In un’intervista di Sonia Raule, rilasciata nel 1968 in Piazza del Popolo in cima a un leone di marmo con ai piedi la coppa Volpi appena ottenuta, Laura Betti afferma: «Io mi annoio a fare cose che non sono al limite del pericolo».[1] Questa regola investe tutti campi in cui si è cimentata e vale forse di più a chiarire la sua carriera di cantante, che di fatto si può interpretare alla luce di un continuo raggiungimento e superamento di questo crinale, laddove il pericolo è gravitare nel mondo della canzone ‘ye ye’. In una delle numerose conversazioni con Roberto Chiesi, del resto, a proposito dei suoi esordi dopo il trasferimento a Roma Betti dichiara: «Io cantavo, ero una bravissima cantante di jazz e ogni volta che c’era una orchestra andavo a cantare, mi piaceva … ma è che sapevo fare nient’altro».[2]
Riprendendo le riflessioni di Stefania Rimini[3] sulla natura poliedrica di Betti, sulla varietà di maschere da lei assunte, emerge un tratto peculiare, soltanto suo: la postura di ‘cantante di cabaret’ nel decennio degli anni Sessanta. Nel costruire una maschera così specifica hanno giocato un ruolo fondamentale le interpretazioni di Kurt Weill, per ragioni che questo contributo prova a indagare.
Vi è un filo conduttore fra le tendenze del teatro di parola e musicale dei primi vent’anni del Novecento nella Repubblica di Weimar e l’effervescenza degli ambiti teatrali di Milano e Roma fra gli anni Cinquanta e Sessanta in Italia, che trova efficace, innovativa espressione nel cabaret.
Il cabaret gode di una origine letteraria, la sua forza d’urto è indiscutibile, i suoi fondamenti tecnici, che all’inizio suscitarono sospetto e squalifiche hanno finito per giovargli: una natura composita, un mobile mosaico che si ravviva perenne dentro un variopinto crogiolo in cui vengono mescolati – senza riguardo e senza tregua – musiche e parole, mimica e poesia, teatro e rivista, diapositive e proiezioni, conferenze e canzoni. […] Avanguardia, frammentarietà e anticonformismo spingevano anche inesorabilmente alla ricerca linguistica, evitando la trappola in virtù del suo quarto pilastro: il proposito politico. […]
Non a caso, quando le tensioni cominciarono a surriscaldarsi e la politicizzazione invase ogni settore dell’attività nazionale e la satira parve obiettivo limitato, fu a Milano che prese avvio la seconda ondata e il discorso si fece rapidamente politico. […] Seguì un momento di ristagno ma intanto cresceva una classe di autori spregiudicati ed emergeva una generazione che se non aveva conosciuto il fascino della Resistenza non ne aveva però nemmeno patito il logorio. […] Irruppe Laura Betti, amica di letterati ed epigrammisti, quasi sbattuta sul palcoscenico a smaltire la copiosa produzione finora salottiera e redazionale.[4]
Gli elementi di avanguardia, frammentarietà e anticonformismo sono incarnati fino in fondo da Laura Betti, che nei suoi spettacoli non solo ‘brucia’ i paraventi del perbenismo ‘salottiero’ ma giunge a costruire una vocalità ibrida, insistendo sul labile confine fra parola cantata e recitata.
A rendere possibile tale ‘paradosso’ contribuirono da una parte gli scrittori, trascinati a scrivere dalla ‘giaguara’ testi ‘urticanti’ per l’industria culturale degli anni Sessanta, dall’altra la diffusione in Italia del paradigma brechtiano, da intendersi in un’accezione performativa ampia, grazie alla circolazione dei song di Weill. Betti diviene presto l’interprete modello di una stagione teatrale che punta all’eclettismo, che non rinuncia al mix di stili e codici e così prima di passare in rassegna i tratti peculiari della sua vocalità canora è bene ricordare in quale contesto cominciarono a circolare le opere del duo impareggiabile Brecht-Weill.
1. Weill in Italia
La ricezione[5] di Kurt Weill in Italia nel secondo Novecento, dopo la sua morte avvenuta nel 1950, assume una connotazione peculiare, in quanto la figura del compositore subisce una polarizzazione entro un contesto già fortemente orientato.[6] Un cambio di passo si ha nel 1983 con il primo convegno internazionale tenutosi a New Haven (CT) che celebra anche la costituzione del Weill/Lenya Archive presso la Yale University e del Weill Lenya Research Center a New York, segnando l’inizio di un nuovo corso negli studi musicologici sul compositore.[7] Fino alla costituzione dell’archivio a Yale e del centro di ricerca a New York, infatti, le ricerche su Weill erano state lacunose e non basate sulle comuni fonti musicologiche, poiché l’accesso ai materiali primari era difficoltoso. Negli anni Ottanta invece vengono pubblicate quattro biografie (in tedesco e in inglese), il volume Kurt Weill in Europe di Kim Kowalke (1979), Weill und Brecht: Das musikalische Zeittheater di Gottfried Wagner (1977) – Weill e Brecht in traduzione italiana nel 1992 –, e una serie di contributi su riviste generaliste e specialistiche. Nel 1986 il volume collettaneo A New Orpheus. Essays on Kurt Weill curato da Kim Kowalke consente l’avvio di una differente ricerca sull’artista, contraddistinta dal progressivo superamento di quella «diffusa opinione che vorrebbe Weill, dopo il distacco da Brecht, votato ad un commercialismo senza scrupoli che imperava a Broadway. […] L’opinione corrente, secondo la quale Kurt Weill in America avrebbe composto con un’ottica puramente commerciale, è estremamente discutibile».[8]
Nell’Italia del secondo Novecento l’idea di Weill puramente commerciale ha trovato terreno fertile, ma è doveroso riportare alcune posizioni di apertura verso la sua produzione americana riscontrabili già nel 1948. Risale al dicembre di quell’anno la corrispondenza fra Weill e Ferdinando Ballo, direttore artistico del Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, che scrive al compositore per rivolgergli un invito:
[…] Nel programma del Festival di Venezia di quest’anno (3-18 settembre 1949) desidererei eseguire un’opera sua e si offrono queste possibilità:
I – rappresentare Mahagonny secondo l’edizione di Parigi.
