Demetrio Paparoni, The Devil. Atlante illustrato del lato oscuro. Da Giotto a Picasso, da Pollock a Serrano, dai tarocchi ai videogiochi

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  copertina di The Devil. Atlante illustrato del lato oscuro

 

Quando l’angelo più splendente del Paradiso, Lucifero, tentò di diventare simile a Dio, precipitando dal cielo fu inghiottito dalla Terra che, ritraendosi, formò l’Inferno. L’unico luogo che abiterà per il resto dei suoi giorni sarà questo imbuto infuocato ma oscuro che arde senza bruciare. Da questo luogo inospitale, fin dalla notte dei tempi, il diavolo seduce e atterrisce l’uomo, ignaro delle sue menzogne. È il serpente sull’albero della conoscenza, nel giardino dell’Eden, che artisti italiani e fiamminghi hanno tramandato in affreschi e dipinti; si mostra a Dante e Virgilio direttamente dagli inferi della Divina Commedia; è grande eroe nel Paradiso Perduto di Milton e assume le sembianze di Mefistofele nel Faust di Goethe. L’angelo ribelle si lega in maniera così indissolubile al genere umano da diventare personaggio chiave della storia dell’uomo. Lo si può persino incontrare negli incubi notturni, le fessure dell’inferno, come li chiamava Borges.

Le immagini e le parole che Demetrio Paparoni, critico saggista e curatore, ha raccolto con tassonomica cura in The Devil. Atlante illustrato del lato oscuro, (24 Ore Cultura, 2017) narrano la storia del principe indiscusso del male, di diavoli e demoni, suoi fidati collaboratori che si insinuano ancora nel nostro quotidiano tra rituali scaramantici e tecnologia avanzata, nutrendo la nostra cultura di immagini e storie. Il male – dice l’autore – non è mai scomparso dal nostro immaginario e ancora oggi è presente nel nostro repertorio iconografico. L’Atlante del lato oscuro si presenta, così, come una sorta di prontuario aggiornato, utile, a riconoscere l’ingannatore e a scongiurare le sue trappole.

Il saggio in questione, in realtà, completa un dittico che ha per testo speculare Cristo e l’impronta dell’arte (Skira, 2015), dove «il divino e la sua rappresentazione nell’arte di ieri e di oggi» sono il fulcro su cui ruota l’intera riflessione. Protagonista del saggio sul Cristo è, appunto, la figura del Figlio di Dio che nella tradizione cattolica è anche uomo, in grado di discendere agli inferi per sconfiggere la morte e promettere la risurrezione. Le due figure, il Redentore e l’Angelo Ribelle, si contrappongono nella dimensione del sacro tra «crudeltà e il terrifico», costituendo due icone estreme che non escludendosi coabitano ancora nella nostra realtà.

Se la presenza di Cristo nell’arte è pretesto trascendentale per rendere visibile l’invisibile, di tutt’altra natura sono le intenzioni di Lucifero. Mostrarsi sempre sotto mentite spoglie è il gioco subdolo che al Devil riesce meglio. Del resto, dice André Gide, citato dall’autore, «mentre non si può servire Dio senza credere in Lui, il Diavolo si fa servire senza che si creda in Lui. Al contrario, non lo si serve tanto supinamente come quando lo si ignora. Lui ha sempre interesse a non farsi riconoscere» (p. 92).

La prima parte del saggio, pertanto, indaga La metamorfosi del diavolo, che Paparoni ritiene essere un passaggio fondamentale per capire il significato che ha assunto nell’arte e nella cultura. Infatti, «essendo il diavolo considerato puro spirito che si incarna in uomini e in animali, raffigurarlo ha posto all’artista più di un problema. Poiché si trattava di dare immagine a un’entità astratta, invisibile, l’artista ha aggirato questa difficoltà ricorrendo alla deformazione, al grottesco» (p. 34).

