Banksy, Jean-Michel Basquiat, Joseph Beuys, Urs Fischer, Luigi Ghirri, Damien Hirst, Jeff Koons, Keith Haring, Sarah Lucas, Yoko Ono, Robert Mapplethorpe, Michelangelo Pistoletto, Roy Lichtenstein, Mark Ryden, Mario Schifano, Julian Schnabel, Andy Warhol, ma anche Salvador Dalì, Yves Klein, Réné Magritte, Pablo Picasso: questi sono soltanto alcuni dei nomi che hanno firmato le cinquecento copertine che, come se si sfogliasse una mostra permanente di arte applicata alla popular music, si possono ammirare nel corposo volume trilingue Art Record Covers curato da Francesco Spampinato (con la supervisione editoriale di Julius Wiedermann) per i tipi di Taschen.
Il volume, che fornisce un primo orientamento a un settore dei visual studies ancora da esplorare sistematicamente, è mosso da un obiettivo che Spampinato chiaramente enuncia al termine dell’introduzione: «to present the record cover as a quintessential medium for an expanded approach to art, stemming from the artist’s increasing desire to transcend the boundaries between different cultural forms while at the same time commenting on and exposing the mechanisms that regulate mainstream media and entertainment» (p. 12).
Di tale ‘approccio espanso all’arte’ Spampinato si dedica a ricostruire le principali linee di direzione con una sintetica ma esaustiva visione d’insieme: dalle prime collaborazioni negli anni Quaranta di Alex Steinweiss con la Columbia Records alla realizzazione di Salvador Dalì nel 1955 della copertina di un album di una star televisiva americana, dai vari lavori degli anni Cinquanta e Sessanta di Picasso, Miro e Dubuffet alla psichedelia pop del 1967 di Andy Wharol e Peter Blake – rispettivamente per Banana dei Velvet Underground e Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club dei Beatles –, dai ribellismi punk degli anni Settanta di artisti come Martin Kippenberger e Albert Oehlen alle provocazioni dell’hip-hop newyorkese degli anni Ottanta di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, dai Young British Artists degli anni Novanta sino alle più recenti sperimentazioni optical di Lisa Alvarado, Tauba Auerbach e gli artisti della corrente Post-Internet.
La scelta del curatore del volume di puntare sull’oggetto copertina come perno di una visione democratica e condivisa dell’arte è in realtà conforme alla motivazione che ha spinto molti artisti degli ultimi settanta anni a collaborare con musicisti, cantanti e gruppi all’interno di quel vasto settore dell’industria culturale che è rappresentato dalla popular music: «artists themselves have been increasingly exploring new avenues with which to communicate more directly, notably through the developments of participatory practices and the collateral venturing into pop cultural realms such as television, advertising, design, and music» (p. 7). La conferma di questa volontà di espansione dell’arte si ha leggendo le interviste che compongono la seconda parte del libro, rilasciate da artiste e artisti di varia provenienza: Tauba Auerbach, Shepard Fairey, Albert Oehlen, Raymond Pettibon, nonché da due figure dal riconosciuto doppio talento come Kim Gordon, nota in primo luogo per essere stata la bassista dei Sonic Youth, e Christian Marclay, artista visuale e compositore. Se in tutti emerge, al di là delle ovvie differenze di background e percorsi, un’evidente passione per la dimensione esistenziale e politica della popular music, riconosciuta in grado di influenzare la vita delle persone e di garantire ad altri settori artistici, attraverso le più svariate forme di collaborazione, una maggiore diffusione pubblica, la relazione è significativa anche nell’altro senso: la musica contribuisce alla definizione della propria progettualità artistica. Rilevanti, da questo punto di vista, alcune affermazioni di Fairey, street artist e creatore di installazioni multimediali, ma anche D.J.: «When I began deejaying I realized that it was the audio version of the same approach. […] my records are important to me but they mean more as part of my history to share than they do as collectible commodities» (p. 31).
La sezione più ampia e che inevitabilmente più cattura l’interesse di chi si avvicina al volume è però la terza, intitolata Visual Artists, dove in ordine alfabetico secondo il nome dell’artista si susseguono le cinquecento copertine sopra menzionate. Forse un’elencazione in ordine cronologico avrebbe consentito di seguire meglio l’evoluzione del rapporto tra arte e popular music: in rapporto ai vari generi musicali che si sono imposti nel corso del tempo, ma anche in rapporto alla differenza tra collaborazioni instaurate in vita o utilizzi postumi di opere, all’opzione dei vari ambiti di lavoro degli artisti – pittura, fotografia, street art, videoarte e così via –, oltre che alla gestione, consonante o dissonante, del reciproco gioco tra immagine e suono del disco; con la soluzione adottata, invece, si ha più l’impressione di un affascinante ma un po’ dispersivo patchwork, sebbene le schede che accompagnano le copertine siano chiare ed esaustive. Certo è che, senza tralasciare una lettura più propriamente critica, ciascuno potrà sbizzarrirsi a sfogliare la galleria di immagini per approfondire le conoscenze sui dischi che ha sempre amato o per andare alla scoperta di nuove cover e, con queste, di nuove canzoni, con un approccio che, coniugando la curiosità per il nuovo con la retromania pop, fa di Art Record Covers un tassello di valore degli intrecci culturali dei nostri anni
Art Record Covers
Francesco Spampinato
Hardcover, 29.3 x 29.3 cm, 448 pages
taschen.com