Crisalidi. Le fotografie di Francesca Woodman nel cinema

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I film The Woodmans (Scott Willis, 2010) e il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000) ripercorrono in modi diversi e complementari la vicenda biografica della fotografa Francesca Woodman, scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, e da allora figura centrale nell’arte visiva contemporanea. I due lavori appaiono costruire una distanza, come una sfasatura tra colei che dice io nelle sue opere, e che però può essere colta solo nel suo essere assente, o meglio, nella metamorfosi del sé nella pratica artistica, e coloro che prendono parola per lei per raccontarla, definirla e forse rinchiuderla in una forma alla quale, però, gli scatti di Francesca sembrano voler sfuggire; ed è su questa discrasia, sorta di corrispondenza perduta tra il racconto del film e le figure delle fotografie, che questo mio intervento lavora.

The film The Woodmans (Scott Willis, 2010) and the experimental documentary of the American director Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), explore in different yet complementary ways the biographical journey of the photographer Francesca Woodman, disappeared by her own will in 1981, at twenty-two, and since then a major protagonist of contemporary visual art. The two films appear to build a distance of sorts, a shift between the woman that says ‘I’ in her works, that can be grabbed in her absenceonly – or, better, in the metamorphosis of the self offered by her artistic practice –, and those who speak for her to recount her story, define her and maybe imprison her in a form to which her pictures seem to be willing to escape from. It is precisely on this dyscrasia, a lost correspondence between the pictures and the images of the films, that my contribution deals with.

 

 

 

1. Pellicole. Fotografie e film

Scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, Francesca Woodman si delinea ormai come figura centrale dell’arte visiva contemporanea, in un caso notevole di celebrità sorta e come esplosa poco tempo dopo – e forse a causa – di quella morte precoce e drammatica. In effetti, a partire dalla prima esposizione postuma nel 1986, negli anni a seguire sono state proposte numerose retrospettive delle sue opere, tra le quali una monografica di più di centoventi scatti al Guggenheim di New York nel 2012; e sono apparsi poi svariati saggi e monografie,[1] fino a fare di Woodman un nome molto noto e ricorrente anche negli ambienti meno specializzati, in una dinamica non lontana da quella che ha dato forma alla leggenda di Vivian Maier in anni ancora più recenti.[2]

Il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), ripercorre la vicenda biografica di Woodman in una dimensione per molti aspetti inusuale, giacché gli scatti dell’artista non sono mostrati ma rievocati in descrizioni affidate a una voce over e performati da modelle che ne replicano le pose, così da costruire una sorta di ritratto in absentia dai toni suggestivi e talvolta inquietanti.[3]

Dal canto suo, il film di Scott Willis The Woodmans, presentato al Festival di Roma nel 2010 e dalla struttura più convenzionale, è dedicato al ricordo della fotografa in una sorta di album di memorie raccolte dai familiari e da chi le è stato vicino, come indica il titolo, in una polifonia di voci e immagini che accosta interviste, fotografie di famiglia, pagine di diario a filmati e immagini prodotti dalla stessa Francesca.[4]

Le vicende dell’esistenza breve dell’artista riepilogate dai due lavori si snodano intorno a pochi eventi cruciali: l’infanzia a Denver, in Colorado, in una famiglia di artisti (Betty, la madre, ceramista, il padre, George, fotografo e pittore, il fratello Charlie, videoartista); il soggiorno fiorentino tra il 1965 e il 1966; l’iscrizione a una delle migliori accademie d’arte statunitensi, la Rhode Island School of Design, nel 1975; un secondo soggiorno italiano, questa volta a Roma, tra il 1977 e il 1978; fino al ritorno a New York nel 1979 e al suicidio, due anni dopo.

Come si è detto entrambi i film lavorano sull’evocare e riprodurre gli scatti dell’artista, con strategie diverse. Viene da chiedersi, allora, quali siano le corrispondenze e le possibili sfasature tra fotografie e film; se il prendere forma della rappresentazione nella grana diversa eppure affine dei due media finisca per produrre una tensione feconda; e se, infine, scatti, fotogrammi e immagini elettroniche riescano a tessere una tela comune o se ci siano fili che sfuggono all’ordito quando il sovrapporsi delle une e degli altri s’ingrana con la relazione speciale che lega la fotografia al guardare delle donne, giacché, come ha scritto Susan Sontag, l’uso della fotocamera declinato al femminile celebra la varietà e l’individualità, così da mandare in frantumi le categorie eteronormative decostruendole per aprire percorsi inediti di raffigurazione e dissenso.[5]

 

