Alessandra Sarchi: abitare nel conflitto (intorno a Il ritorno è lontano)

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Il presente contributo propone un’analisi del romanzo Il ritorno è lontano di Alessandra Sarchi, a partire dal tema del conflitto che attraversa tutta l’opera della scrittrice. Il contrasto tra madre e figlia, Sara e Nina, in questo ultimo lavoro di Sarchi riflette una frattura generazionale e ideologica: la prima è legata a un mondo che va scomparendo, la seconda, votata a un impegno ecologista radicale, è invece proiettata verso un orizzonte in cui i valori e le priorità sono profondamente mutati. La densità della scrittura di Sarchi emerge con evidenza nella restituzione della tensione tra un mondo dominato dalla razionalità adulta e il richiamo a una natura ferita ma vitale.

This paper offers an analysis of the novel Il ritorno è lontano by Alessandra Sarchi, starting from the theme of conflict that runs throughout the writer's work. The contrast between mother and daughter, Sara and Nina, in this latest work by Sarchi reflects a generational and ideological rift: the former is tied to a world that is disappearing, while the latter, dedicated to a radical environmentalist commitment, is instead projected toward a horizon in which values and priorities have profoundly changed. The depth of Sarchi's writing is clearly evident in the portrayal of the tension between a world dominated by adult rationality and the call to a wounded but vital nature.

 

Il conflitto è la cifra stilistica di molte delle narrazioni composte da Alessandra Sarchi. Intendo il conflitto in tutte le sue forme, sia interne che esterne: il conflitto in un ambito ristretto di amici, il conflitto interno alla coppia, alla famiglia, e naturalmente interno alla stessa personalità della voce narrante (esplicita o implicita). Non credo che Sarchi metta in scena il conflitto nel suo aspetto più spettacolare e evidente, ma anzi che una delle sue abilità maggiori stia nel nascondere il conflitto nelle pieghe del racconto, là dove può occhieggiare anche solo in un gesto o trasferirsi in un oggetto.

Non è un caso che l’ultima fatica di Sarchi sia l’organizzazione di una importante mostra dedicata a Penelope, cioè a una figura silenziosa che porta dentro di sé il conflitto, sia nella modalità che la mette “contro” i nemici sia in quella che la mette “contro” il marito lontano, cioè fa dell’attesa il lungo rallentamento del conflitto, la sua agonia. Nel suo saggio su Penelope Sarchi sottolinea che è solo nei sogni che emerge in Penelope il trauma della perdita o della distanza: si pensi al sogno delle venti oche uccise dall’aquila.1 Qualunque sia il suo significato, è un sogno che contiene distruzione e sangue, annuncia forse la vendetta di Ulisse ma nello stesso tempo rattrista la sognatrice.

Copertina del catalogo della mostra Penelope, a cura di A. Sarchi e C. Franzoni, Milano, Electa, 2024

Quando esercita la scrittura, Sarchi nasconde il conflitto o lo esibisce nello stesso silenzio della sua Penelope. Sara, nel romanzo Il ritorno è lontano (Bompiani, 2024), è una madre che non riesce a gestire il conflitto con la figlia Nina. Questo conflitto apre una frattura nel quotidiano ma non è un romanzo famigliare e tantomeno un romanzo di intimità quello composto da Sarchi. Direi che si tratta di un racconto che guarda all’oggi ma da una prospettiva che non ipotizza giudizi o soluzioni, che apre molte domande. Sara e Nina sono due donne che ormai appartengono a mondi diversi, al di là della distanza di pochi anni che le separano. Sono legate dal sangue ma inconciliabili nell’emotività. Il mondo di Sara è quello della borghesia di stampo novecentesca, dove il fondamento dell’esistere coincide con il consumare. Sua figlia porta in sé i germi del nuovo mondo, di una generazione che vede in atto uno sconvolgimento epocale, dopo il quale niente sarà più come prima, dal moneto che la terra metterà (o sta mettendo) il genere umano in una situazione di pericolo. Sara è un’archivista, sa maneggiare documenti antichi e polverosi con delicatezza, con l’uso di guanti di cotone che servono a preservare le tracce del passato, ponendo ogni in un contenitore che mette ordine e separa. Nina desidera entrare in rapporto con il caos disordinato del mondo naturale, abbraccia il tronco degli alberi e sa che si tratta di un corpo dove scorre la vita dentro un involucro di morte, le tracce della sua crescita sono legate a un abete piantato in giardino e cresciuto insieme alla ragazza.

