Tramite la collega Irma Blank[1] nell’ottobre del 1976 Tomaso Binga, nom de plume di Bianca Pucciarelli, propone una mostra dei suoi ultimi lavori all’allora direttore della Biblioteca dell’Università di Amburgo, Rolf Burmeister. L’artista si dice pronta a realizzare «qualcosa di simile»[2] all’ambiente presentato alcuni mesi prima nella mostra Carte da parato, inaugurata il 17 maggio a Roma presso l’abitazione privata Casa Malangone.[3] In quell’occasione Binga aveva tappezzato per intero i muri della casa con rotoli di carta da parati a motivi floreali, sulla quale era intervenuta tracciando i segni grafici della sua scrittura ‘desemantizzata’, comparsa per la prima volta nel 1972 in alcune sculture appartenenti alla serie dei Polistirolo. In una lettera inedita spedita il 4 ottobre 1976 a Burmeister, Binga fa una breve ma efficace descrizione dell’opera:
La scelta di Binga di definire l’opera con il termine performance, a questa data, può apparire singolare: a Casa Malangone, infatti, l’artista non aveva ancora animato l’ambiente con l’azione Io sono una carta, come avrebbe fatto invece nelle successive riproposizioni dell’opera nel luglio del 1977 nell’ambito dell’esposizione Distratti dall’ambiente alla Prima Biennale d’Arte Contemporanea di Riolo Terme o nel 1978 nella seconda tappa della rassegna al Museo Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Più che riferirsi all’azione, concepita in un secondo momento, l’uso della parola performance si spiega quindi con il carattere contingente e transitorio dell’intervento stesso, progettato per uno spazio domestico destinato a essere vissuto e modificato, e con le componenti gestuali e corporee legate alla sua realizzazione. Data la natura effimera dell’opera, Binga avverte la necessità di documentarne anche il processo esecutivo, facendosi ritrarre al lavoro in una serie di fotografie scattate dall’architetto e fotografo Antonio Niego, confluite nel libro d’artista …& non uscire di casa[5] pubblicato a causa di ritardi editoriali soltanto nel 1977, ma già in cantiere nel 1976 grazie al supporto del poeta visivo Magdalo Mussio,[6] direttore artistico della casa editrice La Nuovo Foglio di Giorgio Cegna. Il volume, spesso trascurato dagli studi, fornisce chiavi di lettura utili per comprendere l’intervento a Casa Malangone e soprattutto per chiarire il perché Binga lo considerasse al pari di una performance. Definite da Binga come «un’analisi interpretativa dell’architetto Antonio Niego»,[7] le fotografie restituiscono infatti le componenti performative che caratterizzano l’opera. L’artista è colta in un incalzante corpo a corpo con lo spazio domestico: mentre traccia i segni della sua ‘scrittura silenziosa’ sui lunghi rotoli di tappezzeria distesi sul pavimento; in piedi su una scala mentre stende la colla sulle pareti; quando infine applica sui muri, rotolo per rotolo, la carta da parati. L’installazione, nella sua impermanenza, sopravvive attraverso la ripresa fotografica che, oltre a generare una nuova dimensione esperienziale e conoscitiva dell’opera, è anche un mezzo indispensabile per la sua storicizzazione. Da questo punto di vista l’ambiente a Casa Malangone pone dunque questioni interpretative non dissimili da quelle sollevate dalle numerose performance realizzate da Binga sin dagli esordi del suo percorso. Benché manchi a tutt’oggi una mappatura sistematica e a largo raggio sul contributo delle artiste italiane nel campo della performance, è indubbio che nella scena artistica degli anni Settanta Binga spicchi per la continuità e l’originalità con cui ha operato in questo ambito, nel segno di un’aperta adesione alle istanze del neofemminismo. La critica è concorde nell’assegnare un’importanza cruciale a questa fase del suo percorso,[8] ma alcuni episodi restano da chiarire. Anzitutto in che rapporto stiano le prime azioni video realizzate da Binga nel 1973 in occasione della mostra personale allo Studio Pierelli con le sue opere verbo-visive e con le più conosciute performance svolte nella seconda metà del decennio. Un interrogativo ancora aperto riguarda inoltre la direzione intrapresa dall’artista rispetto al panorama più generale delle esperienze performative e comportamentali diffuse nell’orbita della poesia visiva e tra le artiste italiane della sua generazione che, al pari di lei, operano sulle relazioni tra arte, azione e identità di genere. Condurre una ricognizione sulle prime performance di Binga attraverso lo studio incrociato di fonti fotografiche, fonti orali e scritte, tra cui molte lettere inedite, consente dunque di rileggere e approfondire una vicenda importante nel suo lavoro e di allargare lo sguardo ai nessi tra pratiche performative, linguaggi verbo-visivi e pensiero femminista nello specifico contesto artistico e culturale dell’Italia degli anni Settanta.