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Quando l’angelo più splendente del Paradiso, Lucifero, tentò di diventare simile a Dio, precipitando dal cielo fu inghiottito dalla Terra che, ritraendosi, formò l’Inferno. L’unico luogo che abiterà per il resto dei suoi giorni sarà questo imbuto infuocato ma oscuro che arde senza bruciare. Da questo luogo inospitale, fin dalla notte dei tempi, il diavolo seduce e atterrisce l’uomo, ignaro delle sue menzogne. È il serpente sull’albero della conoscenza, nel giardino dell’Eden, che artisti italiani e fiamminghi hanno tramandato in affreschi e dipinti; si mostra a Dante e Virgilio direttamente dagli inferi della Divina Commedia; è grande eroe nel Paradiso Perduto di Milton e assume le sembianze di Mefistofele nel Faust di Goethe. L’angelo ribelle si lega in maniera così indissolubile al genere umano da diventare personaggio chiave della storia dell’uomo. Lo si può persino incontrare negli incubi notturni, le fessure dell’inferno, come li chiamava Borges.

Le immagini e le parole che Demetrio Paparoni, critico saggista e curatore, ha raccolto con tassonomica cura in The Devil. Atlante illustrato del lato oscuro, (24 Ore Cultura, 2017) narrano la storia del principe indiscusso del male, di diavoli e demoni, suoi fidati collaboratori che si insinuano ancora nel nostro quotidiano tra rituali scaramantici e tecnologia avanzata, nutrendo la nostra cultura di immagini e storie. Il male – dice l’autore – non è mai scomparso dal nostro immaginario e ancora oggi è presente nel nostro repertorio iconografico. L’Atlante del lato oscuro si presenta, così, come una sorta di prontuario aggiornato, utile, a riconoscere l’ingannatore e a scongiurare le sue trappole.

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Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci.

Italo Calvino, Un re in ascolto

 

Io ti racconto questa storia affinché tu possa raccontarmela.

Adriana Cavarero, Tu che mi guardi tu che mi racconti

 

Sin dalle prime pagine del nuovo romanzo di Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce (Einaudi Stile Libero, 2017), appare chiaro che uno dei modi per cercare il senso della storia è quello di provare a dipanare il fitto intreccio di rimandi visivi che attraversano lo sviluppo della narrazione. Nel prologo, che precede le tre parti in cui è scandito il racconto della voce narrante (Terra, Aria, Acqua), l’evocazione delle immagini di un’intervista televisiva durante la quale McEnroe, mentre trasmettono alcuni fotogrammi della partita «più importante della sua carriera» giocata a Wimbledon contro Borg nel 1980, si alza e «s’inchina col capo e col busto a sé stesso, cioè all’immagine vittoriosa e giovanissima di sé che scorre nel filmato», annuncia la valenza speculare che la trama visuale riveste per il romanzo. Quella sequenza trasmessa sul piccolo schermo, in cui un uomo adulto rende omaggio e dice addio al simulacro di un sé giovane, suggerisce alla protagonista – una donna che non può più camminare a seguito di un incidente automobilistico che racconta in prima persona – un analogo e straziante requiem alla propria immagine ancora ignara del destino che di là a poco l’avrebbe privata dell’uso delle gambe. La fotografia che la ritrae di schiena, mentre sale le scale del teatro greco di Taormina, diventa il metro che misura la distanza incolmabile dal presente («si tratta di un’altra persona»), ma lascia intuire come la via del racconto sia segnata imprescindibilmente dalla relazione con l’altro e dalle sue corrispondenze («il mio altro, l’unica possibilità che avrei trovato di raccontare di me»).

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Nouvelles histoires de fantômes è l’ultima mostra curata dallo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman, in collaborazione con Arno Gisinger. Un essai visuel, secondo la definizione dello stesso autore, che ricompone nello spazio del Palais de Tokyo e attraverso il dispositivo dell’esposizione molti snodi cruciali del suo pensiero. Come per Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? (Reina Sofia, 2010), e a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione di L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg (2002), la matrice centrale dell’intera operazione, la sua ‘cassetta degli attrezzi’, è l’Atlante della memoria di Warburg.

Centrale per la modalità di orientamento attraverso le immagini proposta dai pannelli del Bilderatlas warburghiano (Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, 2000); per il tema delle Pathosformel e della loro trasmissione, che Didi-Huberman sviluppa in direzione di una riflessione critica costante sul presente, con il concetto di ‘sopravvivenza’ che si trasforma in quello di resistenza politica (Survivance des lucioles, 2009). E ancora, per le modalità attraverso cui le immagini vengono associate tra loro, con l’atlante e il montaggio individuati come temi-figure tra loro correlati e comuni a tutta una generazione di intellettuali tedeschi. È il caso ad esempio del Kriegsfibel di Bertold Brecht, il ‘sillabario’ composto nella forma di un atlante fotografico sul tema della guerra (Quand les images prennent position. L’Œil de l'histoire 1, 2009) che Didi-Huberman non a caso inserisce tra le proiezioni in mostra.

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Dopo una serie di importanti studi sull’opera e sul metodo warburghiani, in Atlas, ou le gai savoir inquiet (terza anta di un trittico intitolato all’«occhio della storia»), Georges Didi-Huberman ha inteso mostrare come dal caso-Mnemosyne si possa ricavare un’idea di «atlante» che non coincide con il significato puramente denotativo attribuito comunemente al termine. Strumento di visualizzazione del sapere, forma ibrida tra parola e immagine, l’atlante diviene così soprattutto traduzione in oggetto non solo librario di un modo ‘diverso’ di organizzare la conoscenza: diverso in primo luogo dal canone positivista dei cui risultati esso era divenuto forma privilegiata di espressione e divulgazione.

Pertanto, di una possibile storia dell’atlante egli non cerca qui di «dérouler le récit, mais plutôt […] tenter de construire une archéologie visuelle autant que théorique» (p. 116). Allo scopo di definire lo statuto epistemologico proprio della forma in questione, egli oppone allo spazio riquadrato e organizzato prospetticamente del tableau il piano orizzontale della table, che può anche accogliere l’accostamento incongruo o addirittura il caos. Nella creazione di un simile concetto si intravede a mio parere l’influenza del famoso tópos novecentista, di origine schiettamente letteraria (dai Chants de Maldoror di Lautréamont), che celebra l’incontro di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo di dissezione anatomica (poi divenuto divisa dell’estetica surrealista). Del resto «le désordre n’est déraison que pour celui qui refuse de penser, de respecter, d’accompagner en quelque sorte, le morcellement du monde. La table serait donc un lieu privilégié pour recueillir et présenter ce morcellement. Pour en affirmer la valeur fondatrice et opératoire, c’est-à-dire la possibilité, toujours ouverte, de se modifier, de produire une nouvelle configuration» (p. 56). A conferma si convocano insieme l’enciclopedia cinese di Borges (quella che suscita la risata dianoetica di Foucault all’inizio de l’Archelogia del sapere) e i mille plateaux di Deleuze e Guattari, le enumerazioni caotiche dello stesso Borges e la ‘macchina per pensare’ di Lullo.

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