Copertina di Il ritorno è lontano, Milano, Bompiani, 2024

Una serie di foto sta a testimoniare questa unione fraterna, e non a caso in una delle prime scene del romanzo la fuga di Nina da casa è accompagnata dal taglio violento con cui una anziana vicina si libera dell’eccesso di rami dell’albero che cresce oltre lo spazio consentito.

Per un effetto di reversibilità molto calcolato da Sarchi, il corpo ferito della Terra si riflette nel corpo ferito della maternità: un intervento priva Sara dell’utero, cioè le toglie la forza generativa femminile. Là dove cresce la vita Sara sente l’odore di foglie marce, scopre per sottrazione la sua mancanza di rapporto con il mondo naturale. Sarchi mostra grande attenzione per il modo con cui può essere modificato un corpo femminile, e in questo caso l’intervento sul corpo della madre segue di poco l’abbandono della famiglia da parte della figlia. Di lei restano solo i vasetti in cui devono crescere semi di piante, dal momento che Nina abdica con una dichiarazione inderogabile alla maternità e trasferisce la “cura” fuori di sé, là dove sente che si manifesta un’urgenza più ampia. Le due prospettive sono inconciliabili: la maternità di Sara viene annullata dalla malattia, l’istinto materno di Nina si indirizza verso una condizione di vita alternativa all’umano. Qui, in questo spazio vuoto che si apre tra le due donne, risiede l’elemento più problematico del romanzo, il vuoto che non può essere redento da nessun fatto perché fa parte di una certezza dentro la quale non può esserci conciliazione. La presenza di Paolo, il padre, è evocata solo come collante che tiene insieme i residui affettivi, con una calma e una determinazione che ci fanno capire la sua presa d’atto di esclusione reale dal rapporto. Paolo sa ‘comprendere’, ma il suo ruolo è quello di dimostrarci che la comprensione non può agire sulle decisioni, né su quelle prese dalla figlia né su quelle prese dalla moglie. Paolo è necessario come testimone, come osservatore capace di sottrarre tragicità alla sequenza dei fatti. Lui è il nostro sguardo ‘normale’, il buonsenso del lettore che lo scrittore deve scuotere fino a far sentire

Copertina di La vegetariana di Han Kang, Milano, Adelphi, 2016

Sarchi però sa bene che narrare significa mettere alla prova scelte etiche che non sono altro che prove di convivenza. Ogni narratore sfida a modo suo un assurdo dell’esistere. Là dove c’è l’assurdo, si potrebbe affermare mimando un famoso verso di Holderlin, può nascere un’ipotesi narrativa. Han Kang (la scrittrice sudcoreana) ha raccontato la storia della donna che improvvisamente decide di diventare albero, e che stravolge la coerenza della famiglia con la sua decisione apparentemente inspiegabile: là dove non c’è via d’uscita l’unica soluzione praticabile è la sospensione dell’umano, la sua trasformazione a un livello che sta sotto l’umano. Sarchi non fa di Nina una “vegetariana” ossessiva come il personaggio di Kang perché in lei resiste un principio di verosimiglianza che ha a che fare con il modo in cui il suo occhio crede nella forma della realtà, e non può trasgredire alle leggi estetiche di questa forma. Per questo nella sua scrittura tutto ciò che produce fastidio fisico viene tenuto sotto controllo.

Nel romanzo di Sarchi la nonna di Nina incarna l’unica possibilità di ricucitura del mondo in frammenti, che non a caso si rivela nel gioco del caleidoscopio: «Ogni cosa se osservata da molto vicino ti rivela la sua magia. […] E sai quel è la magia più grande? […] Che tutte le cose sono collegate, quelle più piccole e quelle più grandi, e così all’infinito».2 Ma la prospettiva della nonna, che riflette quella dello scrittore (in quanto creatore di un insieme), è valida solo come ipotesi estrema ormai non più attuabile, dal momento che appartiene a un’altra epoca (l’epoca che sta alle spalle di Nina, ma anche a quelle di Sara). Sì, tutte le cose sono collegate ma solo là dove la scrittura riesce a collegarle, cioè nella pienezza dell’immaginazione o del mito. Il racconto vive, per statuto, della nostalgia del mito, e in esso trova il conforto che manca nella realtà.

Anche se Sarchi offre al suo racconto quella nostalgia, fin dal titolo (Il ritorno è lontano), per lei la storia di Sara non può essere consolata se non dall’unico gesto possibile, cioè la ripetizione della maternità là dove non è consentita maternità. Questa scelta di Sara avviene di riflesso con le azioni che Nina compie in una terra lontana, una Germania selvosa e cupa, dove manca sempre la sensazione del calore (il ragazzo di Nina, abbracciandola, le chiede ironicamente se è stata in un congelatore, e lei stessa ragiona sul suo essere creatura ‘fredda’, e sul fatto che il progressivo deteriorarsi del pianeta si otterrebbe solo con un suo raffreddamento).3 In quella condizione di gelo Nina diventa definitivamente ciò che sapeva di essere, una appassionata contestatrice ecologista. Tanto appassionata da compiere un atto di denudamento davanti alle telecamere, mimando parodicamente quanto già compiuto da generazioni precedenti che ormai hanno dimenticato il valore della contestazione. Qui Sarchi inventa una delle scene più intense e straziante del suo racconto, facendo ricorso alla pervasività della comunicazione telematica. Madre, padre e figlia comunicano con cellulari o computer. Il toccarsi, lo sfiorare la pelle, l’abbracciare (cioè i gesti dell’affettività) nella parte centrale del romanzo sono sostituiti dall’osservarsi freddo attraverso gli schermi. Gli schermi disambientano ogni personaggio dall’habitat in cui si trova, fanno di ognuno un osservatore impotente.

Dopo che la madre ha comunicato la scelta dell’adozione, Nina le manda un video terribile. Un bambolotto usato (quello che i bambini italiani conoscevano come Cicciobello) viene sollevato dalle mani di Nina che gli sussurra in tedesco “tesorino” e gli sfila il ciuccio di bocca provocando vagiti e lacrime. Nina esibisce, nel video, una parodia di maternità. Il bambolotto non è solo il simulacro del bambino che verrà adottato ed entrerà in casa prendendo il suo posto, ma è anche Nina stessa che si mostra ormai completamente vuota di affettività verso la madre e implicitamente verso se stessa. Aveva seguito «un istinto inconfessabile»:4 questa la verità agli occhi di Sara. Dunque l’amore per la Terra e per il destino del pianeta può nascondere una carica di odio non sublimata. Il che non può prevedere nessuna possibilità di conciliazione. Sara potrebbe sbagliare con la scelta dell’adozione? È lei che provoca la reazione inusitata di Nina? Sarchi non può rispondere a questa domanda, perché qualsiasi risposta interromperebbe la carica emotiva del racconto, lo abbasserebbe alla cronaca. Sarchi invece ha bisogno, in quanto narratrice, di tendere dilemmi etici anche sotto ciò che sembra quotidiano, o perlomeno plausibile. Dunque è plausibile che una donna desideri di tornare madre, come è plausibile che la figlia di questa donna manifesti fastidio di fronte a questa decisione. E, viceversa, è plausibile che una madre si senta ferita dalle decisioni della figlia di inseguire ideali che minano i vincoli famigliari. Il messaggio del bambolotto va però al di là di ogni spiegazione, proprio perché è un atto in cui la maternità viene sfregiata e l’adozione mostrata nel suo aspetto velleitario e anaffettivo. Sara ha bisogno di un bambolotto, nella prospettiva di Nina, così come Nina ha bisogno di abbracciare gli alberi e non sua madre. Il pianto che segue, quando Nina acquista consapevolezza del gesto che ha compiuto, non può curare la ferita, dal momento che avviene nella solitudine e non alla presenza della madre.

Pietro, il bambino adottato, entra nel vuoto lasciato da Nina con le ambizioni del distruttore. In lui l’infanzia, corrotta, si traduce in corruzione degli oggetti che lo circondano, in sovvertimento. Malgrado questo, Pietro è agli occhi di tutti un bambino bellissimo. La bellezza nasconde la sua carica di violenza. Eppure è proprio questa violenza che apre un varco impossibile nel disordine che circonda i personaggi. Pietro distrugge ma salva. I tentativi di ‘ambientarlo’ nella nuova casa adottiva sono tutti un fallimento. Anzi, è lui stesso a operare una progressiva disambientazione. Pietro fa capire a Sara che l’adozione potrebbe essere un fallimento, esattamente come nei colloqui con Gregor Nina pensa che la sua carica rabbiosa di ecologista potrebbe essere inutile. Madre e figlia sono ancora sullo stesso piano, ai due estremi opposti. In una ininterrotta catena di atti che negano la sua appartenenza alla famiglia, Pietro, dopo aver abbracciato Paolo, strappa una delle piantine lasciate da Nina nei vasetti sul davanzale. Nina è anche in quella piantina. Sarchi ricorda benissimo la metafora usata da Ada in Caro Michele, romanzo di Natalia Ginzburg, dove le giovani generazioni sono viste come «pianticelle appassite»5 che non possono trovare il terreno su cui crescere. Ma ora è lo stesso terreno a contenere in sé i germi della degradazione, che potrebbe estendersi anche agli stessi manifestanti.

