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  • Arabeschi n. 15→
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Le immagini ispirate al trittico araldico dei Nostri antenati non solo hanno saputo cogliere un aspetto essenziale delle tre opere di Calvino, ma spesso ne hanno fornito interpretazioni assai acute e inattese. L’intervento intende esaminare una recente transcodificazione visiva del Barone rampante, ovvero il Cosimo di Roger Olmos (2016). Il racconto per immagini dell’artista spagnolo sa dar conto e interpretare uno dei temi chiave del Barone, come di tutta la trilogia, ovvero le metamorfosi del corpo, che nel volume di Olmos divengono il fil rouge della narrazione iconica delle avventure di Cosimo Piovasco di Rondò e dei personaggi a lui vicini. Le trasformazioni fisiche a cui vengono sottoposti i protagonisti del romanzo di Calvino danno conto delle passioni incontenibili che accomunano tutti i personaggi che ruotano intorno al Barone, i cui corpi si fanno specchio e icona di tali monomanie che segnano la loro esistenza.

The images inspired by the trilogy Our Ancestors not only have grasped an essential aspect of Calvino’s work, but have often provided acute and intriguing interpretations of the three novels. The paper examines a recent visual transcoding of The Baronin the Trees, Roger Olmos’Cosimo (2016). Re-telling the story through images only, the Spanish artist focuseson one crucial theme of the Baron, as well as the entire trilogy, namely the metamorphoses of the body.In Olmos’ volume this theme thus provides the fil rouge for narrating the adventures of Cosimo Piovasco di Rondò and the other characters. In Olmos’ pictures, their physical transformations are shown to signify the overwhelming passions that affectthem, whose bodies become a mirror and an icon for the monomanias marking their existence.

 

 

1. Le immagini degli Antenati

Nel 1960, ripubblicando in un volume complessivo la trilogia dei Nostri antenati, Calvino riflette su ciò che lega le opere che la compongono.[1] Lo scrittore ligure insiste sulla comune matrice iconica dei tre romanzi, che li accomuna a molte altre opere calviniane.[2] Parlando del secondo volume della trilogia, il Barone rampante, l’autore rivela l’immagine che lo ha ispirato: «Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? sale, ed entra in un altro mondo; no: sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita».[3] Si tratta di uno dei, non numerosi, casi in cui Calvino traccia uno schizzo dell’immagine da cui ha tratto ispirazione.[4] Ma le icone di partenza celano, naturalmente, una spiccata dimensione metaforica che allude a scottanti questioni storiche ed esistenziali.[5]

Come sottolineato in altra sede, lo scrittore ligure sembra non prendere in considerazione, o non voler mettere in evidenza, nella sua autoriflessione un altro aspetto che tiene insieme i romanzi della trilogia. Le tre icone che ispirano i Nostri antenati condividono un campo metaforico ben preciso: la realizzazione di questa insolita umanità delineata da Calvino si concretizza nel travalicare dei limiti fisici, corporei.[6] Ispirandosi forse all’amato Ovidio citato in molte pagine calviniane, gli Antenati subiscono delle profonde metamorfosi del corpo.[7] Per ottenere una piena completezza interiore, si passa attraverso il dimidiamento fisico, la scissione in parti antitetiche; per affermare la propria presenza, il proprio ruolo sulla terra, bisogna sperimentare la distanza, diventare creature appartenenti a un altro modo, arboreo e non terrestre; infine, per esistere, per esserci, si deve rinunciare al proprio corpo, sperimentare l’assenza, la trasformazione estrema nel nulla dell’armatura vuota di Agilulfo. Per questa ragione Il cavaliere inesistente può essere considerato l’approdo, il compimento, della trilogia, non soltanto per ragioni cronologiche, ma perché mette in scena la metamorfosi più radicale della corporeità come metafora della realizzazione umana.[8]