2. Autoritratto con calla. Identità plurali e corpi desideranti

Il corpus fotografico di Woodman trova una sintesi estrema ma efficace nel motivo dell’autoritratto. Il corpo dell’artista si mostra sovente in nudi integrali, in posture diverse che non di rado le nascondono il volto e intese a reagire all’ambiente che li ospita, naturale o domestico che sia. Si tratta dunque di una fotografia che muove intorno a una soggettività forte che fa collassare la relazione tra soggetto e oggetto del ritratto raggrumandola sul primo termine, per aprire però alle cose fuori del sé. Se Woodman dichiara, con leggerezza ironica, di fotografare sempre sé stessa giacché «It’s a matter of convenience. I’m always available»,[6] a leggere queste parole in filigrana, sovrapponendole alle immagini, si vede come la centralità del soggetto riverberi subito nella fusione con lo spazio: muri scrostati, pavimenti segnati dall’uso, stanze abbandonate e poi terra, acqua, alberi illustrano un’immersione dell’immagine di lei nell’universo delle cose, con la luce a sfaldare la consistenza del corpo congiungendolo con l’organicità del mondo. Così, ad esempio, in Autoritratto con calla, scattata a Roma tra il 1977 e il 1978, il corpo nudo di Francesca, una mano a coprire in parte il volto, è accostato alla forma allungata della pianta; le membra di lei si distendono nella fotografia non tanto a osservare, ma a divenire il fiore, come in una eco dell’intreccio con la dimensione naturale che sgorga dallo scatto di Claude Cahun Je tends les bras (1931-1932), dove le braccia della fotografa, ornate da bracciali di foggia esotica e tese in avanti come a voler abbracciare una presenza invisibile, sembrano appartenere a una roccia dalle dimensioni di un corpo umano.[7]

Francesca Woodman, Autoritratto con calla, 1977-1978Claude Cahun, Je tends les bras, 1931-1932

Il piglio femminista della lettura del corpus di Woodman offerta alla metà degli anni Ottanta da Abigail Solomon-Godeau suggerisce diverse tracce da esplorare – sebbene negli ultimi anni la prospettiva adottata dalla studiosa sia stata per certi aspetti contestata, o ne siano stati comunque allargati i confini verso un’attenzione più acuta alla dimensione formale.[8] Solomon-Godeau vede l’opera di Francesca Woodman come intrisa di echi, parallelismi e allusioni che rimandano alle questioni indagate dalle teorie femministe della rappresentazione proprio a partire dal motivo di una riflessione per immagini che s’inarca tra il processo di oggettivazione che appartiene al medium fotografico e la tensione che parte e torna al sé interna al modo dell’autoscatto.

Se, con Solomon-Godeau, i lavori di Woodman si delineano come «an assiduous inventory and exploration of the woman’s body as icon of desire», a dare forma a quel corpo inteso sia come spettacolo – sight − che come luogo – site − del desiderio è la relazione tra il sé come soggetto guardante e creativo, il sé come oggetto osservato e messo in scena e il medium fotocamera, in un gioco di sguardi che mette a tema il configurarsi degli stereotipi della femminilità per appropriarsene così da distorcerli e sovvertirli. Mi pare feconda, in particolare, l’osservazione di Solomon-Godeau che coglie per l’appunto le forme molteplici di soggettività portate alla luce dalle fotografie di Woodman, sia nello sguardo di chi le osserva che nelle figure rappresentate, e che si legano senz’altro al motivo della metamorfosi:

 

Overall, Woodman’s variations on both the construction and inscription of femininity do not stake out an identifiable position for either the male or female spectator. Arguably, it is precisely this ambiguity, the indeterminacy of subject and viewing positions, that charges Woodman’s photographs with their unsettling admixture of seductiveness and affront. This ambiguity of address seems particularly apparent in the great mass of Woodman’s images that elaborate on that most venerable and recurrent topos, the conflation of the woman and her body with nature.[9]

 

Il movimento metamorfico si tinge di tonalità contrastanti: ora oscure e minacciose, come nella serie House, dove il corpo di lei sembra confondersi con muri in disfacimento o rinchiudersi in gabbie polverose di cristallo, esposto insieme agli animali impagliati; ora meno inquietanti e oniriche, come nelle immagini – sulle quali tornerò tra poco – che vedono il corpo della fotografa/modella distendersi quasi con sollievo dentro le forme naturali di rami, di alberi, di fiumi. Il corpo-ritratto di Woodman si delinea allora come mutevole e complesso, in qualche modo indefinibile, come se si irraggiasse in una palette cangiante di identità multiple, affini e tuttavia distinte. Così in uno scatto privo di titolo (Providence, 1976) l’identità di lei si frammenta nelle fattezze di tre modelle – una delle quali è lei stessa – che, nude, sorreggono all’altezza dei volti una fotografia del viso dell’artista, sì da rendere quasi impossibile distinguere chi delle tre sia Francesca. Sul lato sinistro dell’immagine, appesa al muro, un’altra fotografia di Woodman. La corrispondenza tra l’immagine e il referente reale – chi guarda, e verso che cosa? L’origine del gesto di visione è anche dentro l’immagine, e dove? Che cosa abbiamo davanti agli occhi? − qui si allenta fino a dissolversi, sospendendo le convenzioni identitarie e riverberandosi su chi osserva così da renderne sfumata e indefinita la posizione.

Giacché s’incarna e prende posizione davanti al suo obiettivo, quello della fotografa è anche un corpo performativo: «Just out of sight, she is the field of experience, tiny, fragile, slid just beneath the skin», ha scritto Rosalind Krauss in uno dei contributi fondanti sul lavoro di Woodman.[10] Nascosta e al contempo al centro della scena, la figura dell’artista si fa strumento della visione, in un osservare se stessa che non cede al narcisismo ma che mostra – ancora con Krauss − «a sense of self as a medium, a conduit, a plane of passage».[11] L’artista manipola spesso il proprio corpo, pizzicandolo con mollette da bucato o inguainandolo in strisce di plastica per dare spessore al proprio agire nello spazio, oppure ancora sgranandolo nella sfocatura ottenuta con un’esposizione prolungata: e finendo così per slabbrare la propria identità, tagliando fuori il volto relegandolo nello spazio del fuori campo e, al contempo, lavorando più sull’agire e sul trasformarsi che sulla definizione di un’essenza univoca.