Gregor racconta a Nina che da bambino seppelliva i suoi giocattoli sotto terra, con la speranza di ritrovarli trasformati in tesoro. L’idea è quella del bambino che cerca nel corpo della madre dei fratelli con cui condividere la paura dell’essere gettato nella vita. E infatti Gregor rivela che un giorno ha dato fuoco a tutti quegli oggetti nella speranza di trasformali realmente, evitando il processo di marcescenza che avveniva sotto la terra. La rivelazione di Gregor funziona come una illuminazione che può salvare quanto si è formato nel destino di tutti i personaggi. Il fuoco è un operatore mitologico che si ricollega agli oscuri retaggi nordici, arrivati al ragazzo forse attraverso una famiglia compromessa con il nazismo (anche Nina sa che la sua famiglia è stata contagiata dal fascismo).

Il tema mitico del fuoco è un segnale lasciato dal narratore. Negli ultimi capitoli del romanzo Sara, Paolo e Pietro raggiungono Nina in Germania e lì iniziano un lungo viaggio che li porta dentro un grande parco di alberi secolari. Lì tutta la famiglia trova una casa che corrisponde alle idee di Nina ma anche alle fantasie del bambino adottivo. Quando Pietro si addormenta sotto gli alberi Nina usa un mito per rassicurare la madre: in alcuni popoli asiatici sono gli alberi che ispirano i sogni, sono capaci di convogliare energie positive verso gli umani. Subito dopo, lei stessa aggiunge però che quel bambino è «pieno di rabbia».6 Dunque ancora una volta tra personaggi che sembrano opposti (Nina e il fratellastro) avviene uno scambio di ruoli: la rabbia è il sentimento che spiega il perché lei abbia abbandonato la famiglia e ora si trovi lì. Tanto che quei genitori sono ormai per lei irriconoscibili, non li unisce nessuna radice.

Questo cammino nel bosco sembra portare a una riconciliazione, soprattutto perché Pietro si rivela una creatura vicina agli alberi e all’acqua. Potremmo pensare che qui avvenga una nuova forma di ambientazione di tutti i membri della famiglia, legata proprio alla figura di Pietro, che sparisce durante un incendio improvviso e poi ricompare, galleggiando tra l’aria e le acque, come un piccolo Mosè che cerca salvezza e porta liberazione. Nelle sue pupille si rispecchiano i volti di Nina e di Gregor che lo hanno ritrovato. Agli occhi di Pietro corrispondono le decine di occhi sui tronchi delle betulle, occhi vegetali che sorvegliano, da una dimensione non umana, gli esseri viventi. Sarchi sa bene che non deve offrirci una soluzione definitiva ma aprire il racconto verso quel vuoto necessario a lasciare sospeso il mondo in un incanto provvisorio. La storia di Pietro non può essere raccontata proprio perché, come dicono i versi di Franco Fortini messi in esergo, «il ritorno è lontano». Se il bosco fosse il luogo di un possibile ritrovarsi avrebbe prevalso la prospettiva di Nina. Se questa fosse una illusione prevarrebbe il disincanto dei genitori. Però noi sentiamo che là dove c’era conflitto ora si intravede una attenuazione. È attraverso una fotografia inviata con il cellulare che Nina comunica ai genitori che Pietro è salvo. Non è una foto del bambino ma la foto degli occhi degli alberi, neri sui tronchi argentati. Con questo oltrepassamento dell’umano Sarchi chiude il suo racconto, aprendo lo sguardo verso un limite irrapresentabile: è questo il limite oltre il quale ogni lettore deve spingersi.

 


1 Penelope, Milano, Electa, 2024, pp. 15-35, si vedano in particolare le pp. 27-30.

2 Il ritorno è lontano, Milano, Bompiani, 2024, p. 40.

3 Ivi, 84-86.

4 Ivi, p. 112.

5 Caro Michele, in Ead., Opere, Milano, Mondadori, 1995, vol. 2, p. 394.

6 Il ritorno è lontano, p. 216.