II – esaminare e decidere se rappresentare Dow [Sic.] in the Valley oppure Street Scene.
[…] Nel caso che decidessimo di dare uno di questi suoi lavori americani, si potrà esaminare la possibilità di far venire dall’America eventualmente i registi, i ballerini e qualche cantante. Dopo aver tanto amato la sua musica sono lieto di aver finalmente l’occasione di entrare in rapporti diretti con Lei e spero che verrà un giorno in cui potremo conoscerci personalmente.[9]
La risposta di Weill non si fa attendere: il 29 dicembre 1948 il compositore invia la seguente missiva:
Dear Signor Ballo, […] it seems to me that it will be much more attractive to present one of my more recent works, than to revive a work like “Mahagonny” which was very much an expression of the decade after the first world war. The most important of my recent works is “Street Scene” because I have attempted a new kind of simplicity and directness of expression in this score. It is an American opera in the true sense of the word, probably the only opera in the vernacular of the large American city. The action (in one decor) takes place in front of an apartment house in a poor district of New York and the characters represent the different nationalities (Irish, Italian, Swedish, Negro, Jewish) who live together in the streets of New York. “Street Scene” which played for 5 months at the Adelphi Theatre, has been generally recognised as the first significant American opera since Gershwin’s “Porgy and Bess” and, from this standpoint, I think it would be interesting to a European audience. […] Since the action of this opera is very realistic and some of the scenes are in dialogue, I would prefer if it could be performed in Italian.[10]
Nella lettera del 18 gennaio 1949, ultimo atto della corrispondenza fra i due, il direttore artistico non fa mistero delle difficoltà di mettere in scena in Italia un’opera come Street Scene:
Ho ricevuto la sua gentilissima lettera e lo spartito di Street Scene che mi ha assai interessato. Ho esaminato la possibilità di dare questa opera a Venezia e vedo che la difficoltà principale è quella di trovare degli attori che sappiano recitare e cantare, e soprattutto ballare come Scheila Bond e Danny Daniels. In Italia i cantanti cantano e recitano come nei Pagliacci o nella Tosca! Dovrei quindi cercare questi attori cantanti fra gli artisti del varietà o della rivista e in questo anno non sarei sicuro di poter arrivare a formare una compagnia sufficientemente perfetta, tanto più che al Festival di Venezia si danno al massimo due rappresentazioni. […] per quanto riguarda il Festival del settembre 1949 io penso convenga puntare su Mahagonny dato che in Italia non si conosce nulla della vostra produzione europea.[11]
Dagli estratti di questa corrispondenza emergono alcuni elementi salienti sulla ricezione del compositore in Italia e sulla sua poetica, che rappresentano la premessa ideale al discorso su Betti come interprete di Weill. La scarsa diffusione della produzione europea del compositore fa sì che la proposta di portare in scena Mahagonny, lungi dall’essere un’operazione di retroguardia, rappresenti comunque un’acquisizione importante per il pubblico e per la cultura nostrana (sebbene Weill appaia di diverso parere). Pur comprendendo il peso delle novità espressive di Street Scene, il ‘povero’ Ballo non può non sottolineare l’inadeguatezza dello statuto recitativo dei cantanti ‘di tradizione’ rispetto al dinamismo performativo immaginato dallo stesso Weill.[12]
Sarà proprio Betti a costruire, non senza parossismi e complicazioni, un paradigma weilliano in grado di traghettare nel perimetro della scena italiana le istanze di rinnovamento linguistico e musicale già codificate dal compositore ai tempi di Brecht e poi ‘rimediate’ nel nuovo contesto americano. Gli anni fra il 1961 e il 1965 sono determinanti per la cantante-attrice, perché è dentro questo intervallo che manifesterà una spiccata vocazione cabarettistica, indispensabile per tradurre le vibrazioni di certe opere weilliane (oltre che di nuovi format musicali). Il 10 maggio del 1961 è la protagonista di I sette peccati capitali per la regia di Luigi Squarzina, una prova decisiva sul piano della resa del carattere della protagonista;[13] nello stesso anno è impegnata nel concerto-spettacolo di cabaret letterario Giro a vuoto, cui risale la sua prima collaborazione con Pasolini. Betti così commentò queste esperienze: «Ho fatto fiori di opere di Brecht e Weill, ho fatto I sette peccati capitali senza microfono e Milva l’ha fatto col microfono. Ero anche molto bella, beh insomma ero un tipo».[14]
Al 1963 risale l’incisione di due album 33 giri: Laura Betti canta Kurt Weill 1900-1933 e Laura Betti canta Kurt Weill 1933-1950, entrambi con gli arrangiamenti e la direzione orchestrale di Bruno Maderna,[15] presentati da Roberto Leydi con la partecipazione di Vittorio De Sica.
