Categorie



Questa pagina fa parte di:

Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci.

Italo Calvino, Un re in ascolto

 

Io ti racconto questa storia affinché tu possa raccontarmela.

Adriana Cavarero, Tu che mi guardi tu che mi racconti

 

Sin dalle prime pagine del nuovo romanzo di Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce (Einaudi Stile Libero, 2017), appare chiaro che uno dei modi per cercare il senso della storia è quello di provare a dipanare il fitto intreccio di rimandi visivi che attraversano lo sviluppo della narrazione. Nel prologo, che precede le tre parti in cui è scandito il racconto della voce narrante (Terra, Aria, Acqua), l’evocazione delle immagini di un’intervista televisiva durante la quale McEnroe, mentre trasmettono alcuni fotogrammi della partita «più importante della sua carriera» giocata a Wimbledon contro Borg nel 1980, si alza e «s’inchina col capo e col busto a sé stesso, cioè all’immagine vittoriosa e giovanissima di sé che scorre nel filmato», annuncia la valenza speculare che la trama visuale riveste per il romanzo. Quella sequenza trasmessa sul piccolo schermo, in cui un uomo adulto rende omaggio e dice addio al simulacro di un sé giovane, suggerisce alla protagonista – una donna che non può più camminare a seguito di un incidente automobilistico che racconta in prima persona – un analogo e straziante requiem alla propria immagine ancora ignara del destino che di là a poco l’avrebbe privata dell’uso delle gambe. La fotografia che la ritrae di schiena, mentre sale le scale del teatro greco di Taormina, diventa il metro che misura la distanza incolmabile dal presente («si tratta di un’altra persona»), ma lascia intuire come la via del racconto sia segnata imprescindibilmente dalla relazione con l’altro e dalle sue corrispondenze («il mio altro, l’unica possibilità che avrei trovato di raccontare di me»).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Pisa/Torino, agosto 2016

Eleonora Manca (Lucca, 1978), artista visiva nell’ambito del video e della fotografia, sta sviluppando da diversi anni una ricerca sulla metamorfosi, la memoria e la memoria del corpo. Il fitto dialogo che intrattengo da tempo con lei si è recentemente definito in questa intervista.

 

D: Hai studiato Storia dell’Arte all’Università di Pisa e successivamente Teatro e Arti della Scena a Torino. Come ti sei avvicinata alla fotografia e al video? Ci sono stati degli input culturali o delle fascinazioni che ti hanno guidata in quella direzione? Perché hai scelto proprio questi mezzi espressivi?