 

3. Album con didascalie, e una spy story

Per parte sua, il film The Woodmans mette a tema la relazione tra la soggettività tenace della pratica artistica della fotografa e il racconto della storia di lei narrato da più prospettive, esterne e giustapposte, che si dipanano dentro i volti e nelle parole di coloro che prendono parola per raccontarla, in uno dei modi tradizionali del biopic.[12] Così, ad esempio, la prima sequenza, che alterna nel montaggio le immagini di un filmato girato dall’artista a un’intervista al padre di lei.[13] Woodman appare nuda, il corpo appena celato da un pannello di carta traslucida dove scrive il suo nome a grandi lettere. Poi la sua mano strappa la carta, frantumando la scritta, e l’artista/attrice esce dall’inquadratura senza che se ne veda il volto, in una tensione tra soggettività esibita e offuscata. È centrale qui, ancora una volta, l’io che si mostra e insieme si nasconde, che appare affermarsi con decisione nei caratteri maiuscoli e al contempo rifugiarsi nello spazio sicuro e oscuro del fuori campo. Questa sequenza entra in risonanza con una riflessione ricorrente nel pensiero femminista, ovvero il ridursi del corpo femminile a pagina bianca, portatore e non produttore di un significato che viene inscritto su di esso. In voce over e poi in primo piano, a dialogare con le immagini del filmato d’artista, il padre commenta – in tutta evidenza dopo molto tempo dalla morte della figlia e con tono assertivo e severo – il lavoro di lei, identificandolo senz’altro con il desiderio della fotografa di mettersi al centro della scena.[14]

Mi pare di poter affermare che in molte sue parti il film rilegge le opere di Francesca Woodman in modo analogo a quanto accade in questa prima sequenza. Le parole del padre impongono un’interpretazione univoca alle immagini, come chiudendole in una lettura data e indiscutibile. Così, lungo tutto il film, le fotografie di Woodman formano una sorta di commento muto, ma resistente, al dipanarsi del racconto. Ogni capitolo dell’esistenza dell’artista è raccontato dalle voci delle interviste e ribadito dalle immagini, che confermano quello che le parole dicono senza mai cercare un controcanto o contrappunto ma al contrario sovrapponendosi pressoché alla perfezione con le parole, legando in un nodo stretto l’arte di Francesca alla sua biografia così come si desidera raccontarla.

Un esempio della dinamica appena descritta è la ricostruzione drammatica del suicidio. Alle parole di lei che si disegnano sullo schermo evocando una frattura interiore profonda («Mi vedo del tutto insignificante, ogni giorno di più. Non so se potrò sopportare un altro anno di disonestà») si sovrappongono fotografie che sembrano quasi voler dare forma figurativa a quella morte. Sullo schermo scorre la serie Angel, dove una figura fantasmatica sembra allontanarsi dal corpo di Francesca che la osserva incuriosita, come un’anima fuggevole dopo la morte; poi compaiono gli scatti dedicati al corpo della fotografa inguainato in una pellicola trasparente che ne sfuma i lineamenti, accanto a una libreria vuota, sugli scaffali una stoffa appallottolata, a incanalare l’immagine dentro il rimando ovvio al caos di un’esistenza senz’ordine, desiderosa di soffocarsi; infine, il corpo immobile di Francesca disteso a terra allude, didascalico e morboso, alla morte dell’artista, che ha scelto di andarsene gettandosi dal tetto di un palazzo.

Una strategia per certi versi opposta appare in The Fancy. Elizabeth Subrin ricostruisce la biografia di Woodman in un racconto per parole e immagini che all’uso ridondante degli scatti di The Woodmans sostituisce la loro mancanza. Le opere dell’artista non compaiono in nessun fotogramma; ne ascoltiamo la descrizione da parte di una voce over, in una ekphrasis accurata che s’incarica di evocare immagini che rimangono nel fuori campo del film. Le sequenze si dipanano alternando riprese di modelle che performano le fotografie dell’artista, replicandone le pose in ambientazioni scarne (stanze vuote, muri spogli), a lunghi carrelli che scorrono – talvolta fermandosi a isolarli in primo piano – su oggetti che potrebbero essere appartenuti a Woodman, o essere comparsi nelle sue foto.