Nel 1964 a Firenze interpreta «la parte del cinesino» in Der Jasager, il dramma didattico di Brecht, per cui Weill ha composto le musiche. Le notizie a riguardo sono esigue, ma provando a ‘scartabellare’ laa rassegna critica sul Corriere della Sera del 1964 emerge non tanto una recensione dello spettacolo di Firenze, quanto la presentazione di un programma radiofonico di test musicali dedicato alle «ragazze alla moda»:
le ragazze dai quindici ai venticinque anni potranno, attraverso cinque motivi in voga riconoscere il tipo a cui appartengono, potranno cioè sapere se hanno la stoffa della romantica o della sofisticata, della casalinga o della realista, della snob o dell’intellettuale. […] la sofisticata adopererà «liberty» per indicare una preferenza; le timide rivedranno nel ritratto della Lucia manzoniana il loro carattere; la realista si identificherà nei brani di Ray Charles e dei Beatles; mentre la ragazza snob sognerà un recital di Laura Betti e Kurt Weill.[16]
Un tale accostamento («la ragazza snob sognerà un recital di Laura Betti e Kurt Weill») appare quanto mai singolare per lo scollamento dalla poetica di Weill e dall’assimilazione di essa che proprio in quegli anni Laura Betti iniziava a indagare: difficile pensare che la ragazza snob possa davvero immedesimarsi nella postura cabarettistica di Betti, nella frizione fra colto e popolare che andava praticando e proprio per tale ragione questa testimonianza resta affatto scontata tanto più che nel 1965 esce nella collana I dischi del sole l’album Ordine e disordine, in cui compare la canzone M’hai scocciato, Johnny. L’album raccoglieva le canzoni e il monologo dello spettacolo Potentissima signora, su cui Betti ebbe modo di ricordare:
Era uno strano spettacolo, atti unici e canzoni. Ricordo la difficoltà di farlo accettare dal pubblico. Era un bellissimo spettacolo, molto in anticipo sui tempi. Era il periodo più bello di Missiroli, che è stato davvero molto bravo, notevole, diverso dagli altri. Era uno spettacolo avanzato, ce ne rendevamo conto. Come proposta teatrale e come modo di recitarlo. E quindi rimase un po’ a mezza asta tra il successo, anche forte e l’insuccesso… l’insuccesso? Forse sì, comunque la contestazione.[17]
Nelle note di accompagnamento all’album Ordine e disordine, è riprodotto un autoritratto sardonico di Laura Betti, dal quale emerge immediatamente quanto l’incontro con l’opera di Weill, soprattutto con la sua poetica sul teatro musicale e sulla funzione del cabaret, sia stato fondamentale per la sua carriera di cantante. Nelle righe finali l’artista scrive:
Incontro con Kurt Weill e consacrazione con “I sette peccati capitali” (Filarmonica Romana, regia di Squarzina). Un successivo “Giro a vuoto” con prima parte consistente in un Omaggio a Kurt Weill. Incisione di un album (due 33) di musiche di Weill per gli arrangiamenti e la direzione orchestrale di Bruno Maderna. A Firenze (Accademia Cherubini) nel ’64 interpreta anche “Der Jasager” di Brecht e Weill (la parte del cinesino). Quest’anno “Potentissima signora”.
La centralità delle interpretazioni di Weill in questa fase della carriera di Betti trova conferma nell’intensa attività di spettacoli a cui presta voce e pathos e così attraverso il suo personale stile espressivo è possibile individuare una terza via[18] alla circuitazione del repertorio del compositore.
2. Le voci weilliane di Laura Betti
I due album Kurt Weill 1900-1933 e Kurt Weill 1933-1950 assumono un carattere nodale, perché oltre a coprire l’intera produzione del compositore – con ampia selezione dei lavori americani – in essi le scelte delle canzoni non gravitano in maniera esclusiva sui capisaldi del suo repertorio europeo.[19] Per cogliere tutte le vibrazioni della presenza vocale di Betti nel contesto degli ‘adattamenti’ weilliani si propone adesso un modello di analisi spettrografica[20] utile a chiarire le diverse altezze e il diverso spessore della grana con cui l’attrice sceglie di ‘entrare’ nei brani, secondo quell’idea di ‘pericolo’ che le ha permesso di non essere mai una cantante alla moda.
Osservando da vicino le caratteristiche della voce di Betti si può notare come questa sia basata su un processo di incisione e riproduzione, sottoposta poi a un trattamento elettronico. L’amplificazione permette alla cantante una vocalità intima, non ‘urlata’ ma sempre in primo piano, alla quale si aggiunge un forte uso della riverberazione artificiale, dosata in maniera differenziata nel corso della canzone. Ad esempio nell’interpretazione di Speak Low dell’album Kurt Weill 1933-1950 Betti canta con una tecnica e una grana vocale che contraddistinguono il musical. La melodia, semplice, cantata dolcemente e in maniera lineare con uso non eccessivo di vibrati, poggia su un sostrato strumentale reso complesso dalla moltiplicazione di elementi e dalla sovrapposizione di linee operate da Maderna: proprio la semplice melodiosità della linea vocale permette un arrangiamento così complesso. All’inizio della coda (a 2’53” dall’avvio del brano) la voce riprende il canto dopo l’intermezzo strumentale con un lento glissando prima ascendente e poi discendente, non presente in alcun passo della partitura weilliana.
