Dentro la scena di Fanny & Alexander: la trasposizione intermediale dell’Amica geniale

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Abstract: ITA | ENG

Da sempre vicini al mondo della letteratura, Chiara Lagani e Luigi De Angelis, fondatori della compagnia Fanny & Alexander, dal 2017 al 2019 hanno realizzato il progetto drammaturgico Storia di un’amicizia tratto dal ciclo di romanzi di Elena Ferrante L’amica geniale. Il presente saggio propone uno studio critico dei tre spettacoli che compongono il progetto: Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta. Data la forte matrice letteraria di queste produzioni sceniche, la prospettiva d’indagine adottata si colloca all’incrocio tra teatrologia e analisi letteraria, vale a dire nello spazio liminale proprio delle ricerche intersemiotiche. L’ambito epistemologico dei media studies, e le categorie di intermedialità, transmedialità e rimediazione, costituiscono infatti il frame teorico entro cui si sviluppa il contributo; partendo da una contestualizzazione del lavoro di Fanny & Alexander tra gli ‘effetti culturali’ prodotti dall’opera ferrantiana, per giungere ad un ampio affondo ermeneutico nelle sue strutture formali e tematiche. Facendo leva su una precisa costellazione di elementi (recitazione eterodiretta, gestualità coreutiche, fotografie e filmati in Super8, interpolazioni narrative) l’adattamento teatrale di Lagani e De Angelis acquista un autonomo valore espressivo, che rivela le potenzialità del transito dalla forma-romanzo alla forma-teatro, e con esse lo slancio libero e vitale dell’immaginazione drammaturgica. 

Always close to the world of literature, Chiara Lagani and Luigi De Angelis, founders of the Fanny & Alexander company, from 2017 to 2019 have realized the dramaturgical project Storia di un’amicizia taken from the cycle of novels by Elena Ferrante L’amica geniale. This essay proposes a critical study of the three plays that compose the project: Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta. Given the strong literary matrix of these stage productions, the perspective of investigation adopted is placed at the crossroads between theatrology and literary analysis, in the liminal space of intersemiotic researches. The epistemological field of media studies, and the categories of intermediality, transmediality and remediation, constitute in fact the theoretical frame within which the contribution is developed; starting from a contextualization of Fanny & Alexander’s work among the ‘cultural effects’ produced by the Ferrante’s novel, to arrive at a broad hermeneutic dig in its formal and thematic structures. Leveraging a precise constellation of elements (heterodirect acting, coreutic gestures, photographs and films in Super8, narrative interpolations) the theatrical adaptation of Lagani and De Angelis acquires an autonomous expressive value, which reveals the potentials of the transition from the novel-form to the theater-form, and with them the vital and free impulse of the dramaturgical imagination.

 

1. Transitare dalla pagina al palco: il progetto Storia di un’amicizia

La forza per ora insuperata della letteratura sta nella sua capacità di costruire organismi pulsanti alle cui vene, come a quelle del mitico Asclepio, chiunque può abbeverarsi cavandone vita o morte, altre opere di grande potenza o gracili e pallide. […] La forza della letteratura sta proprio in questa possibilità permanente di lettura sognante, di stimolo fantastico, di punto d’avvio per altre opere.[1]

Così Elena Ferrante, nella sua raccolta di interviste e saggi d’occasione La frantumaglia, descrive la potenza mitica del racconto letterario, ovvero la capacità congenita della pagina narrativa di farsi «rampa per il decollo»[2] dell’immaginazione.

Secondo la scrittrice, più esattamente, dalle relazioni che si instaurano tra testi e lettori nascono sempre dei «libri intermedi»,[3] altri racconti fabbricati dallo sguardo e dalla sensibilità di chi legge. Il nuovo «libro che si fa nel rapporto tra vita, scrittura e lettura […] diventa evidente soprattutto quando il lettore è un lettore privilegiato, uno che non si limita a leggere ma dà forma alla sua lettura, per esempio con una recensione, un saggio, una sceneggiatura, un film».[4] La feconda intuizione di Ferrante convalida la pratica principe della cultura artistica contemporanea legata alla ricezione romanzesca, ossia lo slancio intermediale[5] con cui, superate rigide divisioni di generi e forme, i lettori ‘privilegiati’ si appropriano delle strutture diegetiche e retoriche della comunicazione letteraria, per rimediarle[6] in una pluralità di codici espressivi. Dare forma all’immaginazione messa in moto dalla lettura è il privilegio di chi possiede un linguaggio artistico con cui compiere una traduzione: il passaggio dal corpus di parole dei testi d’origine, alla trama polimorfica[7] dei ‘libri intermedi’ intrecciata dai lettori.

Guidati dal viatico interpretativo delle parole di Ferrante, possiamo affrontare con consapevolezza l’oggetto d’indagine di questo studio, che all’«autrice invisibile»[8] è esplicitamente legato in quanto trasposizione intermediale, o ‘testo intermedio’, scaturito dal suo storytelling. Stiamo parlando del progetto teatrale Storia di un’amicizia (2017-2019) realizzato dalla compagnia Fanny & Alexander e tratto dalla saga letteraria di Ferrante L’amica geniale (2011-2014).[9]

Chiara Lagani e Luigi De Angelis, rispettivamente drammaturga-attrice e regista dello storico gruppo ravennate, da poco hanno ricevuto il Premio Ubu Speciale 2019 per il progetto Se questo è Levi: un riconoscimento che va a suggellare oltre venticinque anni di attività creativa contraddistinta dall’apertura intermediale e dall’azzardo performativo, da percorsi di ricerca diagonali, poliedrici, complessi. Nell’atlante di questo viaggio artistico, solido e sempre più ramificato,[10] spicca proprio l’attraversamento teatrale della saga di Ferrante, che filtra gli snodi essenziali della densa quadrilogia e, con una spericolata operazione drammaturgica, traduce le quasi duemila pagine dell’opera romanzesca nella forma scenica di tre spettacoli: Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta.

Tale progetto-impresa si inserisce in un doppio versante fenomenologico: da un lato fa parte della vasta congerie di opere teatrali derivate dalla forma-romanzo, vale a dire di produzioni sceniche tratte da testi non nati per la rappresentazione;[11] dall’altro si inscrive nello specifico novero degli ‘effetti culturali’ generati dal caso letterario più clamoroso degli ultimi anni.

Sembra che ci sia una «capacità immediata di empatia»[12] alla base del successo internazionale dell’Amica geniale di Elena Ferrante. Una capacità, spiega Tiziana de Rogatis,

al tempo stesso geniale e popolare […] di rappresentare un mondo corale di personaggi, relazioni e classi sociali. L’intensità di questa rappresentazione è tale da spingere più di dieci milioni di lettori non solo a commuoversi per le vite di quei personaggi, [ma anche] a divorare quell’ipotesi di mondo, ad abitarlo come se fosse reale.[13]

Oggetto di dibattiti mediatici e accademici, di saggi letterari e indagini cinematografiche, la cosiddetta ‘Ferrantefever[14] è un fenomeno globale tra i più vividi dell’odierno landscape culturale, l’effetto di una fortuna editoriale davvero emblematica e quasi senza precedenti (l’unico paragone che si può instituire è con il caso Gomorra di Roberto Saviano), che ad oggi vede la pubblicazione della saga in quarantotto Paesi e una crescente espansione transmediale[15] del suo universo narrativo. Dall’adattamento radiofonico della drammaturga inglese Timberlake Wertenbaker trasmesso su BBCRadio4 nel luglio 2016,[16] alla versione teatrale in due parti scritta da April De Angelis e diretta da Melly Still che ha debuttato nell’aprile 2017 (e che recentemente è stata riportata in scena dal National Theatre di Londra), fino alla serie televisiva ideata e diretta da Saverio Costanzo, coprodotta da Italia e Stati Uniti e trasmessa tra novembre e dicembre 2018,[17] la disseminazione transmediale dell’Amica geniale conferma appieno l’intuizione dei Wu Ming per cui, nell’attuale new italian epic «l’opera è destinata a trascendere misura e confini della forma romanzo […] e spesso le narrazioni proseguono altrove, si riversano nei territori di cinema, tv, teatro».[18]

Nel suo ‘smarginare’ dai contorni del libro per mutare in altre forme espressive il racconto di Ferrante pervade sempre di più l’immaginario mediale contemporaneo, spinto dalla potente carica empatica che è in grado di sprigionare. L’operazione scenica di Lagani e De Angelis, dunque, pertiene a una specifica tendenza in atto, e ribadisce la ‘transitorietà’ dell’opera dell’Amica geniale: la sua vocazione a fuoriuscire dagli argini del proprio formato mediale, per tracimare in altri formati.