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Quando l’angelo più splendente del Paradiso, Lucifero, tentò di diventare simile a Dio, precipitando dal cielo fu inghiottito dalla Terra che, ritraendosi, formò l’Inferno. L’unico luogo che abiterà per il resto dei suoi giorni sarà questo imbuto infuocato ma oscuro che arde senza bruciare. Da questo luogo inospitale, fin dalla notte dei tempi, il diavolo seduce e atterrisce l’uomo, ignaro delle sue menzogne. È il serpente sull’albero della conoscenza, nel giardino dell’Eden, che artisti italiani e fiamminghi hanno tramandato in affreschi e dipinti; si mostra a Dante e Virgilio direttamente dagli inferi della Divina Commedia; è grande eroe nel Paradiso Perduto di Milton e assume le sembianze di Mefistofele nel Faust di Goethe. L’angelo ribelle si lega in maniera così indissolubile al genere umano da diventare personaggio chiave della storia dell’uomo. Lo si può persino incontrare negli incubi notturni, le fessure dell’inferno, come li chiamava Borges.

Le immagini e le parole che Demetrio Paparoni, critico saggista e curatore, ha raccolto con tassonomica cura in The Devil. Atlante illustrato del lato oscuro, (24 Ore Cultura, 2017) narrano la storia del principe indiscusso del male, di diavoli e demoni, suoi fidati collaboratori che si insinuano ancora nel nostro quotidiano tra rituali scaramantici e tecnologia avanzata, nutrendo la nostra cultura di immagini e storie. Il male – dice l’autore – non è mai scomparso dal nostro immaginario e ancora oggi è presente nel nostro repertorio iconografico. L’Atlante del lato oscuro si presenta, così, come una sorta di prontuario aggiornato, utile, a riconoscere l’ingannatore e a scongiurare le sue trappole.

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Elise Vigneron, insieme a Hélène Barreau, propone un poetico contrappunto alla domanda sulla possibilità di dare forma all’inafferrabile, un motivo che ha occupato tanti artisti sin dall’inizio del Novecento e che oggi sembra risuonare in maniera inaudita, come se trovasse ai nostri giorni il suo più congruo contesto; lo fa in punta di piedi: all’interrogazione fa eco una condizione, più che una risposta.

Se il punto di partenza delle creazioni dell’Entrouvert è sempre legato a questo nodo problematico, declinato nel suo rapporto concretissimo con la materia, l’occasione drammaturgica è qui la riscrittura del mito di Edipo di Henri Bauchau, Œdipe sur la route (Edipo sulla strada, non a caso di nuovo l’essere en marche), ma le parole del romanzo scivolano via come l’acqua, materia prima di questa creazione: ne rimangono rivoli e tracce atmosferiche, della stessa consistenza della nebbia entro la quale scompare il protagonista alla fine della narrazione di Bauchau. Del racconto originario percepiamo la fluidità e la metamorfosi dei passaggi di stato. L’evolversi drammaturgico è sempre spostato dalla stabilità di una situazione alla condizione d’impermanenza, al trascorrere, anche grazie alla frizione tra luce e ombra, freddo e caldo, fuoco e acqua.

La soluzione efficacissima è di aver saputo far coincidere questo motivo con la presenza scenica dei materiali, che acquistano valore drammaturgico. Così al tema stesso dell’inafferrabilità corrisponde una reificazione capace di assottigliare al massimo lo scarto tra l’idea e la materia che la incarna. Il ‘personaggio’ principale è dunque il ghiaccio; l’acqua allo stato solido è la materia designata a farsi viatico del nostro attraversamento, perenne quête, il materiale più adatto proprio perché destinato a sciogliersi. Il tempo drammaturgico è così scandito dal tempo di fusione del corpo di questo moderno Edipo: una marionetta plasmata nel ghiaccio.