Proprio questo elemento è sottoposto a una riverberazione tale da creare il persistere per diversi secondi dell’altezza di picco, come segnalato mediante le frecce nello spettrogramma: qui le riflessioni hanno quasi lo stesso volume dell’onda diretta, come si nota dal raddoppio dell’immagine vocale tra il glissando discendente, sovrapposto alla nota tenuta a 210 Hertz (e alle sue parziali superiori). Nel prosieguo, successivo alla riga verticale, non ci sono più tracce della riverberazione artificiale, il suono è asciutto. In questo modo l’immagine spaziale della voce inizia in uno spazio ampio, come se venisse da lontano, poi, quando la melodia riprende un ritmo regolare, la voce torna in primo piano e lo spazio sparisce
L’uso di spazialità differenziate a distanza ravvicinata è tipico di un lavoro sulla voce realizzato mediante tecniche proprie della riproduzione sonora, non fondate sul tempo reale ma sull’incisione fonografica. Questo ‘modo’ non è riservato soltanto al rientro della voce, che assume quasi una funzione teatrale, ma è riscontrabile in diverse parti del medesimo brano.
Nella figura 6 è riportato lo spettrogramma di un estratto tra 3’27” e 3’37”: anche in questo caso si nota un forte riverbero nelle prime note, che fa percepire la presenza di una stanza molto ampia, seguito da un riverbero molto più debole nei secondi successivi – si veda nell’esempio la forte persistenza di segnale nella fascia 270-320 Hertz anche quando la nota vibrata tenuta è finita.
Un percorso inverso invece è evidente nella figura 7, dove si trova una formula di intonazione seguita da una nota tenuta, entrambe in spazio mediamente riverberato e seguite da una formula di intonazione in cui le onde riflesse hanno un’ampiezza maggiore dell’originale, fino alla seconda nota tenuta in cui lo spazio ritorna a essere più secco.
L’uso di strumenti di rielaborazione del segnale applicati alla presenza della voce in Speak Low ha quindi una natura artistica, tipica di una cultura musicale basata su registrazione, processing del segnale e diffusione, e dunque su una vocalità artificiale. La microfonazione e l’amplificazione della voce comportano una diversa percezione della prossimità e dell’intimità della cantante rispetto a una esecuzione che non ne faccia uso; in Speak Low Laura Betti e Bruno Maderna giocano su molteplici livelli di intimità fra la cantante e il fruitore: a tratti l’ascoltatore ha la sensazione di essere vicino alle labbra di Venus, la protagonista della canzone, a tratti sembra essere distante e in spazi molto ampi.
Nel medesimo album si trova Le grand Lustrucu (interpretata da Cathy Berberian negli stessi anni), nella quale le tecniche vocali utilizzate da Betti sono molto diverse rispetto a Speak Low e connesse ad altre finalità drammatico-musicali. La canzone infatti viene eseguita con agogica veloce, ictus tetico e arrangiamento scarno e lugubre; Betti ricorre a una vocalità non operistica, differenziandosi così da quanto ad esempio fa Berberian nella sua interpretazione dell’arrangiamento del brano nelle Folk Songs beriane.
La voce di Betti è veloce e staccata, veicola una maggiore percezione del ritmo di marcia. Diversamente da Berberian, la cantante elimina quasi del tutto i vibrati e le note tenute, vale a dire i riferimenti alla vocalità operistica. Inoltre, come possiamo osservare nella figura 8, le note hanno un marcato portamento all’attacco e all’uscita, un’intonazione quasi glissata. Nello spettrogramma di una parte del ritornello della canzone si può notare come la fase di sustain delle note sia assente, sostituita da lunghi archi che evidenziano i portamenti, quasi glissandi, all’attacco e al decadimento. I pochi vibrati presenti durano al massimo due periodi, sono quindi molto brevi, e sono collocati su una fase già calante dell’intonazione: la voce non tiene l’altezza ma la sfiora.
Nella figura 9, in cui è rappresentata l’esecuzione dell’inizio della canzone, la vocalità ha le medesime caratteristiche della figura 7, che quindi connotano l’esecuzione dell’intero brano. Nell’interpretazione de Le grand Lustucru, Laura Betti elimina ogni connotazione di vocalità operistica, potenzia i glissandi e gioca sul raggiungimento, sullo sfioramento dell’intonazione, portandola a una stretta parentela con la versione originale di Weill per l’opera teatrale con musiche Marie Galante, per la scena parigina del 1934.
Nell’interpretazione di Tango Ballade, infine, si trova una terza tipologia di vocalità. La canzone è tratta dall’Opera da tre soldi ed è un duetto per voce maschile e femminile. Nell’album in oggetto Betti la canta in coppia con Vittorio De Sica, il quale adotta una vocalità strettamente legata alla recitazione e alla Zeitoper. Al contrario Betti adopera una vocalità più ‘urlata’ rispetto alle due interpretazioni precedenti, con un volume maggiore dell’emissione (a bocca aperta) e più simile al pop italiano coevo.