Ma in cosa si caratterizza e contraddistingue il processo di trasposizione dalla forma-romanzo alla forma-teatro di Storia di un’amicizia? Quali sono le figure, le immagini, i temi che si staccano dai fogli dei libri per diventare corpi, gesti, luci e suoni dell’azione performativa?

Risponderemo a queste domande attraverso una ricognizione critica dell’intero progetto di Fanny & Alexander, che tenga insieme le sue strutture formali e tematiche e le ponga in relazione al modello narratologico di partenza. L’intento è mostrare quanto lo sconfinamento espressivo dalla pagina al palco riveli un ampio spettro di affinità, rielaborazioni e divergenze, configurandosi come una dinamica adattiva intermediale in grado di produrre un nuovo livello di significazione.

 

2. «Scrivimi. Voglio essere riempita dalle parole»

Incastonate in un grande affresco storico, Elena e Lila, le protagoniste dell’Amica geniale, attraversano le loro vite e il loro legame di amicizia dall’infanzia nella misera periferia di Napoli alla maturità, tracciando così una lunga parabola narrativa che va dal 1950 al 2010, ovvero dai sei ai sessantasei anni di entrambe.

Il nucleo del plot creato da Ferrante è l’amicizia femminile tra le due personagge,[19] un legame fondativo, intensissimo ma controverso, alimentato da «una fusione di trascendenza e immanenza: amore e astio, slanci ed egoismi, confessioni e segreti, convivenze e distacchi».[20] È facile intuire che nella «relazione narrativa»[21] che Ferrante mette al centro della trama trovi un immediato riconoscimento quella «relazionalità diffusa, concreta e quotidiana»[22] che tutti noi esperiamo. In altre parole, il fatto che la storia si basi su un evento umano universalmente vissuto e condiviso – l’amicizia tra due persone – determina un effetto di rispecchiamento al quale, grazie alla magnetica scrittura dell’autrice,[23] sembra impossibile sottrarsi.

L’incantesimo immedesimativo con le ‘amiche geniali’ ha catturato anche Chiara Lagani, la quale proprio nell’adesione emotiva al racconto individua la ragione che l’ha portata alla sua messa in scena. Nelle note di drammaturgia che accompagnano gli spettacoli Lagani insiste marcatamente su questo: scrive di «un complesso processo di identificazione»,[24] di «una tensione immedesimante […] sconcertante e completa», di un «millimetrico e speciale riconoscimento», che altro non è che «il riconoscimento di un’amicizia geniale, anzi di quell’amicizia geniale nella propria vita».

Per il lavoro di trasposizione scenica che la drammaturga ha in mente diventa allora un «vantaggio» che la sua «amica geniale fosse una straordinaria attrice, Fiorenza Menni». Fondatrice dell’ex compagnia Teatrino Clandestino e oggi alla direzione artistica di Ateliersi, Menni aveva già intrecciato il suo percorso con quello di Fanny & Alexander, ma in questo caso è la profonda amicizia con Lagani che la convince ad abbracciare il progetto, a dare forma scenica al transfert sentimentale dal rapporto di Elena e Lila, alla «relazione continuativa con quest’altra anima, sorella, specchio, femmina con cui confrontarsi».[25]

Il disegno interpretativo della quadrilogia ferrantiana comincia così a delinearsi come un duetto performativo delle amiche-attrici, plasmato dalla fatale contaminazione fra realtà e finzione, e da un processo di stilizzazione registica elaborato da Luigi De Angelis che colpisce per ampiezza di rimandi e nuclei simbolici.

Per liberare sul palco una visione autonoma del romanzo di partenza secondo Lagani occorreva anzitutto che la narrazione «si smagliasse (o si smarginasse) all’improvviso e lasciasse spazio al gonfiarsi repentino e provvisorio di una piccola bolla di mistero».[26] In una recente conversazione con Valentina Valentini la drammaturga ha ripreso il concetto di ‘mistero’ definendolo come «lo spazio che lasciamo tra noi e l’opera, tra lo spettatore e l’opera».[27] Intercapedine in cui rintracciare il senso personale e profondo delle suggestioni artistiche, il mistero per Lagani è dato anche dall’attrazione magnetica e imprevedibile dei materiali espressivi, dalla formula segreta che rende «ogni drammaturgia come un’alchimia speciale di elementi scelti, una specie di reazione chimica misteriosa ma inesorabile».[28] Se «al centro di queste reazioni ci sono sempre le vite degli attori»,[29] è pur vero però che nel procedimento alchemico-creativo di Storia di un’amicizia l’ingrediente lievitante è la narrazione di Ferrante, il terreno fertile di miti, simboli e archetipi su cui far crescere l’immaginazione drammaturgica.

A questo proposito, prima di scomporre l’architettura del trittico spettacolare, occorre inquadrare ‘metodologicamente’ la trasposizione intermediale di Lagani e De Angelis, in relazione alla sua cifra espressiva. Pur nella loro diversità di toni e registri, i tre lavori del progetto rispondono a una stessa, precisa traiettoria di ricerca: il metodo dell’eterodirezione.

Dispositivo di recitazione e di scrittura live ideato e utilizzato da Fanny & Alexander da oltre dieci anni, l’eterodirezione consiste nel trasmettere all’attore in scena una partitura verbale e fisica tramite l’impiego di auricolari. Le parole che egli deve pronunciare e i gesti che deve compiere sono pertanto ‘somministrati’ dalla regia in tempo reale, durante il corso dello spettacolo.

Laddove le tradizionali tecniche di recitazione si dividono tra le opposte varianti della devoluzione della coscienza dell’attore al personaggio, e del controllo consapevole, tecnicamente sorvegliato, dell’interprete sul comportamento del personaggio, la pratica dell’eterodirezione dischiude nuovi approdi per il lavoro attoriale. Essa infatti si regge su un equilibrio sottile tra una parte ‘lucida’ e una parte ‘addormentata’ della coscienza dell’attore, che Lagani descrive con la metafora di Gilles Deleuze della sentinella dormiente, che fa la guardia a se stessa, che sta vigile all’interno del suo sonno.[30] In preda all’ossimoro di un abbandono attento, l’attore eterodiretto abita il personaggio per via epifanica, tramite l’ascolto di una o più voci che gli entrano fisicamente dentro, che lo attraversano, che lo sottopongono ad uno stimolo sensoriale costante, lasciando su di lui un’orma/impronta – vocalica e posturale – del proprio passaggio. La tensione performativa dell’interprete allora sta tutta nel gioco di scarto tra il lasciarsi andare al condizionamento e l’affermare la propria reattività, tra la perdita della volizione e il rilancio creativo sotto forma di feedback. Sperimentare questa tensione ‘dipendente’, ‘delegante’, significa accogliere dentro di sé una presenza, essere parlati da un altro, obbedire nel senso etimologico di ob-audire una voce-identità, che si compone live per mezzo delle istruzioni impartite dalla regia.