Francesca Woodman, Girl with Weed, 1980

Così, ad esempio, il film evoca il trittico Girl with Weed (New York, 1980), uno degli ultimi blueprint dell’artista. La voce narrante riporta la descrizione di quelle immagini evocandole nei dettagli. Nel pannello di sinistra compare la testa di una figura androgina con gli occhi chiusi, una luce forte a cancellarne in parte i lineamenti; al centro, una libellula si posa su una saponetta, un ciuffo d’erba disposto ad arco nella parte alta dell’immagine; sulla destra, un nudo femminile, il volto immerso nell’ombra, regge accanto a sé, il braccio sinistro teso verso l’alto, lo stesso ciuffo d’erba che sfiora il bordo della fotografia. La voce narrante prosegue riportando come il padre George, a commento di quell’immagine, ricordasse di aver detto alla figlia piccola che una libellula le avrebbe cucito le labbra se lei avesse detto una bugia; ne risulta un’evocazione inquietante, una sorta di patina di ambiguità che si distende su un’immagine che può solo essere immaginata e che accoglie la suggestione pungente di un ricordo dagli echi traumatici. Ad accompagnare il racconto, la camera scorre su oggetti che avrebbero potuto far parte della vita o delle opere dell’artista. Abiti, scarpe, vasetti di crema, conchiglie, libri, farfalle chiuse in piccole teche, nastri registrati: la sequenza sembra raccogliere i resti, quasi i detriti di una vita, chiusi in buste trasparenti come fossero le prove di un crimine. E l’andamento del filmato è quello di un noir o di una detective story: Subrin s’interroga su chi sia stata Francesca, sulle modalità con le quali si è narrata la sua esistenza all’indomani della scomparsa, e sul motivo che ancora conduce Betty e George Woodman a mostrare soltanto una parte dei lavori della figlia.

Fotogramma dal film The Fancy (Elisabeth Subrin, 2000)

All’eccesso di visibilità di The Woodmans risponde allora una strategia di sottrazione: le parole non raddoppiano le immagini fino a chiuderle in un significato statico e univoco come nel film di Willis, ma richiamano alla memoria di chi guarda quegli scatti, suggerendone i motivi sia nella riproposizione delle pose fotografiche che, soprattutto, nell’indugiare sulle forme delle cose. Nel suo alludere già dal titolo a un capriccio, ma anche a un’ipotesi e finanche a un inganno, per certi aspetti è come se The Fancy svelasse, o cercasse di farlo, il mistero che appare avvolgere la vita e la morte drammatica dell’artista, portando alla luce le contraddizioni della narrazione divistica impostata dalla famiglia Woodman che sembra incastonare in maniera univoca, imprigionandola, la figura seducente e malinconica della figlia; narrazione che trova poi una forma compiuta in The Woodmans, dove, si è visto, il ritratto d’artista mette a tema il cliché del talento precoce sfiorito in una morte prematura, affermato dal racconto e confermato senza esitazione da un uso alla fine dei conti arbitrario di fotografie e pagine di diario.

In qualche modo, dunque, entrambi i film offrono una lettura parziale del percorso esistenziale e creativo di Francesca Woodman, sebbene con modalità diverse. The Fancy privilegia la dimensione dell’assenza e del mistero, in quello che appare quasi un atto d’accusa verso la famiglia di lei, giocando sulla sostituzione radicale delle immagini d’autrice. The Woodmans, invece, dà voce proprio alla famiglia e apre al dispiegarsi degli scatti sullo schermo, come se il film sfogliasse l’album di quelle fotografie porgendole a chi guarda e accompagnandole con racconti-didascalie che finiscono per squadernare quelle immagini e privarle di profondità. Nell’uno e nell’altro caso lo sguardo di Francesca resta in sottofondo, come ridotto al silenzio. Assente in The Fancy, riletta e depotenziata in The Woodmans, la visione della fotografa si mostra appena. Il desiderio di osservare, e di osservare quello che desidera – le molteplici versioni di se stessa, nel mondo – che muove quello sguardo resta visibile a malapena, come chiuso sotto una lastra di ghiaccio a pelo d’acqua.

 

4. Palinsesti e metamorfosi

A ben guardare è forse proprio da quella forma acquorea e indistinta lasciata affiorare dai racconti, divergenti ma in fin dei conti affini, dei due film dedicati al racconto dell’artista scomparsa, che può emergere una suggestione feconda. Per dirla altrimenti, in particolare il film The Woodmans − forse suo malgrado − lascia trasparire per brevi tratti la relazione profonda tra cinema e fotografia, specie quando quest’ultima si declina nei modi della ridefinizione di un’identità poliedrica.

Per tentare di cogliere quel legame possibile vorrei partire da un testo di Jean Epstein scritto a ridosso del suo film più celebre, La caduta della casa Usher, nel 1928:

 

Raramente si vede il senso di una vita prima della morte. Le trasparenze del cinematografo non vanno così dritte al fondo dell’anima come quelle della morte. Ma si accostano ad esse nella penombra, nella temperatura media della vita, quando l’anima distende le sue nuove, grandi membra contro le porte d’osso del suo tempio di epidermide. Questa fotografia delle profondità vede l’angelo nell’uomo come la farfalla nella crisalide. La morte ci fa delle promesse attraverso il cinematografo.[15]

 

Le parole del regista francese mettono a tema la tensione rivelatrice dell’immagine cinematografica giacché la leggono come dotata di una capacità di visione simile a quella posseduta dalla morte, sebbene meno definitiva e tenebrosa, intesa a rivelare il «senso di una vita», dunque a sfilare dall’ordito dell’esistenza il filo della soggettività. Sullo schermo apparirebbe allora un universo «in penombra» dove sarebbe possibile scorgere il senso di ogni forma di vita. Non però in maniera univoca: il film – macchina pensante in grado di costruire un tempo e uno spazio inediti e indipendenti dalle categorie che regolano il quotidiano – saprebbe, sempre stando alla riflessione epsteiniana, far emergere la natura multiversa e poliforme dell’identità, più simile a un liquido vischioso e malleabile che a una forma geometrica stabile:

 

L’individualità è un complesso mobile che ognuno deve, più o meno consapevolmente, scegliersi e costruirsi, risistemare in continuazione a partire da una diversità di aspetti che sono anch’essi lontani dall’essere semplici o permanenti, e nel cui insieme, quando sono troppo numerosi, l’individuo riesce difficilmente a definirsi e a conservare una forma precisa. Allora, la supposta personalità diventa un essere diffuso, di un polimorfismo che tende all’amorfo e che si dissolve nella corrente delle sue acque-madri.[16]

 

I motivi della natura fluida dell’esistere e della metamorfosi – la crisalide e la farfalla, l’angelo e l’uomo, il «tempio di epidermide» e l’anima, il flusso altalenante tra vita e morte, andirivieni incessante tra organico e inorganico che vede una dimensione liquefarsi nell’altra – innervano questi scritti come poi molte delle immagini epsteiniane; e mi pare di poter ravvisare una tensione analoga verso i motivi dell’indagine dentro le identità polimorfe nelle fotografie di Woodman, che trovano poi nello sguardo della cinepresa di The Woodmans una eco e un rilancio.

Fotogramma dal film The Woodmans (Scott Willis, 2010)

In due distinte inquadrature del film le fotografie di Woodman si fondono con i luoghi dove sono state scattate, con i colori della pellicola, ripresa al presente, a circondare il bianco e nero dello scatto, nel passato. Nella prima il quadro è diviso in tre parti in senso verticale, come una predella, o come nelle ultime opere di lei che spesso adottano una forma tripartita. Ai lati la ripresa a colori comprende la campagna che circonda la casa dei Woodman in Toscana, con il padre di Francesca, sulla destra, mentre passeggia tra gli ulivi; al centro, sovrimpresso e in bianco e nero, uno scatto di Woodman dello stesso luogo, con la figura di lei seminascosta da un telo bianco. La seconda inquadratura lavora sulle linee orizzontali e vede la ripresa della piscina di pietra del casale, dove s’intravedono la figura della madre dell’artista e quella di un ragazzino, nipote di Francesca, circondare la parte centrale dello schermo occupata dall’immagine fotografica in bianco e nero scattata, questa volta, in un altro luogo (a Boulder, in Colorado). A fondersi sono i due specchi d’acqua, quello del presente delle riprese e il fiume che occupa la parte bassa della fotografia; al centro il corpo di Francesca, disteso e semisommerso, sembra prolungare le radici ramificate di un grande albero che si protendono nell’acqua.

Fotogramma dal film The Woodmans (Scott Willis, 2010)

Nella prima immagine la compresenza di pellicola e immagini fotografiche apre alla coesistenza di tempi diversi in uno stesso luogo a evocare la presenza nell’assenza: il fantasma di ciò che è stato fa capolino nelle pieghe dell’oggi. La traccia umbratile di Francesca si muove lungo i sentieri che ha percorso, e tuttavia la sfasatura segnalata dal passaggio tra colore e bianco e nero rimarca l’assenza del corpo di lei, reso ancora più sfuggente dal telo bianco che lo ricopre quasi del tutto. Del resto il motivo del volto nascosto ricorre sovente negli scatti di Woodman. Così nella serie Self Deceit, composta a Roma nel 1978, il corpo nudo dell’artista – in piedi, frontale e di spalle, oppure accoccolato a terra − si disegna sui muri scostati di stanze spoglie; il viso è coperto da un frammento di specchio rettangolare che riflette il vuoto. Lo specchio torna negli scatti dal titolo A Woman, a Mirror; A Woman Is a Mirror for a Man (1975-1978), dove è la sfocatura dell’immagine a rendere illeggibili i lineamenti di lei, ripresa nell’atto di alzarsi da terra, alle sue spalle uno specchio sulla sinistra e una grande finestra sull’altro lato, sullo sfondo una libreria vuota.

Mancanza del volto, ma anche del corpo: a ben guardare, quasi tutti gli scatti di Woodman lavorano sul ricorrere del tema dell’angelo, a partire dalla serie già citata Angel, e realizzata a Roma tra il 1977 e il 1978. Qui il corpo dell’artista appare solo dalla vita in giù, le gambe divaricate con i piedi a terra, e insieme si dissolve nell’impronta lasciata nel fango, a forma di V rovesciata, a comprendere nello stesso spazio l’esserci e il non esserci più. Una dinamica analoga affiora in una fotografia scattata a Providence nell’autunno del 1976 e lasciata senza titolo, dove la figura dell’artista, seduta, è tagliata a metà dal bordo superiore dell’immagine: vediamo solo le gambe nude e le scarpette nere, nell’angolo in alto a destra dell’immagine, davanti alla silhouette scura del corpo di lei, ritagliata sul pavimento chiaro;[17] impronta fuggevole del corpo che trova una eco suggestiva, in quel giro d’anni, nella serie Siluetas (1973-1980) della fotografa cubana Ana Mendieta, dove il corpo dell’artista appare dissolversi in forme e materiali che lo evocano: legno bruciato, sabbia erosa dalle onde, muschio, prato, rocce, rami, fiori, lastre di ghiaccio e dove, parimenti, lo spazio tra vita e morte sembra restringersi fino ad annullarsi.[18]

Francesca Woodman, Senza titolo, Providence, 1976 Ana Mendieta, Sin titulo (Siluetas), 1976

Dunque il motivo dell’«angelo nell’uomo» evocato dal testo di Jean Epstein sembra proporsi già nelle fotografie, dove non pare di poter distinguere l’assenza dalla presenza, in una «penombra» che confonde la vita e la morte. La pellicola del film raccoglie quel motivo e lo rilancia giacché la composizione del fotogramma aggiunge alla foto uno strato ulteriore di tempo e fa risuonare in modo ancora più acuto l’eco di un tempo trascorso nelle stanze dell’oggi, come ad amplificare il suono sommesso di passi perduti. La figura dell’artista si mostra e si nasconde negli scatti poiché fa coincidere lo sguardo su di sé con il suo offrirsi e celarsi agli occhi dell’altro; il film sovrimprime, alla lettera, il nostro guardare su quello di lei e inscrive nel presente un momento passato, così da costruire una sorta di palinsesto di cronologie e visioni percorribili in ogni direzione, dalla crisalide alla farfalla e dallo sguardo dell’artista verso di noi, e viceversa. Quella del film appare allora davvero una «fotografia delle profondità»: lo stesso luogo accoglie strati di tempo discontinui e tuttavia coesistenti che si stagliano gli uni negli altri lasciando affiorare, ancora con Jean Epstein, le «promesse della morte».

La seconda inquadratura, descritta poco sopra, accosta le due case dove Woodman ha trascorso l’infanzia, quella di famiglia a Boulder, in Colorado, e il casale delle vacanze nella campagna fiorentina. Due spazi distinti ma analoghi: luoghi dell’anima ad accogliere una riflessione per immagini sul polimorfismo dell’identità.

Il tema figurativo della metamorfosi, si è detto, percorre molto del corpus fotografico di Woodman, in particolare negli scatti di Boulder tra il 1972 e il 1975, tutti privi di titolo. In una di esse l’artista si osserva mentre le sue membra, rannicchiate, il volto coperto, si confondono con il fango del letto di un fiume, in una sorta di campo lungo che confonde l’orizzonte grigio con la terra scura e segnata da crepe profonde. Un’altra immagine, più tarda – realizzata alla McDowell Colony, a Peterborough nel New Hampshire, nell’estate del 1980 − vede la fotografa riprendersi la nuca e le braccia tese verso l’alto, dritte, gli avambracci ricoperti di corteccia bianca di betulla, come fossero dei larghi bracciali; la linea diagonale degli arti riprende lo svettare degli alberi fino a confondere il corpo con le forme vegetali.[19] Ancora: in uno scatto della prima metà degli anni Settanta ad Andover, in Massachusetts, il corpo di Woodman, disteso su un fianco in avampiano, nasconde la testa nell’antro oscuro del tronco scavato di un grande albero, tra i sassi chiari e una pozzanghera traslucida. Infine uno degli ultimi lavori dell’artista, Temple Project, lavora sui corpi femminili che si fanno statue, cariatidi moderne dove la carne si pietrifica nelle forme architettoniche.

Così la fotografia riprodotta in sovrimpressione nel film confonde le membra e i capelli di Francesca con le radici dell’albero che si allungano nel fiume, in una continuità tra forme vegetali e corporee non priva di un certo afflato erotico e per altri versi memore della Ophelia di John Everett Millais. Qui lo spazio si fa incarnato e aptico, reso tattile dalla presenza pervasiva del corpo che si fonde con l’organicità dell’universo vegetale, profilo dalla consistenza sfaldata che si amalgama con il circostante. Nelle parole di Giuliana Bruno, «in quanto funzione della pelle, l’aptico, derivato dal tatto, costituisce dunque il mutuo contatto tra noi e l’ambiente, entrambi ricettori e portatori di un’interfaccia comunicativa»;[20] così l’io si scioglie nelle cose del mondo. Di nuovo, l’architettura stratificata dell’inquadratura cattura il motivo del processo di continuo divenire che innerva le fotografie raddoppiandolo e rilanciandolo. Alla confusione di braccia, gambe, capelli, terra, fango, corteccia, pietre che rende il corpo un’estensione dell’universo vegetale si giustappone la mescidanza portata dal film di tempi e luoghi; lo spazio dell’infanzia si sdoppia tra Boulder e la campagna toscana, la silhouette del corpo di Francesca immerso nell’acqua si confonde con i corpi attuali della madre e del nipotino. L’immagine delinea una sorta di genealogia, di linea ereditaria e insieme metamorfica, che ancora una volta trova una eco suggestiva nelle parole di Jean Epstein, che nel descrivere il potere rivelatore dell’immagine al ralenti afferma:

 

Nell’individuo si libererà quella costante chiamata personalità. Nella famiglia raccoglieremo i segni di quell’angelo chiamato ereditarietà. Si potrà scrivere chiaramente il conflitto tra due linee di sangue. Si vedranno i segni del loro compimento e della loro morte apparire nelle nuove generazioni, crescere lentamente insieme a loro. Vedremo che la salute non è altro che l’equilibrio tra diverse malattie benigne e necessarie. Vedremo che la vita e la morte vanno insieme, giocano tra di loro, si avvisano di tutto, non possono mai lasciarsi.[21]