Nella figura è riportato il sonogramma dell’intero primo intervento di Betti nella canzone: da qui risulta evidente la forte intensità delle parziali acute, tipiche della vocalità aperta, per cui si vedono bene le formanti superiori dello spettro sonoro della voce bettiana, approssimativamente intorno ai 1600, ai 2900 e ai 4100 Hz.
Al contrario, in Le grand Lustrucu la vocalità è più simile a quella del parlato, che è più asciutta e chiusa rispetto al canto, al punto che l’energia spettrale si concentra prevalentemente sotto i 1000 Hz: a uno sguardo attento le formanti superiori sono ancora individuabili ma non risaltano in primo piano, prive di frequenze con una quantità significativa di energia.
3. Surabaya Johnny? O M’hai scocciata, Johnny?
Un’analisi particolare è da riservare a Surabaya Johnny, poiché Laura Betti interpreta due volte questa canzone in contesti differenti: prima nell’LP Kurt Weill 1900-1933, poi nel 33 giri Ordine e disordine con il titolo M’hai scocciato, Johnny (testo di Billa Billa,[21] la musica è adattata da Ubaldo Continiello). Surabaya Johnny[22] fa parte di Happy End (1929), un’opera teatrale in tre atti in tedesco su testo di Elisabeth Hauptmann: la protagonista Lilian, nel tentativo disperato di salvare il suo protettore Johnny, riflette su quanto pervasivo sia il potere dell’amore. Nonostante l’abbandono, le crudeltà, i tradimenti di quel mascalzone lei non riesce a non amarlo e cerca quindi di salvarlo.
Le due interpretazioni di Surabaya Johnny sono radicalmente differenti dal testo weilliano, quasi delle opere a sé. Nella prima, per l’album Kurt Weill 1900-1933 con gli arrangiamenti musicali di Bruno Maderna, il lavoro è sulla voce che dialoga con gli arrangiamenti strumentali; nella seconda con il testo tradotto, Laura Betti realizza nello spazio di una canzone un pezzo raffinato di cabaret. A partire dalla scomposizione del suono nelle sue componenti essenziali è possibile analizzare la voce di Laura Betti con lo scopo di comprendere la multiformità degli stili vocali che la cantante era in grado di ottenere.
Nelle figure sono riportati gli spettrogrammi dell’esecuzione maderniana relativi rispettivamente alla prima parte della strofa in 4/4, alla seconda parte in 3/4 e al ritornello. Quel che emerge è una voce pop e aperta (si noti la forte presenza delle medesime formanti acute che abbiamo già visto in Tango Ballade), segnata da altezze intonate, con presenza di vibrati tenuti (11 periodi completi nella parte conclusiva della figura 12, 5 periodi in diverse parti di tutte le figure). Ci sono certamente molti portamenti tra una nota e l’altra, ma non cancellano in alcun modo la fase di sustain.
Al contrario, la rappresentazione spettrografica della voce di M’hai scocciata Johnny (relativa rispettivamente alla prima parte della strofa in 4/4, alla seconda in 3/4 e al ritornello) presenta molte somiglianze con gli elementi rilevati in Le grand Lucustru, pur avendo questo brano un’agogica più lenta. Ciò significa che i glissandi sono più marcati e soprattutto lenti rispetto a Le grand Lucustru, quindi udibili in maniera più chiara. Il riferimento vocale qui è allo Sprechgesang: «Il suono parlato dà l’altezza della nota, ma la abbandona subito, scendendo o salendo», pur non essendo «un parlare realistico-naturalistico».[23] In particolare Betti adopera diverse versioni di Sprechgesang per ciascuna delle tre sezioni formali di cui è composto il brano. La voce di M’hai scocciata Johnny, a differenza di quella dell’interpretazione di Surabaya Johnny[24] di Milva-Strehler, non ha una finalità recitativa, ossia non è connotata da una vera mimesi con il parlato volta a rendere più chiaro il significato delle parole. Al contrario, le note tenute e forti sono spesso non collocate sulle sillabe accentate e i glissati sono lenti e pertanto non naturali. Non ci sono note tenute ma un’intonazione fugace, pur con una voce che possiede un vibrato (per quanto non ampissimo) e che quindi si discosta fortemente da quella del parlato. Anche guardando la distribuzione spettrale dell’energia, la formante intorno ai 2800 Hertz è ben presente, mentre quella intorno ai 4000 Hertz non c’è. Una vocalità appunto a metà strada tra parlato e cantato.
Nella seconda versione del 1965 Betti compie tre rovesciamenti nel testo: in M’hai scocciato, Johnny la protagonista non ha sedici anni come in Surabaya Johnny bensì cinquanta (il «fior dell’età»); a questo primo rovesciamento di piano se ne aggiunge un secondo relativo all’età di Johnny (qui diciottenne) e un terzo basato sull’inversione del punto di vista, maggiormente determinante in quanto rende la canzone originale e un esempio unico di ricezione weilliana nell’adesione alla poetica del compositore.
Mentre in Surabaya Johnny Lilian è una giovinetta sedotta e abbandonata che continua a essere succube del fascino del suo protettore, in M’hai scocciato Johnny la donna afferma e rivendica la sua autonomia:
Ho una buona boutique avviata
Faccio i fanghi, lo yoga e il surf!
