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La ricezione del repertorio di Kurt Weill in Italia passa dalla codificazione di uno stile recitativo e musicale legato ai cliché del cabaret e a figure ibride di attrici, cantanti, compositori e registi. Il saggio prova a ricostruire alcune di queste dinamiche a partire dallo specifico contributo di Laura Betti, capace di farsi interprete sottile della poetica weilliana grazie ad accenti performativi unici e a un uso consapevole dei mezzi di registrazione e riproduzione della voce.

The circuitation of Kurt Weill's repertoire in Italy passes from the codification of an acting and musical style linked to the clichés of the cabaret and to the hybrid figures of actresses, singers, composers and directors. The essay tries to reconstruct some of these dynamics starting from the specific contribution of Laura Betti, capable of becoming a subtle interpreter of the Weill’s poetics thanks to unique performative accents and a conscious use of the means of recording and reproducing the voice.

 

In un’intervista di Sonia Raule, rilasciata nel 1968 in Piazza del Popolo in cima a un leone di marmo con ai piedi la coppa Volpi appena ottenuta, Laura Betti afferma: «Io mi annoio a fare cose che non sono al limite del pericolo».[1] Questa regola investe tutti campi in cui si è cimentata e vale forse di più a chiarire la sua carriera di cantante, che di fatto si può interpretare alla luce di un continuo raggiungimento e superamento di questo crinale, laddove il pericolo è gravitare nel mondo della canzone ‘ye ye’. In una delle numerose conversazioni con Roberto Chiesi, del resto, a proposito dei suoi esordi dopo il trasferimento a Roma Betti dichiara: «Io cantavo, ero una bravissima cantante di jazz e ogni volta che c’era una orchestra andavo a cantare, mi piaceva … ma è che sapevo fare nient’altro».[2]

Riprendendo le riflessioni di Stefania Rimini[3] sulla natura poliedrica di Betti, sulla varietà di maschere da lei assunte, emerge un tratto peculiare, soltanto suo: la postura di ‘cantante di cabaret’ nel decennio degli anni Sessanta. Nel costruire una maschera così specifica hanno giocato un ruolo fondamentale le interpretazioni di Kurt Weill, per ragioni che questo contributo prova a indagare.

Vi è un filo conduttore fra le tendenze del teatro di parola e musicale dei primi vent’anni del Novecento nella Repubblica di Weimar e l’effervescenza degli ambiti teatrali di Milano e Roma fra gli anni Cinquanta e Sessanta in Italia, che trova efficace, innovativa espressione nel cabaret.

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Banksy, Jean-Michel Basquiat, Joseph Beuys, Urs Fischer, Luigi Ghirri, Damien Hirst, Jeff Koons, Keith Haring, Sarah Lucas, Yoko Ono, Robert Mapplethorpe, Michelangelo Pistoletto, Roy Lichtenstein, Mark Ryden, Mario Schifano, Julian Schnabel, Andy Warhol, ma anche Salvador Dalì, Yves Klein, Réné Magritte, Pablo Picasso: questi sono soltanto alcuni dei nomi che hanno firmato le cinquecento copertine che, come se si sfogliasse una mostra permanente di arte applicata alla popular music, si possono ammirare nel corposo volume trilingue Art Record Covers curato da Francesco Spampinato (con la supervisione editoriale di Julius Wiedermann) per i tipi di Taschen.

Il volume, che fornisce un primo orientamento a un settore dei visual studies ancora da esplorare sistematicamente, è mosso da un obiettivo che Spampinato chiaramente enuncia al termine dell’introduzione: «to present the record cover as a quintessential medium for an expanded approach to art, stemming from the artist’s increasing desire to transcend the boundaries between different cultural forms while at the same time commenting on and exposing the mechanisms that regulate mainstream media and entertainment» (p. 12).

Di tale ‘approccio espanso all’arte’ Spampinato si dedica a ricostruire le principali linee di direzione con una sintetica ma esaustiva visione d’insieme: dalle prime collaborazioni negli anni Quaranta di Alex Steinweiss con la Columbia Records alla realizzazione di Salvador Dalì nel 1955 della copertina di un album di una star televisiva americana, dai vari lavori degli anni Cinquanta e Sessanta di Picasso, Miro e Dubuffet alla psichedelia pop del 1967 di Andy Wharol e Peter Blake – rispettivamente per Banana dei Velvet Underground e Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club dei Beatles –, dai ribellismi punk degli anni Settanta di artisti come Martin Kippenberger e Albert Oehlen alle provocazioni dell’hip-hop newyorkese degli anni Ottanta di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, dai Young British Artists degli anni Novanta sino alle più recenti sperimentazioni optical di Lisa Alvarado, Tauba Auerbach e gli artisti della corrente Post-Internet.

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