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I film di Franco Angeli, realizzati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, sono ancora poco esplorati. Il loro carattere frammentario e lacune documentative ne rendono difficile la ricostruzione. Questo studio, che attinge ad opere e testi inediti, fa luce sulla complessità della ricerca cinematografica dell’artista inserendola nel più ampio panorama del suo percorso creativo. L’analisi traccia dunque una linea che dalla tecnica della velatura pittorica, che Angeli elabora a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, arriva a quella della sovraimpressione cinematografica. Se la prima immergeva il simbolo - svastiche, falci e martello, lupi capitoline, ‘mezzi dollari’ - nella densità della storia, la seconda attiva il controtempo della relazione tra soggetto e mondo per aprire a nuove possibilità del reale. Per entrambe si tratta di far emergere i fantasmi che increspano la superficie del presente. L’immagine subisce allora un continuo processo di stratificazione, che è luogo della memoria e spazio di trasformazione e metamorfosi del reale.  

Franco Angeli's films, made between late 1960s and early 1970s, are still unexplored. Their fragmented character and documentary gaps make reconstruction difficult. This study, which draws on unpublished works and documents, sheds light on the complexity of the artist's film research and connects it with the widest picture of his creative path. The analysis thus traces a line that from the technique of veiling, which Angeli develops between 1950s and 1960s, comes to that of cinematic double exposure. If the former plunged symbols - swastikas, sickles and hammer, capitoline wolves, 'half dollars’ - into the density of history, the latter activates the relationship between subject and world opening new possibilities of the real. The image thus makes the phantoms emerge to ripple the surface of the present: a continuous stratification process that is the place of the memory and the space of transformation and metamorphosis of the real.

 

Fare il cinema come atto di ribellione e di liberazione individuale; rigettarlo attraverso il disprezzo per raggiungere la capacità di amarlo. 

Franco Angeli, dattiloscritto inedito[1]

 

 

1. Le lacrime delle cose o la materia della memoria

«Non le cose ma le lacrime delle cose».[2] Così Cesare Vivaldi, nel 1960, descrive le opere monocrome che Franco Angeli presenta nella sua prima personale alla galleria La Salita di Roma, dove strati di bende trasparenti – calze di nylon, garza – [3] s’impongono su un colore di fondo creando un’immagine stratificata, complessa. Il dialogo con Burri, che Angeli aveva conosciuto tramite lo scultore Edgardo Mannucci, è già entrato in un territorio di superamento dell’informale dove la materia si alleggerisce nella trasparenza della velatura e il trauma rivive nella leggerezza di un’eco «innestando», come nota Luca Massimo Berbero, «un nuovo rapporto tra peso della materia e levità della percezione».[4] Ferite o memoria delle ferite? Continua Vivaldi:

Un’assenza che tuttavia torna a turbare il presente, come i simboli comunisti e nazi-fascisti che a partire dai primi anni Sessanta Angeli inserisce nelle sue opere. Per lui, nato in una famiglia di salde convinzioni socialiste e antifasciste, che aveva vissuto da bambino l’occupazione tedesca e la liberazione americana, la strada è lo spazio di una memoria dove trauma, storia e ricordi d’infanzia si mescolano in suggestioni visive:

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A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, il tema del corpo ha assunto una posizione centrale nella produzione artistica contemporanea. In tale contesto e tra le diverse discipline anche le tecnologie audiovisive elettroniche hanno contribuito allo sviluppo della rappresentazione del corpo, inizialmente attraverso la documentazione di eventi performativi e incoraggiando pratiche di autoriflessività e, successivamente, grazie allo sviluppo di una grammatica di effetti analogici prima e di una sintassi digitale poi, elaborando una riformulazione genetico-strutturale della fisicità umana come risposta a una problematizzazione dello statuto del soggetto. L’uso creativo del linguaggio elettronico ha così consentito una ricerca basata sulle infrazioni della mimesi e della verosimiglianza, affermando autonomia e indipendenza nella rappresentazione di possibili mondi creativi, utopici. In ambito italiano, Alessandro Amaducci ha sviluppato una intensa ricerca sulla rappresentazione del corpo, in particolare quello femminile, delineando possibili forme de “l’altro” che di fatto popolano un universo “altrove”, fantastico. Adottando alcune prospettive teoriche che spaziano dalle teorie letterarie agli studi psicoanalitici, il saggio vuole evidenziare come l’opera di Amaducci dia vita a figure che mettono in discussione il concetto stesso di identità, attraverso processi di trasformazione che avvengono tra moltiplicazioni, anomalie e trasgressioni.