L’estesa descrizione di questo dispositivo d’attore non è gratuita, ma funzionale a comprendere la peculiare strategia espressiva messa in atto dal gruppo nell’adattamento del ciclo ferrantiano. Qui, infatti, l’eterodirezione è specificatamente messa al servizio della scrittura letteraria, per restituirla nella sua ‘plasticità’, per mostrarne epifanicamente il fondo archetipo e metaforico. Indossando un ear-monitor le due attrici, Lagani e Menni, si fanno attraversare dal testo di Ferrante: non interpretano Elena e Lila ma si lasciano abitare dalle loro voci, impossessare dai loro ‘fantasmi sonori’, ‘incidere’ dalle loro impronte vocaliche; il tutto senza memorizzare alcun passo della narrazione verbale e scritta, ma introiettando e restituendo in tempo reale il suo complesso sistema polifonico, che intreccia costantemente la voce/punto di vista di Elena con la voce/punto di vista di Lila.

La rifrazione del testo letterario nella sintassi vocale e fisica di Lagani e Menni, nella concretezza materica dei loro corpi vivi, ridefinisce ed estende il paradigma dell’eterodirezione, che qui diventa processo dinamico di rappresentazione della parola, di condensazione nella visibile presenza delle attrici del vapore evocativo e immaginifico delle figure letterarie. In questo modo la scrittura narrativa si fa lettura ad alta voce – e quindi recitazione –, interiorità manifestata, ‘reificata’, resa accadimento fenomenologico dalla tessitura dei segni teatrali.

È alla luce di queste considerazioni che gli episodi di Storia di un’amicizia si possono intendere come dei racconti in forma di spettacoli, o degli spettacoli che mimano la pratica della lettura, in cui la fedeltà alla prosa di Ferrante, dettata da condizioni pratiche legate ai diritti d’autore,[31] da apparente limite si ribalta in possibilità: quella di farsi medium della storia, di ri-generare il testo-fonte nella frizione (specifica del metodo dell’eterodirezione) tra le identità dei personaggi e quelle di chi sta in scena.

La capacità di abbandonarsi agli «ordini sentimentali»[32] dettati dalla partitura verbale, e da quella di gesti collegata da De Angelis, equivale quindi all’ebbrezza liberatoria di uno ‘svuotarsi’, di farsi bianco-inizio, di accogliere e trasformare. Lo dice bene Lagani quando precisa che «in questo caso l’eterodirezione è centrale per il percorso di lettura mimata. Il mio pensiero prima di entrare in scena è “scrivimi, voglio essere riempita dalle parole”. Ed è proprio come se venissi abitata da un’amica geniale».[33]

È così che Fanny & Alexander realizza il suo personale adattamento dell’opera ferrantiana: nel segno di un dispositivo d’attore che svuota e riempie, che cancella e incide, che ridefinisce l’investimento performativo come riduzione a corpo vuoto di parole, pagina bianca votata a ricevere, desiderante la scrittura-lettura.

Fanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico Fedrigoli

 

3. Le due bambole

Se a livello formale è l’eterodirezione la tecnica adattiva dall’ipotesto dell’Amica geniale all’ipertesto di Storia di un’amicizia, sotto il profilo tematico il fulcro della trasposizione di Lagani e De Angelis è l’immagine-simbolo della bambola.

Nell’articolata diegesi del testo di Ferrante le bambole che le due protagoniste possiedono da bambine, Tina – quella di Elena – e Nu – quella di Lila –, si configurano al tempo stesso come punti di legatura della materia narrativa e fondamentali elementi macrotematici. La scrittrice «maestra nell’intreccio»,[34] infatti, nei quattro volumi della saga dispiega un plot decisamente complesso e dalla lunga durata temporale, ma che si apre e si chiude con le stesse bambole: prima con la loro scomparsa e poi, sei decenni più tardi, con la loro misteriosa riapparizione.

In qualità di «oggetti liminali del plot»[35] le bambole sigillano l’andamento circolare della narrazione ferrantiana, e così assumono una funzione semantica precisa nel disegno in fieri delle sue protagoniste. Se per de Rogatis nel romanzo «la bambola è il simbolo di una ciclicità che accoglie in sé l’amica, la bambinae la madre»,[36] altrove Ferrante ha espresso in termini ancora più estesi l’ancestrale portato evocativo di quest’oggetto. Ne La frantumaglia, ben prima di pubblicare l’Amica geniale, l’autrice dichiara: «So poco della simbologia delle bambole, ma mi sono convinta che esse non sono solo la miniaturizzazione dell’essere figlie. Le bambole ci sintetizzano come donne, in tutti i ruoli che il patriarcato ci ha assegnato».[37]

Come in una rete di fatali coincidenze,[38] la centralità pluri-simbolica della bambola, non solo nella quadrilogia ma in tutta l’opera di Ferrante,[39] si pone in esplicita risonanza con gli archetipi fondativi della compagnia ravennate: quello dell’infanzia e quello del gioco, entrambi da intendersi come attenzione alla valenza metaforica delle fiabe, come recupero di uno sguardo infantile e di un agire ludico-creativo contrapposti al mondo degli adulti.

Per Lagani, allora, proprio le bambole Tina e Nu rappresentano il faro che getta luce su tutta la storia, la chiave di volta per entrare, in modo «mostrativo o rappresentativo»,[40] nel suo meccanismo narratologico. Da qui la scelta di incentrare il primo spettacolo del progetto, Le due bambole,[41] sull’episodio della loro perditada parte di Elena e Lila, e del loro tentativo di recupero.

La microstoria che apre il ciclo dell’Amica geniale sigla il patto di amicizia tra le due protagoniste all’insegna della sfida reciproca: mentre giocano nel rione, prima Lila sottrae la bambola a Elena e la getta in uno scantinato buio, subito dopo Elena fa lo stesso con quella di Lila. Lo scantinato in questione è quello di Don Achille, l’orco del quartiere, e le due bambine soltanto alleandosi riescono a trovare il coraggio di andarle a cercare, e in seguito a reclamare.

Lagani e De Angelis non solo intercettano il valore emblematico di questo episodio, cioè l’innesco del «tempo magico»[42] dell’‘amicizia geniale’, ma soprattutto ne colgono il livello più ‘basico’ e archetipo, legato alla discesa nell’oscurità spaventosa dello scantinato, in un luogo dell’orrido in cui prendono vita le paure dell’infanzia. Il «realismo misterioso del sottosuolo»[43] della narrazione ferrantiana si propaga e amplifica nella composizione drammatica di Fanny & Alexander, e coincide con l’allestimento di uno spazio-tempo astratto e metaforico, in cui le identità delle due amiche arrivano a ‘smarginarsi’ in quelle delle bambole.