Io mi guardo allo specchio e mi vedo
Cinquant’anni: il fior dell’età!
Ma che pretendi Johnny
hai diciott’anni Johnny
Che ti sei messo Johnny nella testa Johnny!
Volevi tutto Johnny,
ma non mi sogno nemmeno, scherziamo?
E levati di torno, vergogna!
M’hai scocciata Johnny!
Nella versione originale è soprattutto un verso quasi recitato che sottolinea quanto Lilian sia succube del protettore: «Tira via quella dannata pipa di bocca, verme/maiale». Nella versione interpretata da Betti nel 1965 il verso diventa «E levati la pipa di bocca, che è mia!», subendo così un fondamentale spostamento e facendo da cesura fra due momenti del brano in cui Lilian, pur riconoscendo di odiare Johnny per essere stata abbandonata, attraverso quel verso recitato quasi come una supplica fa emergere quanto ami ancora il suo mascalzone. Spostando il verso sulla pipa a conclusione della canzone Billa Billa rende ancora più evidente il capovolgimento del punto di vista (da maschile a femminile).
Tirando le fila dell’analisi possiamo rilevare che la ricezione di Weill in Italia negli anni Sessanta assume tratti peculiari in rapporto agli autori e ai musicisti che lo propongono come voce della contemporaneità. Attraverso la vocalità di Berberian, nelle Folk songs Luciano Berio sperimenta e presenta una personale lettura del linguaggio compositivo di Weill, evidenziandone le strette relazioni con il jazz in un intreccio fra colto e popolare che diviene la cifra distintiva della sua ricezione dell’autore. Negli anni Settanta Milva si fa interprete del teatro di Brecht utilizzando i song di Weill sotto la guida di Strehler, interessato a portare avanti le idee brechtiane sulla funzione politica del teatro come fondamentale momento di presa di coscienza della condizione di alienazione degli individui. Le interpretazioni di Laura Betti si caratterizzano invece per un doppio effetto. Il primo emerge nei due album dedicati al compositore, dove il solco della ricezione weilliana è segnato da Berio e da Maderna: una rielaborazione di stilemi jazzistici in chiave accademica che non tiene conto di una linea di interpretazione che iniziava a diffondersi dopo la morte Weill: i ‘due Weill’, l’uno tedesco collaboratore di Brecht, l’altro americano ‘venduto’ al sistema produttivo dell’intrattenimento di Broadway.
Il secondo effetto è l’adesione alla poetica dell’artista, non soltanto nella riproposizione del teatro musicale inteso come forma di impegno ma anche nell’impiego del cabaret per interpretare i cambiamenti che iniziavano ad attraversare l’Italia dell’epoca. In M’hai scocciata, Johnny il capovolgimento del punto di vista da maschile a femminile consente alla cantante di esprimere l’emergere di istanze di autodeterminazione. Lo scarto semantico sulla restituzione e sul possesso della pipa è l’indizio di una postura nuova, oltre che uno scivolamento verso i toni propri del cabaret.
Sulla stessa linea gli anni del boom economico, le contraddizioni della società e le sue sotterranee tensioni si delineano attraverso un testo in apparenza faceto, che avvalora il rovesciamento del punto di vista come provocazione, come gesto parodico:
Tu non nasci, non giri, non frequenti,
la nevrosi non sai che cos’è.
Non t’alieni, comunichi con tutti
e non sai che cos’è la pop-art.
Non hai la Jaguar Johnny!
Non sei un porco Johnny!
Lasciami andare Johnny,
Ho cinquant’anni Johnny!
E non ti amo, come il primo giorno Johnny!
E levati la pipa di bocca, che è mia!
Betti attualizza le canzoni di Weill prelevandole dall’epoca in cui sono nate e mettendole in relazione a un tempo e una società differenti, caratterizzati da altre ideologie. La menzione alla pop-art, il riferimento ai beni di consumo dal forte potere connotativo (la Jaguar), l’attenzione al nuovo ruolo della donna e alla sua indipendenza («ho una buona boutique avviata, faccio i fanghi, lo yoga, il surf») sono specchio di un legame con un mondo differente da quello della Germania degli anni Venti. Nei confronti dell’originale testo weilliano la cantante realizza un’operazione culturale di natura diversa rispetto a quelle compiute da Berberian e da Milva, rivelando una ricezione prismatica dell’opera del compositore. Berberian è interessata alla sperimentazione sulla voce e a un lavoro raffinato nelle orchestrazioni di Maderna e di Berio, che prendono avvio dalle tecniche di collage e montaggio per giungere a un loro ampliamento attraverso la polistratificazione di stilemi musicali (ossia facendo riferimento più a Weill stesso che non allo stile della Zeitoper). Milva è interessata al lavoro sui codici del teatro politico e sui contenuti drammatici brechtiani, rendendosi da subito riconoscibile per uno stile vocale graffiante che coadiuva l’effetto di straniamento perseguito da Brecht. Nel caso delle interpretazioni di Betti invece siamo in presenza di un’immagine vocale camaleontica, capace di modulare le forme della voce a seconda del testo e degli obiettivi drammatici. Torna utile a questo punto riprendere la conclusione della lettera di Weill a Ballo a proposito di una possibile rappresentazione di Street Scene alla Biennale di Venezia del ’49: «Dal momento che l’azione di questa opera è veramente realistica e alcune delle scene sono dialogate, io preferirei che fosse rappresentata in italiano».[25] Alla luce di questa considerazione capiamo quanto Betti abbia intuito lo spirito dei tempi e compiuto un’operazione puramente weilliana: superando l’idea dei ‘due Weill’, la cantante ricuce lo iato tra cultura alta e bassa e mette in risalto le problematiche specifiche del suo contesto nazionale con interpretazioni piacevoli ma non di mero intrattenimento. Betti interpreta Weill ‘conficcandolo’ nella società italiana degli anni Sessanta, mimando cioè il medesimo approccio con cui il compositore aveva affrontato e risolto la propria condizione di emigrato e il relativo percorso di assimilazione nel mondo americano e nelle sue contraddizioni.