Starting from the 1960’s, the body theme gained a central position in the contemporary art production. In this context and between the various disciplines, electronic audiovisual technologies have also contributed to the development of body representation: at the beginning documenting performing events and encouraging self-reflexive practices and, therefore, thanks to the development of a grammar of analogue effects and of a digital syntax, by elaborating a genetic-structural reformulation of human physicality as a response to a problematization of the subject's status. The creative use of electronic language has allowed a research based on the violation of mimesis and verisimilitude, asserting autonomy and independence in the representation of possible creative and utopian worlds. In the Italian context, Alessandro Amaducci has developed an intense research into the representation of the body, especially the feminine, outlining possible forms of "the other" that in fact crowd a universe "elsewhere", fantastic. By adopting some theoretical perspectives ranging from literary theories to psychoanalytic studies, this essay wishes to highlight how Amaducci's work gives life to figures that question the very concept of identity through processes of transformation occurring between multiplication, anomalies and transgressions.

 

 

1. Una premessa storica, tra attenzione per il corpo e avvento delle tecnologie audiovisive

In epoca recente e, con maggiore precisione, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, il tema del corpo si è imposto come centrale nella ricerca artistica contemporanea, declinato in una varietà di prospettive di analisi che si sono andate espandendo anche seguendo il ritmo degli sviluppi delle tecnologie audiovisive.

Se da un lato questo tema ha attraversato trasversalmente epoche e discipline, riconfermando il corpo come soggetto d’indagine privilegiato delle pratiche ritrattistiche e autoritrattisiche,[1] col tempo si è passati dalla fissità della contemplazione e della rappresentazione alla concezione di una presenza attiva in performance ed happening, momenti spettacolari fondamentali per la Ê»mostrazioneʼ/esibizione del sé e l’incontro con lo spettatore. In tal senso il movimento Fluxus, fautore di una concezione dell’arte che avrebbe dovuto legarsi maggiormente con la vita quotidiana, non per mettere ordine nel mondo, ma per suggerire «metodi di aggregazione capaci di sviluppare processi di conoscenza interna ed esterna, interiore ed esteriore»,[2] ha messo in primo piano il corpo dell’artista nella strutturazione degli eventi, rendendolo protagonista con la sua libertà fisica nella rottura delle gestualità di routine, attraverso la manifestazione di una fisicità a-funzionale e a-logica, tesa a farsi tramite con le sfere dell’inconscio e a innescare una modificazione delle coscienze a partire dall’esperienza del quotidiano.

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Evidenziando il connubio tra il motivo della corporeità e l’atto della lettura nel romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, il contributo offre un’indagine parallela della metamorfosi del corpo dei personaggi femminili, presenti sia nei diversi incipit di romanzo che nel corso dell’avventura del Lettore, e dei continui mutamenti a cui è sottoposto il libro oggetto di inseguimento. La lettura del metaromanzo calviniano secondo questa prospettiva non trascura un’altra categoria peculiare, strettamente connessa al tema del corpo fisico e della corporea materialità di carta e inchiostro che pervade le pagine del Viaggiatore: la dimensione visuale e la centralità della vista nello sviluppo diegetico.

  Drawing attention to the union between the theme of corporeity and the act of reading in the Italo Calvino novel Se una notte d’inverno un viaggiatore, the essay offers a close reading of female characters’ body metamorphosis, both in the different incipit of novels and in the Reader’s narrative, and of the book chased and constantly changing. The reading of the metafiction by this perspective does not overlook another peculiar category, closely connected to the theme of physical body and of paper and ink materiality invading the pages of Viaggiatore: the visual aspect and the centrality of the view in the diegetic development.