Non casualmente parliamo in termini di smarginatura, ma in preciso riferimento all’uso che Ferrante fa di questa parola all’interno della quadrilogia. Smarginatura, infatti, è parola-tecnica della scrittrice partenopea e sul piano formale e tematico presiede la saga dell’Amica geniale. Tale neologismo semantico (ottenuto tramite un allargamento e una specializzazione del significato tipografico del termine) indica un’esperienza traumatica di perdita del confine che definisce le forme, un momento percettivo epifanico in cui l’ordine intellettuale delle cose si scompone, si sfalda, si trasfigura. Pur sperimentata anche da Elena, la smarginatura è un’esperienza intimamente vissuta soprattutto da Lila, quasi che tutta la sua vita in fondo consista «in una difesa, attraverso forme fintamente stabili, contro lo sprofondare “in una realtà pasticciata, collacea”».[44] È durante la notte di Capodanno del 1958 che, in un contesto di festeggiamenti in terrazzo e fuochi d’artificio, la giovane avverte per la prima volta «entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa».[45] A ben guardare tale energia distruttivo-creativa, come ha notato opportunamente de Rogatis, plasma anche il rapporto tra le due protagoniste, vissuto come «una metamorfosi inarrestabile»[46] in cui sono continuamente «formate, sformate, riformate».[47]

La stessa tensione trasfigurante, la stessa «visionarietà magica e orrida»[48] della smarginatura descritta nel romanzo si ritrova nel racconto scenico di Fanny & Alexander, in cui il fantasmatico archetipo delle bambole sembra ‘fuoriuscire’ da un’instabilità metamorfica, da una ‘smagliatura’ dei propri confini corporei esperita da Elena e Lila.

Secondo una precisa intenzione drammaturgica lo spettacolo si divide in due sintagmi distinti. Nella prima parte Lagani e Menni, di bianco vestite, si stagliano con nettezza in un buio prospettico, come due corpi ipostatici, due figure bidimensionali. Situate in questa ‘scatola nera’ ricevono negli auricolari le parole del romanzo, lette e registrate dalle loro stesse voci, e una partitura di indicazioni gestuali, scandita in diretta da De Angelis.

La particolarità dell’eterodirezione, in questo caso, consiste nell’alternare nelle orecchie di ciascuna attrice la voce di Lagani-Elena con quella di Menni-Lila, determinando così una sorta di cross-feeding, di lento e intermittente scambio di identità che procede dalla mescolanza delle due voci. In tal modo la tecnica recitativa ricrea la ‘divaricazione’ della voce narrante di Elena, effetto della strategia «polifonica, duale»[49] della scrittura romanzesca, per cui la sua narrazione continuamente «si sdoppia in quella dell’amica».[50]

La focalizzazione mobile adottata da Ferrante, ovvero l’oscillazione dal punto di vista di Elena (voce narrante o meglio ‘io scrivente’) a quello di Lila (io raccontato dall’amica anche attraverso la lettura dei suoi scritti)[51] è resa scenicamente da questa calibratissima sintassi vocale, in cui le loro voci/identità si alternano, si incrociano, si sovrappongono, completano l’una quella dell’altra.

A complicare ulteriormente questo puzzle di vocalità si aggiunge l’ascolto negli ear monitor delle voci di due bambine che, in alcuni momenti, leggono i passi del romanzo: la loro impronta vocalica va ad alterare le voci delle attrici, portandole ad assumere una tonalità del tutto infantile. Lungi dal produrre un effetto di regressione ironico o parodico, le voci delle donne che improvvisamente si ‘infantilizzano’ squarciano il velo di polvere che ricopre i loro flashback, precipitando il tempo del racconto da adulte in quello magico-favoloso proprio dell’infanzia. Ma la prospettiva fiabesca dell’infanzia di Elena e Lila in realtà è quella di una favola nera, fatta di giochi pericolosi, di paure, di Don Achille immaginato come «ragno tra i ragni, topo tra i topi, una forma che assumeva tutte le forme»;[52] pertanto il registro emotivo dell’eterodirezione di Lagani e Menni procede teso, angosciato, alterato dalla perturbante «discrasia di un’infanzia-adulta oppure di due adulte-bambine».[53]

Fanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico Fedrigoli

Contribuisce a quest’effetto da favola dark il ritmo martellante e ossessivo della partitura fisica. Mentre rievocano il trauma della perdita delle bambole, Elena e Lila non stanno mai ferme: graffiano l’aria con incessanti movimenti delle mani e dei piedi, flettono i corpi con ripetute movenze coreutiche, sospinte da incalzanti «cellule ritmiche ispirate alla tradizione della taranta e della tammurriata napoletana».[54]

L’ipercinesi di Lagani e Menni imposta da De Angelis nasce dalla volontà di rappresentare il «morso della taranta», inteso come «morso dell’amicizia o legame simbiotico» che ha segnato per sempre le due protagoniste. ‘Avvelenate’ da un sentimento di amicizia «splendida e tenebrosa»,[55] tanto benefica quanto tossica, secondo De Angelis le due ‘tarantolate’ non possono che consumarsi nel «fuoco della danza, in un irrefrenabile desiderio di movimento».[56] La grammatica gestuale elaborata dal regista è ispirata «a coreografie geometriche e rigorosissime come quelle di Trisha Brown in Accumulation, [alla] sensualità dolce e violenta di Pina Busch in Café Müller, [alle] aguzze simmetrie e repentini cambi di registro di Anna Teresa De Keersmaker»,[57] e ricorda le movenze ripetitive degli automi, gli scatti anatomici dei fantocci meccanici.

Con un crescente contrappunto ritmico, le partiture verbale e fisica incarnate da Lagani e Menni alternano sincronia e sfasatura, riflesso e contrapposizione, fusione e divaricazione, generando una dialettica performativa di grande precisione ed efficacia espressiva. La bellezza di questo ‘paso doble’ eterodiretto sta tutta nel mettere in forma la complementarietà asimmetrica delle ‘amiche geniali’, la loro incessante altalena tra simbiosi e alterità.

Il racconto della perdita delle bambole si conclude con il fallimento della loro ricerca: Elena e Lila scendono a guardare nell’antro dello scantinato, ma Tina e Nu sono sparite. Qui si chiude la prima parte dello spettacolo e, con una polarità attentamente bilanciata, quando inizia la seconda tutto appare capovolto. Dalla scena, vuota e buia, promana un’atmosfera cupa e minacciosa, un senso di smarrimento; le due protagoniste ora sono vestite di nero, hanno il volto pesantemente truccato e i loro movimenti, già in parte automatici, adesso riproducono la ‘legnosità’ tipica dei burattini. Da donne che parlano ‘attraversate’ dalle loro voci infantili, Elena e Lila si sono trasformate nelle bambole sprofondate nello scantinato, mentre sentiamo fuori campo le loro voices off che inutilmente le chiamano, le cercano.

Fanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico Fedrigoli

Piombate sulle assi del palco, Tina e Nu prendono vita lentamente, con distillata fatica, ma pian piano acquistano fiato e iniziano a declinare frammenti delle filastrocche di Toti Scialoja, dei versi di Wislawa Szymborska, dei brani di Lyman Frank Baum. La drammaturgia del montaggio costruita da Lagani ‘smargina’ la trama di Ferrante con interpolazioni narrative nonsense e visionarie, che scrivono al di là della scrittura, che riattivano la portata pluri-simbolica dell’archetipo-bambola e lo fanno rinascere sotto mutate insegne. Così Tina e Nu rappresentano una proiezione trasfigurata dell’io delle protagoniste, un alter ego spettrale e fantastico, che rinvia all’angoscia arcaica della caduta, dello strappo traumatico dalla realtà, del precipitare dal ‘mondo di sopra’ al ‘mondo di sotto’, nella ‘caverna’[58] primitiva della storica subalternità femminile.