1 L’intervista è visibile al seguente link: <https://www.youtube.com/watch?v=Cb0aK1GKmIU> [accessed 3 January 2023].
2 R. Chiesi, ‘Avevo una doppia vita. Intervista a Laura Betti’, in Laura Betti, illuminata di nero, Id. (a cura di), Bologna, Editrice compositori (Cineteca speciale), 2005, p. 30. Per una disamina sulla varietà e le multiformi espressioni della canzone nella società italiana si rinvia a J. Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, Milano, il Saggiatore (La Cultura), 2019, in particolare al capitolo Gli intellettuali e la canzone. Il taglio del contributo è una lettura critica di Laura Betti cantante negli anni Sessanta, con uno specifico affondo sulle interpretazioni del repertorio di Kurt Weill.
3 S. Rimini, ‘Potentissima signora dei rotocalchi. Le maschere di Laura Betti’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), ‘Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano’, Arabeschi, n. 10, luglio-dicembre 2017, pp. 444-448, <http://www.arabeschi.it/57-potentissima-signora-dei-rotocalchi-le-maschere-di-laura-betti-/> [accessed 3 January 2023].
4 R. Mazzucco, ‘Da élite a minoranza’, in Id. (a cura di), L’avventura del cabaret, Cosenza, Edizioni Lerici, 1976, pp. 15-46.
5 Nel 2023 sarà pubblicato un volume dedicato alla ricezione di Kurt Weill in Italia nel Novecento nella critica musicale e nei media, rielaborazione del panel ‘La ricezione italiana di Kurt Weill’ che ha avuto spazio nel convegno internazionale Music, Cinema and Modernism. The Works and Heritage of Kurt Weill Between Europe and America, svoltosi a Torino il 20 e 21 maggio 2021 e organizzato dall’Università degli Studi di Torino in collaborazione con il Centro Studi Opera Omnia Luigi Boccherini, con il supporto della Kurt Weill Foundation for Music di New York.
6 G. Borio, ‘Il concetto di impegno in musica: storia di un discorso interrotto’, in A. I. De Benedictis (a cura di), Presenza storica di Luigi Nono, Lucca, LIM, 2011, pp. 3-25.
7 Non si può non menzionare David Drew, assistente di Kurt Weill, con la monografia Über Kurt Weill, e la selezione di scritti scelti del compositore, Kurt Weill: Ausgewählte Schriften, pubblicati nel 1975 in occasione del settantacinquesimo anniversario della nascita.
8 G. Wagner, Weill e Brecht, Pordenone, Edizioni Studio Tesi (L’arte della fuga), 1992, pp. 343 e 345.
9 Estratto della lettera del 17 dicembre 1948 di Ferdinando Ballo indirizzata a Kurt Weill. L’originale è conservata in MSS 30, S. IV. B, Box 48, Folder 20, Weill Papers, Music Library, Yale University. Si rinvia alle fonti dell’Archivio Storico della Biennale (ASAC), in particolare alle buste relative al 1948 del Fondo Storico, Serie Musica (ASAC M). Disponibile per eventuali aventi diritto che non è stato possibile raggiungere. Si rinvia a C. Casula, P. Dal Molin, ‘Innovazione artistica e turismo culturale. La programmazione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea nella rinascita post-bellica della Biennale di Venezia (1946-1951)’, in R. Cafiero, G. Lucarno, R. G. Rizzo, G. Onorato (a cura di), Turismo musicale: storia, geografia, didattica, Bologna, Pàtron, 2020, pp. 121-130.
10 Estratto della lettera del 29 dicembre 1948 di Kurt Weill inviata a Ferdinando Ballo. L’originale è conservata presso il Weill-Lenya Research Center, The Kurt Weill Foundation for Music, New York, Folder Correspondence.
11 Estratto della lettera del 18 gennaio 1949 di Ferdinando Ballo a Kurt Weill. L’originale è conservato presso il Weill-Lenya Research Center, The Kurt Weill Foundation for Music, New York, Folder Correspondence.
12 È indubbio che Weill tentasse di fondare un nuovo genere di teatro musicale con una connotazione strettamente identitaria, un’‘american opera’ dai tratti di semplicità ed efficacia espressiva: «Con ‘american opera’ egli sottolinea aspetti di identità nazionale nella trattazione della materia musicale e del libretto, i riferimenti espliciti alla letteratura e le tradizioni musicali americane. Weill intendeva espressamente far coesistere differenti esperienze e provenienze, perché avrebbero rappresentato, anche per la genesi dell’opera, il melting pot che caratterizzava New York in quegli anni» (M. Rizzuti, Il musical di Kurt Weill (1940-1950). Prospettive, generi e tradizioni, Roma, Edizioni Studio 12, 2006, p. 62).