 

La dimensione visuale pervade gli spazi semantici di Se una notte d’inverno un viaggiatore molto più di quanto finora sia stato messo in luce, imponendosi sotterraneamente come elemento ‘continuativo’ nelle dinamiche narrative di questo libro dato alle stampe nel ’79 da uno scrittore sempre prepotentemente visivo e visionario come Calvino.[1]

I precedenti testi a cornice, Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili, risultavano già apertamente giocati dallo scrittore sul registro della visualità attraverso la presenza iconografica dei tarocchi, assunti a tasselli di racconto, e attraverso le descrizioni delle surreali città ‘viste’ e visitate da Marco Polo; in entrambi i casi la componente legata alla vista si saldava alla produzione stessa della narrazione, esplicitandosi come elemento centrale e determinante tanto nell’uno quanto nell’altro romanzo. Di certo meno ‘evidente’ nel terzo grande libro combinatorio, la visualità occupa in realtà nel Viaggiatore il cuore stesso del testo, coincidente con quella passione per la lettura che passa appunto integralmente attraverso la vista. È tramite l’occhio che viene soddisfatto il desiderio del lettore, con un’attività tutta visiva, oltre che immaginativa, che gli procura piacere,[2] e che in modo deliberato è insistentemente associata nell’economia complessiva del romanzo al vagheggiamento e inseguimento della donna. Pure il desiderio del corpo femminile passa del resto primariamente attraverso la vista (nonché anch’esso attraverso l’immaginazione), in un interscambio-sovrapposizione tra l’inseguimento del libro che sfugge e della lei che sfugge che emerge chiaramente come uno dei tratti caratterizzanti del metaromanzo calviniano.

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Il tema della metamorfosi dei corpi nelle rifrazioni della videoarte è al centro di questo dossier che offre, grazie a sguardi eclettici, una mappa di significative occorrenze, declinate con grande rigore e puntualità di metodo. Il gruppo di ricerca che si muove intorno al magistero di Sandra Lischi aggiunge al nostro numero monografico dei bagliori e delle onde elettroniche indispensabili per cogliere fino in fondo le vibrazioni di un linguaggio ibrido e mutante per statuto.

 

 

All’inizio ci sono i monitor con le immagini distorte, nella mostra di Nam June Paik alla galleria Parnass di Wuppertal del 1963; insomma, si sa che Paik col suo Ê»gestoʼ ha scoperto la televisione astratta o come diceva nel titolo della sua mostra, la televisione elettronica, cioè diversa da quella che imitava il cinema, la radio, il teatro. Questione di segnali, di campi di energia: la metamorfosi è l’elemento costitutivo dell’immagine elettronica. Ma ci sono anche i volti distorti da Paik, con le deformazioni del presidente Nixon in TV durante le trasmissioni sulla guerra in Vietnam: da subito, dai primi anni del video, il volto, il corpo, diventano la materia prima per una sperimentazione con le immagini elettroniche, sia che provengano dalla televisione quotidiana sia che derivino dalla ricerca sul corpo stesso dell’autore.

All’inizio, però, ci sono anche le utopie delle avanguardie cinematografiche: il film-corpo, la città-corpo di Dziga Vertov che, come in un catalogo inesauribile di meraviglie, di senso e di sensi, ci mostra le possibili metamorfosi consentite dal cinema; non chiamiamole trucchi, scriveva, ma procedimenti, giacché non si tratta di qualcosa di artificioso e di posticcio, né di un maquillage fatto per ingannare. Il cinema ha dentro di sé dei procedimenti per modificare lo sguardo e il pensiero: usiamoli. La storia del cinema d’avanguardia, si sa, è anche storia delle scoperte di tanti diversi Ê»cine-occhiʼ, storia delle possibili, e talvolta attuate, metamorfosi di immagini ma anche di punti di vista (del filmmaker e dello spettatore) e di schermi (come quantità, come consistenza, come invenzione di superfici per la proiezione). È attraversata anche da utopie di attrezzi mobili e ubiqui, di protesi corporee, di macchine da presa piccole, leggere, volanti, capaci di guardare dentro il corpo, di scorgere l’infinitamente piccolo e l’infinitamente lontano, di vedere l’invisibile per far pensare l’impensabile. Indifferenza per il prodotto ben confezionato a favore del processo, il quale è divenire, è metamorfosi. L’idea di cinepresa, e di medium in genere, come protesi ed estensione del nostro corpo e del nostro sistema nervoso, da visionaria è diventata uno dei pilastri della riflessione di Marshall McLuhan negli anni Sessanta del Novecento, ripresa poi dalla videoarte. Pensiamo a Paik che nei primi tempi del video installa dei monitor sul corpo di Charlotte Moorman a mo’ di reggiseno tecnologico (TV Bra for a living sculpture, 1975); e pensiamo a Moorman che Ê»suonaʼ la schiena di Paik, il quale si tende una corda sul dorso come fosse un violoncello (il pezzo è da una composizione di John Cage).