Così, entrando a pieno titolo nella storia dell’arte, da Giotto a Picasso, da Pollock a Serrano, il male si trasfigura indisturbato fin dentro ai tarocchi e ai videogiochi, non disgustando nemmeno cover di dischi e film, fino ai più comuni oggetti di design che affollano la nostra quotidianità. Indossa indistintamente i panni di una Madonna falsa (1468) nella pittura Vincenzo Foppa, un abito nero dalla collezione The Horn of Plenty (autunno-inverno 2009) di Alexander McQueen o i colori tenui e le forme fluttuanti nell’acquaforte Diavoli che picchiano angeli e arcangeli (1888) di James Ensor. Dimora persino dentro quel dripping del 1947 che Jackson Pollock intitola Lucifer, affine al mosaico del Giudizio Universale (1260-1270) di Coppo di Marcovaldo.

In questo corpus iniziale Paparoni imposta una serie di confronti storico-artistici, tra immagini conosciute e altre più ricercate, che appartengono al passato e rigenerano il nostro presente. Si accompagnano alla storia della letteratura e delle tradizioni religiose, all’antropologia e alla psicologia, rinviando persino alla politica e agli eventi storici degli ultimi anni e costituendo così una disamina introduttiva ai successivi dodici capitoli.

Come gironi infernali queste dodici sezioni, che aprono l’Atlante, sono affollate da figure tremende e sensuali, accattivanti e ripugnanti, letterarie e televisive, sempre imprevedibilmente trasformate dallo scorrere delle stagioni dell’arte. Correlate da brevi didascalie, tessono le fila di un racconto che dalla Caduta degli angeli (cap. I) attraversano le visioni di Dante, Buddha, Milton e le tentazioni di Sant’Antonio, per discendere fino al Popolo e la massa (cap. XII). Proprio il racconto, infatti, per l’autore, rappresenta un elemento intrinseco alla tradizione del diavolo nella storia dell’uomo. «Il male è una componente dinamica della vita.[…] Sono i conflitti generati dal male a mettere in moto le grandi narrazioni dell’arte e della letteratura. Il male è il propellente del racconto» (p. 36).

L’ingresso del peccato nel mondo, con la conseguente cacciata dal Paradiso terrestre, è una colpa tutta al femminile. Il diavolo è donna (cap XI): il serpente tentatore, che ha la testa di donna, seduce Eva che, irresponsabile come Pandora, convince Adamo a mangiare il frutto proibito. Nonostante avesse preso le dovute distanze dalla sua precedente compagna, Lilith, la ribelle e demoniaca, il ‘primo uomo’, rimettendoci anche una costola, dovette ricredersi anche su Eva. Paparoni esplora, così, il femminile nelle sembianze demoniache di Ishtar, divinità babilonese e regina della notte, e in tutte quelle figure di donne che da sempre praticano l’occulto o si consacrano al demonio. La strega del Medioevo riappare moderna in Maleficent, di Robert Stromberg, (2014) e assieme ad Angelina Jolie hanno aspetto seducente e diabolico anche Anita Ekberg, peccaminosa non solo nella Dolce Vita, e Kay Johnson che nel film di Cecil B. De Mille, del 1930 è Madame Satan. Non basta che la donna angelo di Dante o la fanciulla vergine scelta come madre di Dio ridisegnino l’icona di una donna vicino al Paradiso: Victor Hugo ricorda nel dramma Ruy Blas (1838) che «Dio s’è fatto uomo. Il diavolo s’è fatto donna».

Sia pure riconosciuto come mysterium iniquitatis ma anche come strumento di redenzione, il male, dice Paparoni, rivela nell’arte la struttura polare del pensiero umano, una dualità necessaria, una forma riconoscibile che si oppone al bene e alla compiutezza perduta cui aspirano tutti gli uomini. L’uomo non può fare a meno di riconoscerlo anche dentro di sé (cap X. Il diavolo sono io) per affermare libertà e rifiuto dell’omologazione, per esorcizzare i demoni della realtà e cercare e saper riconoscere, come diceva Calvino nelle sue Città Invisibili, «chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno».