ‘Ardengo Soffici’, in A. Soffici, Fior Fiore. Pagine scelte e ordinate da Giuseppe De Robertis, Firenze, Vallecchi, 1937, p. 15) che caratterizza la scrittura dell’autore del Poggio, oggetto di curiosità e interesse di un pubblico eterogeneo.
Tracciando le diverse fasi dell’attività creativa di Soffici, l’autore ripercorre da principio il periodo francese, che dal 1900 al 1907 segna la crescita emotiva e culturale dell’artista. L’incontro con la capitale variopinta e stimolante, capace di metterlo in contatto con una vita più intensa, è dunque il primo vero distacco dal mondo contadino e dalla natura agreste nella quale era nato. A Parigi Soffici scopre il Realismo, la pittura espressionista, la poetica simbolista, collaborando con diverse riviste letterarie in veste di scrittore e disegnatore, come Plume, Le Tutu e Gil Blas. Ed è attraverso questa realtà ricca e caotica, radicata nella vita mondana della metropoli, che l’artista nutre per la prima volta un sentimento nazionalistico, rielaborando il rapporto con la sua terra natia – grazie anche al coup de foudre per la pittura di Segantini – e con la propria storia. Immagine verbale e pittorica si fondono in quella «pittura di prosa» (p. 65), già apprezzata dalle ricerche di Luigi Baldazzi e di Alessio Martini (L. Baldacci, I critici italiani del Novecento, Milano, Garzanti, 1969; A. Martini, Storia di un libro. Scoperte e massacri di Ardengo Soffici, Firenze, Le Lettere, 2000), che non prende a modello la realtà in sé, ma l’immagine pittorica di essa, in una forma di ekphraris celata. Questa descrive con enfasi paesaggi, sensazioni e incontri, secondo le parole di Soffici, tentando di «uscire dai vecchi schemi letterari e pittorici; […] di slargare, di violentare e dirompere i modi di espressione, per arrivare a uno stile più largo e alla varietà della vita e delle impressioni» (A. Soffici, ‘Giornale di Bordo’, I (1915) in A. Soffici, Opere, vol. IV, Firenze, Vallecchi, 1961, p. 188).
Donno illustra in seguito il rientro in Italia, tratteggiando il profilo di un intellettuale che si muove tra Modernismo e Avanguardia, che fa i conti con il proprio paese attraverso una ricerca del reale giocata sull’introspezione e sull’autobiografia, misurandosi principalmente con la forma del diario. Punto di congiunzione tra opera letteraria e pittorica si rivela per esempio nell’analisi incrociata di un’opera come l’Ignoto toscano e i numerosi autoritratti concepiti negli stessi anni, che dispiegano al lettore quell’«automitografia» (S. Bartolini, Ardengo Soffici. Il romanzo di una vita, Firenze, Le Lettere, 2009, p. 30) che si articola in una narrazione insieme malinconica e feroce, che aderisce pienamente con lo spirito e i fatti storici del suo tempo. In conclusione, lo studioso affronta i tumultuosi anni del primo conflitto mondiale, il racconto dell’orrore della trincea vissuta da volontario, che emerge dalle parole dure di Kubilek e La ritirata del Friuli, e gli ultimi anni in cerca di risoluzione, guidati dal desiderio di un ritorno al passato squisitamente classico e vincolato alla storia della propria nazione.
Il volume di Donno, attento al dettaglio biografico quanto alla variegata produzione critica e narrativa, delucida «la ricerca della musicalità della parola e dell’immagine» (A. Del Puppo, “Lacerba”, 1913-1915, Bergamo, Lubrina, 2000) che segna l’opera di Soffici. Esso si inserisce in quel filone di ricerca attento alla duplice predisposizione creativa (letteraria e pittorica), caratteristica nell’opera di alcuni autori moderni, aggiungendo così un tassello ben costruito a quelle ricerche che si propongono di colmare i tortuosi spazi – ad oggi ancora poco esplorati – tra studi letterari e visuali, indispensabili per interrogare l’opera febbrile di autori in cui vita e arte si sorreggono e si svelano vicendevolmente.