13 Decisiva la testimonianza di Fabio Mauri sullo spettacolo: «La Betti fa il teatro come un pittore dipinge le sue visioni, sulla propria pelle cioè, uscendone da ogni debutto proprio allo stesso modo: più povera e più forte di prima. Questa fatica quotidiana le ha sviluppato delle doti che speso fanno di lei non un’attrice, ma lo spettacolo in persona. Altre volte, come la sera di questa prima, queste stesse doti le hanno giocato un tiro mancino. Sciolta e sonora alla prova generale, la sera appariva rigida e troppo energica, quasi disperata. Si vedeva la sua abitudine a misurarsi da sola con il teatro, e a sostenere sulle spalle scena, platea e tutto, isolata; la faceva sentire fuori, presa in un combattimento orchestrato e collegiale come quello di un’opera a più parti, a ruoli combinati che si intersecavano secondo il disegno prima dell’autore e poi del regista. La Betti non aveva abbastanza nemici, e non poteva affrontarli di petto, doveva star ferma mentre i mimi sculettavano, non poteva correre in prima fila a vincere di prepotenza, come è solita fare. Sembrava una giocatrice di catch ad una gara di ricamo» (F. Mauri, ‘Mimi ballerini e cantanti per sette peccati’, Sipario, n. 182, giugno 1961, p. 31).
14 R. Chiesi, ‘Avevo una doppia vita. Intervista a Laura Betti’, p. 31.
15 Per una più attenta analisi sulla ricezione italiana di Kurt Weill fra jazz e musica d’avanguardia si rinvia al contributo di L. Izzo, ‘Changes in Kurt Weill’s music. Cross-cultural reception between jazz and avant-garde’, in N. Graber, M. Rizzuti (eds.), The Works of Kurt Weill: Transformations and reconfigurations in 20th-Century Music, Turnhout, Brepols, pubblicazione prevista per luglio 2023.
16 Corriere della Sera, sabato-domenica 28-29 novembre 1964, p. 7
17 R. Chiesi, ‘Avevo una doppia vita. Intervista a Laura Betti’, pp. 30-31.
18 Dovendo individuare altre voci Weilliane non si possono non menzionare Cathy Berberian e Milva; negli anni Sessanta Cathy Berberian è una prodigiosa interprete di Weill nelle Folk songs di Luciano Berio, successivamente negli anni Settanta Milva porta sulle scene italiane sotto la guida di Giorgio Strehler i testi e le musiche della coppia Brecht-Weill.
19 La genesi dei due album è oggetto di studio, così la scelta delle canzoni; allo stato attuale non è possibile indicare con certezza il coinvolgimento di Laura Betti. Una prima sostanziale differenza rispetto alle altre interpreti è l’aver incluso nel repertorio canzoni del periodo americano di Kurt Weill, estrapolate dai suoi Musical di maggiore successo. Si rinvia a uno studio futuro che approfondisca l’autorialità della cantante nella selezione delle canzoni e nella costruzione drammaturgica degli album.
20 Lo spettrogramma è la rappresentazione grafica del suono in due dimensioni. Nelle ordinate è rappresentato lo scorrere del tempo, nelle ascisse sono rappresentate le frequenze che compongono lo spettro, ossia tutte quelle frequenze parziali del suono sovrapposte in un dato momento, che creano la percezione del timbro unico. La voce è dotata di uno spettro armonico, che comporta che si può vedere lo sviluppo nel tempo della frequenza più bassa (detta fondamentale) e delle sue parziali superiori, poste a intervalli regolari. I rapporti di ampiezza fra le diverse parziali, raffigurati attraverso una maggiore o minore intensità del colore, determinano il timbro, ossia il colore del suono e la grana della voce.
21 Billa Billa è lo pseudonimo di Marialisa (Billa) Pedroni Zanuso (1920-2012), autrice teatrale, successivamente sceneggiatrice e caratterista per il cinema e la televisione. Agli inizi degli anni Sessanta si orienta verso un’attività di taglio psico-pedagogico sull’evoluzione del ruolo e dell’identità femminile. Per un profilo biografico si veda <https://www.aspi.unimib.it/collections/entity/detail/376/> [accessed 7 January 2023].
22 Si rinvia al testo della canzone utilizzato nel concerto dedicato a Kurt Weill all’interno del Festival Settembre musica di Torino con la London Sinfonietta e la direzione di HK Gruber svoltosi al Teatro Regio il 3 settembre 2002: http://www.comune.torino.it/settembremusica/archivio/sala2002/pdfprogr/3-9-02sera.pdf [accessed 7 January 2023].
23 A. Schönberg, ‘Prefazione al Pierrot Lunaire’, 1914.
24 In Surabaya Johnny, sia nella versione inglese di Berberian che nelle versioni italiane di Betti del 1963 e in quella di Milva, il tratto distintivo della canzone (che già Lotte Lenya aveva messo in risalto) si trova declinato in modo proprio da ciascuna delle interpreti.
25 La traduzione è a cura dell’autrice.