R: Fin da bambina il mio interesse è stato prevalentemente rivolto all’immagine, alla parola e alla loro compenetrazione. Nel mio percorso di studi, dunque, ho sempre cercato di assorbire e coniugare più informazioni possibili al fine di creare una specie di compendio che potesse guidare ogni interesse che andavo maturando. Chiamavo questo atteggiamento – da spugna un po’ sconclusionata – ‘la mia lista della spesa’. Contemporaneamente disegnavo, dipingevo, creavo collage unendo immagini ritagliate e versi dei poeti che mi parlavano. Il tutto era già ‘poesia visiva’, anche se non lo sapevo. Mio padre è un fotografo, mia madre una pittrice e mi piace pensare che mi abbiano dato – seppur nella lontananza – un imprinting per certi versi atavico e inevitabile. Dopo una lunga ricerca pittorica c’è stata una stagione molto intensa di poesia visiva. Utilizzavo carta giapponese, frasi mie o cut-up di versi di poeti, scrittori. Mi piaceva, ad esempio, unire un verso di Dylan Thomas con uno di Janet Frame creando quindi piccoli ibridi poetici. Fu in questa stagione di parola per immagine (e viceversa) che presi a fotografare più intensamente di quanto facessi negli anni precedenti (ho impiegato molto per accettare l’esigenza di prendere una macchina fotografica in mano; schivavo questo richiamo, ma alla fine non ho potuto far altro che lasciarmi sedurre). Presi confidenza con il mezzo e cercai di sintetizzare tutto ciò che fino ad allora mi aveva riempita, formata. Ciononostante – e lo ricordo ancora, quasi come un fatto fisico – ero sempre più frustrata dalla parola. Una parte di me tornava prepotentemente agli anni universitari pisani, a quando seguivo i corsi di Sandra Lischi che tanto affascinavano il mio immaginario e la mia voglia di creare poesia in movimento (a lei devo, veramente, la voglia incessante di fare video). Non sapendo da che parte iniziare mi limitavo, però, a realizzare micro-narrazioni con la fotografia. Una specie di bobina dipanata. Lavoravo molto sull’esigenza di fermare un attimo, un gesto reiterato. Fotografavo foglie mosse dal vento, lenzuola stese ad asciugare, tende in movimento e poi le univo sperando che il solo occhio potesse dare loro il movimento che cercavo. Da lì passai ai movimenti del mio corpo. Decine e decine di gesti congelati che però mi lasciavano sempre insoddisfatta. Risolutivo fu l’incontro con Alessandro Amaducci. Guardavo con un misto di circospezione e fascinazione la sua postazione video, parlavamo molto della mia esigenza di tornare all’immagine, all’archetipo e un mattino – era il giugno del 2012 – gli dissi che volevo realizzare un video nel quale mi spellavo. Avevo già tutto in mente. Sapevo come volevo il risultato finale. Disseminai il mio corpo di colla vinilica, gli chiesi di aiutarmi nelle riprese e nel montaggio. Istintivamente – pur non sapendo niente di post produzione – iniziai a fare dei tagli alle riprese, cercando di spiegargli cosa volevo dall’esito finale. Chiesi inoltre ad Alessandro di farmi vedere più video possibili. Lui intuì la mia tendenza a preferire un certo cinema sperimentale. Mi ‘presentò’ Maya Deren ed io sentii una profonda appartenenza. Avevo dunque trovato una ‘madre’ da assorbire e poi da dimenticare per fare me stessa. Quell’estate realizzai altri quattro video. E da lì non mi sono più fermata. Da qualche anno nei miei lavori – sia fotografici sia video – è tornata anche la parola. [fig. 1] Difficilmente riesco a definirmi fotografa e/o videoartista. Spiego sempre che per me – foto e video – sono solo mezzi per restituire un’immagine. Non ho la presunzione di conoscere tutto di questi mezzi, ma so di loro – almeno ad oggi – quanto basta per la ricerca che sto portando avanti sulla memoria e la metamorfosi. Non sono ancora certa di avere scelto unicamente foto e video – ma anche perché non mi precludo mai nessuna possibilità ‘altra’ – diciamo che per adesso (anche se è un ‘adesso’ che dura da un bel po’ di anni) sono loro ad aver scelto me.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Nel tentare una prima forma di epurazione nei confronti del suo avversario, Stalin fece cancellare Lev Trotskij dalla fotografia che lo ritraeva al fianco di Lenin durante un comizio tenuto da quest’ultimo nel 1920; lo stesso fece Hitler nel momento in cui, spinto da motivazioni diverse, decise di far eliminare Goebbels da una fotografia del 1937 che li ritraeva entrambi insieme alla regista Leni Riefenstahl. Gli esempi di manipolazione o di uso di media differenti come veicolo di un messaggio ideologico potrebbero moltiplicarsi se si considera il ventennio fascista e l’immagine che di sé Mussolini diffuse servendosi della fotografia, del cinema, degli organi di stampa. Tra i possibili impieghi delle immagini, siano esse statiche o in movimento, l’utilizzo con finalità di propaganda politica o perfino di oppressione è stato ampiamente praticato dai sistemi di governo che si sono succeduti nel corso del Novecento. Ma se gli espedienti retorici messi in atto dal potere in funzione della propria predominanza sono oramai noti e ampiamente dibattuti, ancora ricco di nuove esplorazioni è il campo d’indagine preso in esame da Christian Uva nel volume L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta (Milano-Udine, Mimesis, 2015). Il saggio si allontana dall’osservazione dei media ufficiali e dà voce alle immagini cinematografiche, elettroniche e fotografiche che con essi instaurano un rapporto di antagonismo, ponendosi come schegge di resistenza e di controinformazione. Lo scenario storico in cui le immagini analizzate esplicano la loro valenza politica non è quello dei regimi totalitari, ma il decennio caldo degli anni Settanta in Italia, racchiuso tra le contraddizioni del 1968 e le lotte armate che tra il 1977 e l’anno successivo raggiungono esiti controversi.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2