In tal modo l’invenzione immaginifica di Fanny & Alexander, quel gonfiarsi di una «bolla di mistero»[59] nella trama chiara della narrazione di partenza, nell’apparizione animistica delle bambole di Elena e Lila dà forma al «movimento di sprofondamento»[60] segnatamente femminile che attraversa da sempre l’opera di Ferrante:

La notte dei tempi si raccoglie ai bordi dell’aurora d’oggi e di domani. Il dolore ci sprofonda tra le antenate unicellulari, tra i borbottii rissosi o terrorizzati dentro le caverne, tra le divinità femminili ricacciate nel buio della terra, pur tenendoci ancorate – mettiamo – al computer su cui stiamo scrivendo. I sentimenti forti sono così: fanno saltare la cronologia.[61]

4. Il nuovo cognome

Come tutte le personagge dei libri di Ferrante, anche Elena e Lila cercano di emanciparsi dall’antica sottomissione delle donne imposta dalle logiche del potere e del controllo degli uomini. In fondo, sintetizza de Rogatis, «la storia della quadrilogia è la storia di due amiche che si alleano per passare il limite, per sconfinare dagli spazi reali e simbolici nei quali una millenaria subalternità femminile le ha rinchiuse».[62]

Questa tensione a emergere dal ‘buio della terra’, dal ‘sottosuolo’ della rimozione femminile operata dal dominio patriarcale, converge ed esplode in determinati momenti del racconto, in alcune scene culminanti che danno la spinta allo sviluppo narrativo. Tra queste spicca per intensità emotiva l’episodio della ‘scancellatura’ di Lila, su cui si concentra il secondo spettacolo della trilogia di Fanny & Alexander.

In questo atto, intitolato Il nuovo cognome, l’interpretazione eterodiretta di Lagani e Menni riprende le fila della relazione tra Elena e Lila a partire dalla loro giovinezza, quando quest’ultima, appena quindicenne, sposa senza amore il benestante Stefano per assicurarsi una vita di agiatezza economica. Ma il sogno dell’emancipazione sociale si ribalta subito nell’incubo della violenza domestica, degli abusi a cui Stefano la sottopone a partire dalla prima notte di nozze. Nel frattempo Elena consegue il diploma e fugge dal rione per studiare alla Normale di Pisa, dove si apre ad una vita diversa pur restando stretta al laccio sentimentale con Lila.

La dimensione simbiotica e privata dell’‘amicizia geniale’ qui si divarica, ed entra in relazione con il contesto storico di Napoli, del Sud, dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, per cui si impone un deciso mutamento di tono e di medium nel processo di trasposizione dal romanzo allo spettacolo. Lagani comprende bene che il racconto delle due soggettività femminili adesso si intreccia con quello della città partenopea, «terza, grande protagonista della storia. […] presupposto e condizione della notevole dimensione corale e epica».[63]

Secondo una prospettiva affine a quella di Hannah Arendt e di Annie Ernaux,[64] la Storia per Ferrante è ciò che risulta dall’intreccio delle storie individuali, dall’immensa tessitura di biografie locali e situate, che insieme compongono i tratti sociali e di costume di un intero Paese. La funzione di sineddoche della vita di Elena e Lila, delle vicende del ‘microcosmo-rione’ che si fa correlativo oggettivo dell’‘universo-Storia’, nello spettacolo di Lagani e De Angelis è espressa attraverso l’immagine video, che si aggiunge come nuovo strato intermediale all’architettura traspositiva del progetto.

Fanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico FedrigoliFanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico Fedrigoli

La trama della performance è quindi scandita dalla proiezione di filmati di repertorio in bianco e nero, scelti e montati dalla regista Sara Fgaier e provenienti dall’Archivio Nazionale del Film di Famiglia. Il racconto personale e circoscritto delle protagoniste ferrantiane si alterna così ad una drammaturgia video dall’ampio respiro documentario, che illumina il palco con lo scintillio mobile di riprese in Super8, creando una tensione dinamica costante, un continuo cambio di ritmo. In questo video-montaggio «di ricordi individuali talmente emblematici […] da divenire extra-temporali e assoluti»,[65] al centro quasi sempre c’è una coppia di amiche: filmata in vacanza sulle spiagge partenopee, nei vicoli dei rioni napoletani, alle manifestazioni femministe per l’aborto. Il realismo poetico dell’immagine documentaria esalta l’astrazione simbolica della narrazione di Elena e Lila con un intenso effetto di verità, offrendo una testimonianza davvero emozionante della condizione delle donne nell’Italia del dopoguerra.

Il passaggio dalla performance di Lagani e Menni al cortometraggio di Fgaier è reso fluido da giochi di ombre e da contrasti di colori – quelli caldi e saturi degli sfondi delle attrici e il freddo bianco e nero delle sequenze video –, e da una partitura acustica che alterna sonorità ambientali registrate nei luoghi del romanzo (il rione Luzzatti, il rione Sanità, il Lungomare Caracciolo, la spiaggia Maronti a Ischia) a evocativi leitmotiv per voce sola (tratti da Manuel De Falla, da Šostakóvič, dalla tradizione catalana). L’immaginazione registica di De Angelis, pur con qualche ridondanza, elabora una composizione di effetti altamente suggestiva, riuscendo a trasmettere il sense of place della città di Napoli, e insieme a concentrare l’attenzione sugli snodi emozionali dell’opera ferrantiana.

Tra questi, come dicevamo, emerge la ‘scancellatura’ operata da Lila sul proprio ritratto fotografico in abito da sposa, che il marito vuole esporre nel negozio di scarpe dei camorristi Solara. Pur contraria la giovane acconsente, ma solo a condizione che possa intervenire a correggere e modificare la foto.

La scena in cui Lila, aiutata da Elena, trasforma progressivamente il ritratto fotografico realizzando la «propria autodistruzione in immagine»,[66] rappresenta un forte atto creativo di rivendicazione della sua libertà,[67] ed è trasposta da Fanny & Alexander con una sintassi scenica spiccatamente intermediale, con un collage di gesti, posture, tonalità vocali e segni iconici volto alla resa spettacolare del clima(x) narrativo. Sull’onda sonora di un crescendo di percussioni e vocalizzi, le attrici incarnano le movenze e le voci di tutti i personaggi coinvolti nell’episodio «del corpo in immagine […] crudelmente trinciato»;[68] passando dal tono imperativo di Stefano – «Poi però basta, Lina»[69] –, a quello strafottente di Michele Solara – «ti sei scancellata apposta […], per far vedere come sta bene una coscia di femmina con queste scarpe»[70] –, a quello entusiasta di Elena – «A me pare bellissimo»[71] –, fino a quello ribelle e fiero di Lila – «o così o niente».[72] Significativamente, a questo palinsesto di vocalità e di gesti ispessiti, ‘sottolineati’, si accompagna la proiezione video di un caotico assemblaggio di ritratti fotografici femminili, anch’essi provenienti dagli archivi storici familiari. La sovrapposizione scomposta degli scatti in bianco e nero disegna sullo schermo un découpage di corpi mutilati, di frammenti anatomici ‘congelati’ nella stasi muta del clic. In tal modo si condensa in una sola cornice la semantica della decostruzione dell’immagine di Lila, traducendo la sua eversiva «riscrittura identitaria»[73] nella forma intersemiotica di uno schermo fotografico.

Fanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico Fedrigoli

 

5. La bambina perduta

Il terzo tempo della storia drammaturgica di Fanny & Alexander si focalizza sull’asse tematico della scomparsa-perdita, che nell’estesa messa in racconto delle vite di Elena e Lila rappresenta il perno semantico principale. Con un perfetto gioco di simmetrie, infatti, alla sparizione ‘primaria’ delle bambole Tina e Nu corrisponde la scomparsa finale della figlia di Lila, che non casualmente si chiama anch’essa Tina come la bambola che apparteneva ad Elena.

La ricorsività simbolica dell’esperienza della perdita,[74] che per Ferrante costituisce «la tematica più crudamente posta dalle esistenze femminili»,[75] nella traduzione intermediale di Lagani e De Angelis coincide con la messa in quadro di un intenso «viaggio sonoro e percettivo»,[76] che spinge in avanti la vicenda biografica delle ‘personagge geniali’, fino all’apertura mostrativa di nuovi orizzonti di significato.