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In più occasioni Calvino insiste sull’ispirazione visiva dei tre racconti fantastici che compongono i Nostri antenati. Lo scrittore ligure non ammette però che accomuna le tre immagini di partenza la stessa sfera metaforica, ovvero la corporeità e le limitazioni alle quali è sottoposta. L’intervento intende esaminare le declinazioni di questa scrittura per immagini che ruota intorno all’idea di superamento dei limiti della corporeità, quale metafora del «realizzarsi come esseri umani». Le metamorfosi a cui è sottoposto il corpo nel Cavaliere inesistente e la loro rappresentazione vengono analizzate come caso esemplare di questo processo creativo che sta alla base della trilogia di Calvino.

Italo Calvino has often pointed out that the three novels of the trilogy Our Ancestors have their primary inspiration in specific images. He, however, has never remarked that the three visual sources belong to the same metaphorical field: the body and its limits. The article examines how Calvino’s literary development of those images revolves around the central issue of overcoming physical limitations as a metaphor for “self-realisation as human beings”. The metamorphoses of the body in The Nonexistent Knight and their literary representation are here investigated as a foremost example of this pivotal process at the core of Calvino’s trilogy.

 

1. Il volto degli antenati

L’attività di autoriflessione di artisti e scrittori è fenomeno ben noto e prezioso per la critica letteraria, dal momento che negli spazi di autocommento spesso si annidano rivelazioni illuminanti sui testi e la loro genesi.[1] Se in molti casi gli autori sono stati parchi nel fornire commenti alle proprie opere, Italo Calvino, per contro, si è dedicato a tale attività in modo potremmo dire sistematico e cospicuo. L’autore ligure non soltanto ha frequentato in modo estensivo la forma saggio, autoinvestigando attraverso gli strumenti della saggistica le proprie scelte poetiche, ma in più occasioni ha dichiarato intenti e significati dei suoi scritti in introduzioni e prefazioni prodighe di dettagli e spiegazioni sui testi che accompagnavano.

La Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno è forse lo scritto più noto della produzione calviniana di autocommento. Non meno rilevanti e illuminanti, però, sono altri testi prefatori, come ad esempio i due scritti, uno edito e l’altro emerso grazie ai Meridiani mondadoriani, che illustrano genesi e significati della trilogia araldica dei Nostri antenati.

Nel 1960, in occasione della pubblicazione dei tre romanzi in un volume complessivo, Calvino sente infatti la necessità di illustrare le ragioni che fanno di queste opere un ciclo unitario e compiuto. I volumi che compongono i Nostri antenati, benché nati in momenti lievemente differenti (’52, ’57, ’59) – e fortemente ancorati alle circostanze storiche in cui vennero concepiti –, condividono una matrice genetica comune, sulla quale Calvino insiste sia nella versione edita della Postfazione sia nello scritto che non venne pubblicato: questi romanzi – come molte altre opere calviniane – non sono nati da concetti ben distinti e chiari per l’autore, che attraverso la trasfigurazione fantastica li ha voluti descrivere, sono sorti invece da tre immagini, dalle quali poi hanno preso forma delle questioni che in seguito rimangono sempre centrali per Calvino.

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