 

Al palinsesto dei tempi si sovrappone quello delle identità. L’immagine del cinema, secondo Epstein, assomma e confonde tempi e stadi diversi dell’esistenza; così la soggettività dell’artista sembra dissolversi nella grana delle due pellicole, fotografica e del film, non per scomparire ma per rifrangersi e moltiplicarsi. L’io – e lo sguardo su di sé – si fanno fluidi, forme acquoree avvolgenti e cangianti: il lavoro sulla maschera che, pure, appare in molti scatti di Woodman si declina qui non nel nascondersi del volto dietro uno specchio, un’altra fotografia o un calco in gesso del viso, ma nel suo sciogliersi in una consistenza meno tenace e più malleabile.[22]

Dunque nel sovrapporsi a un’altra pellicola, quella del film, le immagini fotografiche sembrano trovare una sorta di specchio o lente che le rilancia e le rimanda verso chi guarda per via dei caratteri analoghi dei due media, ovvero quelli che affiorano dallo scritto di Epstein: la capacità della pellicola di portare alla luce il moltiplicarsi delle identità e il carattere metamorfico dell’esistere. Allora le immagini del cinema fanno da camera di risonanza alle posture e alla messa in scena di sé che traspare dalle foto di Woodman e ne rimandano la forza visiva ed emotiva rendendola ancora più incisiva. La «doppia rappresentazione» offerta dai fotogrammi di The Woodmans finisce per lasciar affiorare una forma di empatia tra chi guarda e le immagini fotografiche resa ancora più penetrante dalla ripresa sullo schermo, che − per dirla ancora con Giuliana Bruno − «diventa onnicomprensivo e, da essere fatto di luce, si trasforma in un vero e proprio ambiente, riecheggiante di risonanze».[23]

Mi pare stia in questo, per concludere, il punctum del film The Woodmans. Da una successione di immagini che rimane in gran parte didascalica ed elencativa e dunque incapace di restituire la complessa tessitura della figuratività di Woodman emergono, quasi all’improvviso, due inquadrature che aprono uno squarcio inatteso e compongono, nel compenetrarsi di fotografia e pellicola, un ambiente visivo e sonoro capace di convocare l’emotività di chi guarda con un’intensità fuori dal comune. A spiccare è la natura affine di cinema e fotografia, dove le immagini sono come crisalidi: identità in potenza e cronologie in divenire, motivi che sembrano trovare nel passaggio dal nitrato d’argento allo schermo di luce un rilancio che le moltiplica e le distende su chi le osserva. Così, se «la morte ci fa le sue promesse attraverso il cinematografo», come vuole Epstein, il giustapporsi di fotografia e schermo dona a quella promessa un’incisività ancora maggiore giacché amplifica il portato affettivo delle immagini porgendole a chi desideri osservarle e sia disposto a lasciarsene avvolgere.


1 La bibliografia su Woodman è ormai decisamente ampia. Oltre ai testi citati nelle note che seguono mi limito a ricordare Ph. Sollers, D. Levi Strauss, E. Janus, S. Rankin, Francesca Woodman, Zurich, Scalo Verlag, 1998; C. Townsend, Francesca Woodman. Scattered in Space and Time, London, Phaidon, 2006 e, tra i contributi in italiano, R. Caruso, C. Casorati (a cura di), Francesca Woodman. Providence, Roma, New York, Roma, Castelvecchi Arte, 2000; I. Pedicini, Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola, Roma, Contrasto, 2015; V. Vituzzi, Francesca Woodman, Doppiozero, 2013, ebook.

2 Le vicende che hanno portato alla costruzione della fortuna mediatica delle due artiste sono variegate e certo non completamente sovrapponibili. La fama di Woodman ha preso slancio dopo la morte della fotografa, ma di seguito a un procedimento da lei stessa avviato – studi dedicati, organizzazione di mostre, pubblicazione di testi – e inteso al formarsi di una carriera artistica; quando il caso di Maier è dipeso in gran parte da una impalcatura narrativa del tutto estranea alle scelte di vita della donna. In entrambi i casi, tuttavia, mi pare di ravvisare la tendenza comune al formarsi di un’aura di leggenda intorno a figure di artiste scomparse, per una personale e tragica decisione o poiché rimaste invischiate nelle pieghe della vita quotidiana, facendo leva sul fascino a tratti anche morboso di una ineluttabile invisibilità e grazie anche al ruolo giocato dal medium cinematografico – nel caso di Maier il film Finding Vivian Maier (John Maloof, Charlie Siskel, 2014), che mescola il fascino della detective story all’indubbia attrattiva del lavoro dell’artista in un prodotto narrativo dal meccanismo consolidato e di sicuro richiamo.

3 Il film di Subrin è stato presentato in svariati festival internazionali ed è disponibile in DVD (edizioni VideoDataBank); un estratto è visibile in rete, [accessed 15.06.2020].

4 Il film è distribuito in DVD da Lorber Films, 2012.

5 Cfr. S. Sontag, ‘A Photograph Is not an Opinion. Or Is It?’, in Ead., A. Leibovitz, Women, New York, Random House, 1999. Non si contano gli studi sulla relazione tra sguardi di donne e fotografia; mi limito a citare il seminale A. Tucker, The Woman’s Eye, New York, Alfred A. Knopf, 1979. Infine, per una riflessione sul connettersi di cinema e fotografia e una panoramica ampia sui modi dell’adattamento, inclusa la fotografia, cfr. M. Rizzarelli, Amore e guerra. Percorsi intermediali tra letteratura e cinema, Lentini, Duetredue, 2019.