La narrazione eterodiretta di Lagani e Menni riprende dalla gravidanza parallela di Elena e Lila le quali, ormai adulte e con diverse e complesse situazioni sentimentali, si trovano incinte nello stesso momento. La semantica dell’affinità elettiva tra le due amiche, della simmetria speculare tra i loro destini, si acuisce nell’attesa simultanea di due bambine, che nello spettacolo prende la forma dell’embodiment della gravidanza, di due evidentissime pance finte indossate dalle attrici. Il focus performativo sul corpo semiotico[77] delle personagge, sul loro travestimento vistosamente sottolineato, conferisce una forte fisionomia espressiva al motivo della maternità, traducendolo in modo plastico e visivo attraverso un’immagine attoriale che si fa icona tematica.[78]

L’intenzionalità tutta mostrativa dei corpi gravidi di Elena e Lila è accentuata dalle scelte formali compiute da De Angelis, relative alla composizione visiva e sonora dell’ambiente in cui si svolge il ‘romanzo scenico’. Nella prima parte dello spettacolo il regista reintroduce lo schermo del secondo capitolo, ma questa volta per mostrare proiezioni di ombre, effetti olografici, sagome sfumate, sdoppiate, ingigantite, immerse in abbaglianti sfondi full color. La volontà documentaria dei precedenti materiali video e fotografici qui lascia il posto all’istanza pienamente poetica delle campiture sfumate (che richiamano i cromatismi della Color field painting), dei giochi di luce cangianti, delle musiche che si fanno sempre più acute, stridenti, «tesissime alla maniera di Alfred Schnittke».[79]

Fanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico FedrigoliFanny & Alexander, Storia di un’amicizia, © Enrico Fedrigoli

Dalla combinazione mediale di De Angelis emerge una sensibilità rappresentativa delle retoriche amicali del romanzo, laddove le sproporzioni e gli sdoppiamenti tra corpi e ombre, così come l’incontro sinestetico tra colori e suoni, riflettono le tensioni ambivalenti che scorrono tra Elena e Lila, la loro duplicità insieme solidale e rivaleggiante, paritaria e subalterna.

L’architettura creativa della scena svolge così un’efficace funzione adattiva delle tematiche narrative, fino ad arrivare al racconto della tragica sparizione della figlia di Lila, avvenuta durante una festa del rione. Qui lo schermo scompare, le musiche si trasformano in rumori ambientali grevi e angoscianti, le due protagoniste tornano l’una di fianco all’altra, in piena frontalità rispetto al pubblico. I loro ‘corpi narranti’ raggiungono l’apice del serrato gioco di specchi prodotto dalla recitazione eterodiretta: le parole fluiscono dalle due voci senza soluzione di continuità, la danza geometrica delle mani e dei piedi si fa rapida, a tratti tumultuosa, la dizione romanzesca muta in un vortice affannato di interrogazioni, che rimbalzano dall’una all’altra: «L’hai trovata, dov’è? Dov’è Tina? Dov’è?».[80]

L’escalation drammatica del racconto di Ferrante imprime sui volti di Lagani e Menni espressioni dense di pathos, deformate dalla rabbia e dall’angoscia, plasticamente contratte in dolenti maschere teatrali. La disperata ricerca di Tina infine si spegne nell’impotenza della perdita, il palco diventa buio e la messa in voce del romanzo per bocca delle attrici giunge al termine. Poi un tenue bagliore promana dal sipario e tra le tende ondeggianti riappaiono, emerse dalla nera voragine dello scantinato, le bambole Tina e Nu.

Vitalissime in sgargianti abiti rossi, le bambole acquistano una mobilità sconosciuta nel primo capitolo, e iniziano a danzare sulla scena con gesti larghi e ariosi volteggi, al ritmo di parole rimate e visionarie: «In fondo a un sentiero dove si sdrucciola per tutta la notte mi chiama una lucciola», «la pagina bianca denuncia l’assenza, se vuoi sapere altro ti tocca far senza», «l’amica di sempre perde sembianza», «chi resta, chi fugge, non cambia sostanza».[81] L’immaginifica drammaturgia di Lagani si spinge oltre i bordi della compagine romanzesca e la estende con una trama poetica di visioni narrative, da cui affiorano nuovi significati. Mentre nell’epilogo del ciclo ferrantiano le bambole perdute ritornano ad Elena nella vecchiaia, contenute dentro un pacchetto misteriosamente recapitato da Lila, l’explicit immaginale di Fanny & Alexander restituisce loro un corpo e una voce, cioè un’occasione per evadere dal chiuso del sottosuolo, forse per vivere nell’interregno della fantasia.

Certo, l’epifania conclusiva delle bambole di Lagani e Menni traduce scenicamente la circolarità simbolica dell’ordito ferrantiano, l’assioma fatale e doloroso che connette «la perdita infantile delle figlie finte alla perdita adulta delle figlie vere».[82] Ma la trasposizione scenica di Fanny & Alexander non contempla soltanto questo, quanto soprattutto una tensione, un’apertura ermeneutica verso le istanze mitiche evocate da Ferrante. Dilatando quei «margini ampi […] offerti alla fantasia del lettore»,[83] la ricomparsa giocosa e vitale di Tina e Nu conferma il dispositivo creativo del gruppo ravennate: «attingere al mundus immaginalis, accendere l’organo dell’Immaginazione Attiva, […] da cui possono scaturire le epifanie».[84]

Come figure-archetipi, figure-specchio, le bambole catalizzano sul palco tutte le implicazioni tematiche del percorso esistenziale di Elena e Lila, divenendo così simboli concreti e liminali, insieme di cancellazione e sopravvivenza, sottomissione e riscatto. Nel contempo esse rappresentano un’invenzione scenica che supera il perimetro del romanzo, un corrispettivo fantastico delle ‘amiche geniali’ animato dal soffio vitale del teatro. Non più acquattate e mute nel buio dello scantinato, le bambine-bambole-amiche di Lagani e Menni aprono un varco di senso dentro la sua profondità archetipa. Da qui si sporgono con rinnovato slancio, per emergere da «certi fondali bassi»[85] lasciandosi indietro tutte le paure.

 


1 E. Ferrante, La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Roma, edizioni e/o, 2016, p. 183.

2 Ivi, p. 182.

3 Ivi, p. 185.

4 Ibidem.

5 Negli ultimi decenni il settore dei media studies ha compiuto molti sforzi per definire e categorizzare la nozione di intermedialità. Nell’ambito del dibattito teorico sulle varie forme di trasferimento fra un medium e un altro (ottimamente sintetizzato da Massimo Fusillo: ‘Intermedialità’, Enciclopedia Treccani, appendice 9, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 703-706, <http://www.treccani.it/enciclopedia/intermedialita_%28Enciclopedia-Italiana%29/> [accessed 10.03.2020]), sono state proposte numerose classificazioni delle diverse forme possibili di intermedialità. Tra queste ci pare importante richiamare la distinzione di Irina Rajewsky in tre categorie: la «media trasposition», in cui il prodotto di un medium viene trasformato in un altro, come nel caso dell’adattamento di Fanny & Alexander dell’Amica geniale; la «media combiation», in cui media distinti e autonomi coesistono all’interno di un unico contesto mediale; la «intermedial references», ossia la citazione e il riferimento a un genere o a un medium all’interno di un altro genere o di un altro medium (I. Rajewsky, ‘Intermediality, Intertextuality, and Remediation: A Literary Perspective on Intermediality’, Intermédialités: histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques, 6, 2005, Montréal, Université de Montréal, pp. 43-64, <http://cri.histart.umontreal.ca/cri/fr/intermedialites/p6/pdfs/p6_rajewsky_text.pdf> [accessed 10.03.2020]).

6 Il riferimento è al fondamentale concetto di remediation secondo cui ogni medium si appropria di altri media, delle loro tecniche e dei loro significati sociali, mettendosi in competizione con essi (cfr. J. D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding New Media, Cambridge, The MIT Press, 1999, trad. it. di B. Gennaro, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2002).

7 Usiamo l’aggettivo ‘polimorfico’ in specifico riferimento alla prospettiva introdotta da Massimo Fusillo, per cui polimorfismo e intermedialità marcano distintamente il nostro immaginario, che «è sempre stato e sempre sarà politeista, perché prodotto dall’intersezione di miti, racconti, e temi poliedrici» (M. Fusillo, L’immaginario polimorfico fra letteratura, teatro e cinema, Cosenza, Pellegrini, 2018, p. 8). Sulle diramazioni trans e intermediali degli immaginari contemporanei si vedano anche gli illuminati e rigorosi studi di S. Rimini, Immaginazioni. Riscritture e ibridazioni fra teatro e cinema, Acireale-Roma, Bonanno, 2012, e di M. Rizzarelli, Amore e guerra. Percorsi intermediali fra letteratura e cinema, Lentini (SR), Duetredue, 2019.

8 T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, Roma, edizioni e/o, 2018, p. 13. Il riferimento, ovviamente, è al dibattutissimo anonimato della scrittrice partenopea.

9 Pubblicati dall’editore romano e/o, i quattro volumi della saga sono L’amica geniale (2011), Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013), Storia della bambina perduta (2014).

10 Ci riferiamo alle tante linee espressive della ricerca artistica di Fanny & Alexander, da sempre aperta a formati diversi: spettacoli teatrali e musicali, produzioni video e radiofoniche, installazioni, mostre fotografiche.

11 Sull’ampia questione del rapporto fra teatro e letteratura si veda almeno: C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984; F. Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. La scena della coscienza, Roma, Officina Edizioni, 2010; M. Ariani, G. Taffon, Scritture per la scena. La letteratura drammatica del Novecento italiano, Roma, Carocci, 2001; F. Piva (a cura di), Il romanzo a teatro, Fasano, Schena editore, 2005; A. Acanfora, ‘Teatro e romanzo nella produzione letteraria contemporanea’, Misure critiche, 1, 2010, pp. 7-20.

13 Ibidem.

14 Il riferimento è al documentario Ferrante Fever scritto da Laura Buffoni e Giacomo Zurzi e da quest’ultimo diretto nel 2017. Il docu-film si addentra nei luoghi e nei temi cari alla scrittrice, e attraverso una selezione di testimoni autorevoli prova a comprendere le ragioni del suo straordinario successo editoriale. L’espressione Ferrante Fever, in realtà, nasce già nel 2015 nella libreria McNally Jackson Books di New York, e gioca con la popolare Saturday Night Fever alludendo ad un’analoga dipendenza collettiva e contagiosa scatenata dalla quadrilogia.

15 Introdotta dallo studioso americano Henry Jenkins col suo Convergence Culture (New York, New York University, 2006, trad. it., Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007) la transmedialità indica la tendenza dei media (vecchi e nuovi) a oltrepassare i propri confini, per cui le narrazioni sconfinano, evolvono e proseguono in forme e generi differenti dal medium originario. Un ottimo studio sulla narratologia transmediale, che analizza il fenomeno sia dal punto di vista delle affinità tra media, sia da quello delle specificità e differenze mediali è quello di I. Rajewsky, ‘Percorsi transmediali. Appunti sul potenziale euristico della transmedialità nel campo delle letterature comparate’, in F. Agamennoni, M. Rima, S. Tani (a cura di), ‘Schermi. Rappresentazioni, immagini, transmedialità’, Between, VIII, 16, 2018.

16 Cfr. V. Castagna, ‘L’amica geniale in Inghilterra: il caso dell’adattamento radio di Timberlake Wertenbaker’, in D. Perrone, D. La Monaca (a cura di), Incontro con Elena Ferrante, Palermo, Palermo University Press, 2019, pp. 115-129.

17 La coproduzione internazionale è di RAI, HBO, Wildside, Fandango e Tim Vision. La messa in onda nel 2018 si riferisce ai primi otto episodi della serie, adattamento del primo romanzo della saga. A novembre 2019 sono terminate le riprese della seconda stagione tratta dal secondo volume, la cui trasmissione italiana su Rai1 è avvenuta tra febbraio e marzo 2020.

18 Wu Ming 1, Premessa alla versione 2.0 di New Italian Epic, <https://www.wumingfoundation.com/italiano/WM1_saggio_sul_new_italian_epic.pdf> [accessed 10.03.2020].

19 Introdotta dalla critica letteraria femminista, la categoria della ‘personaggia’ indica quelle immagini di donne «che escono dalle convenzioni e producono […] degli effetti di sconcerto rispetto alle figure della femminilità codificata» (N. Setti, ‘Personaggia, personagge’, Altre modernità, 12, novembre 2014, pp. 204-213: 205); per approfondire questa feconda categoria critica si veda R. Mazzanti, S. Neonato, B. Sarasini, L’invenzione delle personagge, Guidonia Montecelio (Roma), Jacobelli, 2016.

20 T. de Rogatis, ‘Metamorfosi del tempo. Il ciclo dell’Amica geniale’, Allegoria, XXVIII, 73, 2016, pp. 123-131: 123.

21 A. Cavarero in I. Pinto, ‘Intervista ad Adriana Cavarero*. Filosofia della Narrazione e scrittura del sé: primi appunti sulla scrittura di Elena Ferrante’, Testo e senso, 17, 2016, p. 3, <http://testoesenso.it/article/view/414>.

22 Ivi, p. 4.

23 Sul valore e le specificità della scrittura di Ferrante si veda in particolare: L. Benedetti, ‘Il linguaggio dell’amicizia e della città: L’amica geniale di Elena Ferrante tra continuità e cambiamento’, Quaderni di italianistica, XXXIII, 2, 2012, pp. 171-187; M. Sacco, ‘Elena Ferrante. Come scrive’, Il Pickwick, 11 aprile 2016, ˂http://www.ilpickwick.it/index.php/teatro/item/2599-leggere-elena-ferrante-come-scrive> [accessed 10.03.2020]; T. de Rogatis, ‘Una scrittura plastica’, in Ead., Elena Ferrante, pp. 32-36.

24 C. Lagani, Storia di un’amicizia. Rileggere l’Amica geniale in teatro, testo inedito, si ringrazia la compagnia per averlo gentilmente fornito. Da qui anche le cinque citazioni successive.

25 F. Menni, Fiorenza Menni parla di “Da parte loro nessuna domanda imbarazzante”, <https://www.youtube.com/watch?v=X4artTQAQBY> [accessed 10.03.2020].

26 C. Lagani, Storia di un’amicizia.

27 C. Lagani in V. Valentini, ‘Variabilità infinita dei testi, delle voci, delle letture. Valentina Valentini in dialogo con Chiara Lagani’, Sciami | ricerche, 5, aprile 2019, <https://webzine.sciami.com/variabilita-infinita-dei-testi-delle-voci-delle-letture/> [accessed 10.03.2020].

28 C. Lagani, Storia di un’amicizia.

29 Ibidem.

30 Cfr. C. Lagani in M. Pascarella, ‘Una Maria De Filippi da incubo. Conversazione con Chiara Lagani’, Gagarin magazine, 13 giugno 2013, <https://www.gagarin-magazine.it/2013/06/teatro/una-maria-de-filippi-da-incubo-conversazione-con-chiara-lagani/> [accessed 10.03.2020].