6 Frase citata in M. Pierini, ‘Dialogo a una voce’, in Id. (a cura di), Francesca Woodman, Milano, Silvana Editoriale, 2010, p. 14.

7 Ringrazio chi ha rivisto l’articolo per aver suggerito questo seducente accostamento.

8 Cfr. A. Solomon-Godeau, ‘Just Like a Woman’, in Ead., A. Gabhart, R. Krauss (a cura di), Francesca Woodman. Photographic Work, Wellesley (MA), Wellesley College Museum, 1986, ora in A. Solomon-Godeau, Photography at the Dock: Essays on Photographic History, Institutions, and Practices, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994; in rete: [accessed 15.06.2020]. Una lettura polemica nei confronti di Solomon-Godeau si trova in C. Townsend, Francesca Woodman, e in G. Baker, A. Daly, N. Davenport, L. Larson, M. Sundell, ‘Francesca Woodman Reconsidered’, Art Journal, 62, 2, 2003, pp. 52-67.

9 A. Solomon-Godeau, ‘Just Like a Woman’.

10 R. Krauss, ‘Francesca Woodman: Problem Sets’, in Ead., Bachelors, Cambridge (MA), MIT Press, 1999, p. 172 (trad. it. di E. Volpato, ‘Francesca Woodman: Esercitazioni’, in R. Krauss, Celibi, Torino, Codice Edizioni, 2004). Cfr. anche R. Caruso, ‘Riflessioni nell’ombra. Ritratti e camouflage nell’opera fotografica di Francesca Woodman’, in L. Iamurri (a cura di), Autobiografia/autoritratto, Roma, Palombi, 2007.

11 R. Krauss, ‘Francesca Woodman: Problem Sets’, p. 173.

12 Tra i molti contributi sul genere biografico cfr. almeno R. Moine, Vies héroïques. Biopics masculins, biopic féminins, Paris, Vrin, 2017.

13 Cfr. I. Tejeda, ‘Ritratto dell’artista come adolescente. Francesca Woodman, strategie dell’impercettibile’, in M. Pierini (a cura di), Francesca Woodman, pp. 55-69.

14 Qui George Woodman richiama l’aspetto centrale della lettura del lavoro di Woodman offerta da A. Danto, ‘Darkness Visible’, The Nation, 15 novembre 2004, pp. 36-40.

15 J. Epstein, ‘Le cinématographe dans l’archipel’, Les Arts mécaniques, dicembre 1928, ora in Id., Écrits sur le cinéma, Paris, Seghers, 1976, I, pp. 196-200; trad. it. in Id., L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, a cura di V. Pasquali, Roma-Venezia, Biblioteca di Bianco e nero-Marsilio, 2002, p. 69.

16 J. Epstein, Le Cinéma du Diable, Paris, Melot, 1947; trad. it. in Id., L’essenza del cinema, pp. 177-178. Su Jean Epstein cfr. L. Vichi, Jean Epstein, Milano, Il castoro, 2003; C. Tognolotti, La caduta della casa Usher (Jean Epstein, 1928). Fotogenie, superfici, metamorfosi, Milano, Mimesis, 2020.

17 Appare qui pertinente la definizione di «fossili di luce» suggerita di recente da Beatrice Seligardi, nel loro essere segni misteriosi di un tempo pietrificato che si affaccia su un’altra temporalità (cfr. B. Seligardi, Lightfossil. Sentimento del tempo in fotografia e letteratura, Milano, Postmediabooks, 2020).

18 Non ho modo qui di percorrere altre corrispondenze suggestive tra il ricorrere del pensiero animista nei lavori di Mendieta e nella riflessione di Jean Epstein né, più in generale, sulla relazione tra cinema, animismo e fotografia, un campo di studi affascinante affrontato di recente, tra gli altri, in T. Castro, P. Pitrou, M. Rebecchi (a cura di), Puissance du végétal et cinéma animiste. La vitalité révélée par la technique, Paris, Presses du Réel, 2020.

19 Isabella Pedicini ricorda, a proposito di questo e di altri scatti, il ricorrere in Woodman della reminiscenza del mito di Apollo e Dafne (I. Pedicini, Francesca Woodman, pp. 97-104).

20 G. Bruno, Atlas of Emotions. Journeys in Art, Architecture, and Film, New York, Verso, 2002; ed. it. Atlante delle emozioni, Milano, Mondadori, 2006, p. 6.

21 J. Epstein, ‘Le cinématographe dans l’archipel’, p. 70.

22 Per il motivo della maschera vedi L. Fusi, ‘«You Cannot See Me from where I Look at Myself». La maschera nell’opera di Francesca Woodman’, in M. Pierini (a cura di), Francesca Woodman, pp. 165-169.

23 G. Bruno, Surfaces. Matters of Aesthetics, Materiality and Media, Chicago, University of Chicago Press, 2014; ed. it. Superfici. A proposito di estetica, materialità e media, Milano, Johan & Levi, 2016, p. 146.