31 La casa editrice e/o ha autorizzato Fanny & Alexander a lavorare sul testo solo in forma di lettura scenica.

32 C. Lagani in S. Perruccio, ‘ Due amiche portano Ferrante in scena’, Legendaria, 129, maggio 2018, p. 56.

33 C. Lagani in E. Berti, ‘In scena con Elena Ferrante le bambole di Lenù e Lila un viaggio in bianco e nero’, laRepubblica.it, 19 gennaio 2019, <https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2019/01/19/in-scena-con-elena-ferrante-le-bambole-di-lenu-e-neroFirenze18.html> [accessed 10.03.2020].

34 T. de Rogatis, Elena Ferrante, p. 28.

35 T. de Rogatis, Elena Ferrante e il potere dello storytelling nell’età della globalizzazione.

36 T. de Rogatis, ‘Metamorfosi del tempo’, p. 124.

37 E. Ferrante, La frantumaglia, p. 207.

38 Cfr. con la dichiarazione di Lagani: «“Coincidenza” è, per me, parola tecnica di un particolare procedimento, un ordigno retorico attraverso cui la drammaturgia di uno spettacolo si sviluppa» (C. Lagani, Storia di un’amicizia).

39 Tra le opere di Ferrante si vedano in particolare il romanzo La figlia oscura (edizioni e/o, 2006) e il racconto per bambini La spiaggia di notte (edizioni e/o, 2007), nei quali sono presenti delle bambole con un’analoga funzione di Leitmotiv della narrazione. Per un approfondimento su questo tema cfr. S. Milkova, ‘Mothers, Daughters, Dolls: on Disgust in Elena Ferrante’s «La figlia oscura»’, Italian Culture, XXXI, 2, 2013, pp. 91-109.

40 Ci riferiamo alla teoria degli adattamenti proposta da Linda Hutcheon, secondo cui in base al contesto di produzione e ricezione i media si dividono in narrativi (come la letteratura), mostrativi o rappresentativi (come il teatro e il cinema) e interattivi (come i videogames): cfr. L. Hutcheon, A Theory of Adaptation, London and New York, Routledge, 2006, trad. it. di G. V. Distefano, Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, Roma, Armando, 2001, pp. 66 e ss.

41 Concepito inizialmente come lavoro autonomo con il titolo Da parte loro nessuna domanda imbarazzante (verso tratto da una poesia di Wislawa Szymborska), lo spettacolo è stato poi rieditato con il titolo Le due bambole e ricontestualizzato come primo atto del progetto Storia di un’amicizia.

42 T. de Rogatis, ‘Metamorfosi del tempo’, p. 124.

43 T. de Rogatis, Elena Ferrante e il potere dello storytelling nell’età della globalizzazione.

44 M. Fusillo, ‘Sulla smarginatura. Tre punti-chiave per Elena Ferrante’, Allegoria, XXVIII, 73, 2016, pp. 148-153: 152.

45 E. Ferrante, L’amica geniale, Roma, edizioni e/o, 2011, p. 87.

46 T. de Rogatis, ‘Metamorfosi del tempo’, p. 135.

47 E. Ferrante, Storia del nuovo cognome, Roma, edizioni e/o, 2011, p. 454.

48 M. Fusillo, ‘Sulla smarginatura’, p. 151.

49 Ivi, p. 129.

50 Ibidem.

51 Va detto che nel romanzo di Ferrante spesso c’è un rapporto diretto tra scrittura e voce. Ricordando una lettera dell’amica, Elena racconta: «mi colpì che la scrittura conteneva la voce di Lila. […] Lila sapeva parlare attraverso la scrittura; […] non si sentiva l’artificio della parola scritta. Leggevo e intanto vedevo, sentivo lei. La voce incastonata nella scrittura mi travolse» (E. Ferrante, L’amica geniale, p. 222).

52 Ivi, p. 27.

53 C. Lagani intervistata da R. Ricorda, ˂https://www.youtube.com/watch?v=VpzOy3zLBqs> [accessed 10.03.2020].

54 L. De Angelis, Storia di un’amicizia. Note di regia, testo inedito, si ringrazia la compagnia per averlo gentilmente fornito. Da qui anche le due citazioni successive.

55 E. Ferrante, Storia della bambina perduta, Roma, edizioni e/o, 2014, p. 429.

56 L. De Angelis, Storia di un’amicizia. Note di regia. Le considerazioni di De Angelis sulla qualità venefica del legame simbiotico tra Elena e Lila trovano un riscontro nella critica di de Rogatis, la quale scrive che: «Nel registro melodrammatico delle passioni, tipico della quadrilogia, l’ingerimento velenoso rinvia alla relazione patologica, all’intossicamento dell’anima» (T. de Rogatis, Elena Ferrante, p. 84).

57 L. De Angelis, Storia di un’amicizia.

58 La caverna costituisce un tema simbolico ricorrente nell’opera ferrantiana. Su questo si veda T. de Rogatis, ‘La caverna della madre’, in Ead., Elena Ferrante, pp. 91-96.

59 C. Lagani, Storia di un’amicizia.

60 T. de Rogatis, Elena Ferrante e il potere dello storytelling nell’età della globalizzazione.

61 E. Ferrante, La frantumaglia, p. 102.

62 T. de Rogatis, Elena Ferrante, p. 209.

63 C. Lagani, Storia di un’amicizia.

64 Cfr. A. Ernaux, Les années, Paris, Gallimard, 2008, trad. it. di L. Flabbi, Gli anni, Roma, L’orma editore, 2015; H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989.

65 C. Lagani, Storia di un’amicizia.

66 E. Ferrante, Storia del nuovo cognome, p. 122.

67 Per un’acuta riflessione su questo aspetto si rinvia a M. Rizzarelli, ‘Epifanie e sparizioni di uno sguardo de-genere. Soggettività fotografiche in Ernaux, Ferrante e Schwarzenbach’, Arabeschi, 11, gennaio-giugno 2018, pp. 46-56, <http://www.arabeschi.it/epifanie-e-sparizioni-di-uno-sguardo-de-genere-soggettivit--fotografiche-in-ernaux-ferrante-schwarzenbach/> [accessed 10.03.2020].

68 E. Ferrante, Storia del nuovo cognome, p. 119.

69 Ivi, p. 117.

70 Ivi, p. 120.

71 Ivi, p. 119.

72 Ivi, p. 120.

73 M. Rizzarelli, ‘Epifanie e sparizioni di uno sguardo de-genere’, p. 48.

74 La stessa Ferrante ha sintetizzato la quadrilogia come il racconto di «un’amicizia che comincia col gioco perfido delle bambole e si esaurisce con la perdita di una figlia» (E. Ferrante, La frantumaglia, p. 270).

75 Ivi, p. 72.

76 L. De Angelis, Storia di un’amicizia.

77 Sul processo di incarnazione, cioè di embodiment, intenso come produzione performativa di identità, e sulla connessa distinzione tra corpo fenomenico e corpo semiotico dell’attore si rinvia a E. Fischer-Lichte, Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, ed. italiana a cura di T. Gusman, Roma, Carocci, 2014, pp. 135-189.

78 Sulla funzione iconica dell’immagine dell’attore si veda L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003.

79 L. De Angelis, Storia di un’amicizia.

80 Testo tratto dalla banda sonora dello spettacolo.

81 Testi tratti dalla banda sonora dello spettacolo.

82 E. Ferrante, Storia della bambina perduta, p. 444.

83 E. Ferrante, La frantumaglia, pp. 291-292.

84 Fanny & Alexander, 0/Z. Atlante di un viaggio teatrale, Milano, Ubulibri, 2010, p. 8.

85 E. Ferrante, La frantumaglia, p. 59.