Un occhio tra gli alberi. Metamorfosi del corpo in Cosimo di Roger Olmos

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Abstract: ITA | ENG

Le immagini ispirate al trittico araldico dei Nostri antenati non solo hanno saputo cogliere un aspetto essenziale delle tre opere di Calvino, ma spesso ne hanno fornito interpretazioni assai acute e inattese. L’intervento intende esaminare una recente transcodificazione visiva del Barone rampante, ovvero il Cosimo di Roger Olmos (2016). Il racconto per immagini dell’artista spagnolo sa dar conto e interpretare uno dei temi chiave del Barone, come di tutta la trilogia, ovvero le metamorfosi del corpo, che nel volume di Olmos divengono il fil rouge della narrazione iconica delle avventure di Cosimo Piovasco di Rondò e dei personaggi a lui vicini. Le trasformazioni fisiche a cui vengono sottoposti i protagonisti del romanzo di Calvino danno conto delle passioni incontenibili che accomunano tutti i personaggi che ruotano intorno al Barone, i cui corpi si fanno specchio e icona di tali monomanie che segnano la loro esistenza.

The images inspired by the trilogy Our Ancestors not only have grasped an essential aspect of Calvino’s work, but have often provided acute and intriguing interpretations of the three novels. The paper examines a recent visual transcoding of The Baronin the Trees, Roger Olmos’Cosimo (2016). Re-telling the story through images only, the Spanish artist focuseson one crucial theme of the Baron, as well as the entire trilogy, namely the metamorphoses of the body.In Olmos’ volume this theme thus provides the fil rouge for narrating the adventures of Cosimo Piovasco di Rondò and the other characters. In Olmos’ pictures, their physical transformations are shown to signify the overwhelming passions that affectthem, whose bodies become a mirror and an icon for the monomanias marking their existence.

 

 

1. Le immagini degli Antenati

Nel 1960, ripubblicando in un volume complessivo la trilogia dei Nostri antenati, Calvino riflette su ciò che lega le opere che la compongono.[1] Lo scrittore ligure insiste sulla comune matrice iconica dei tre romanzi, che li accomuna a molte altre opere calviniane.[2] Parlando del secondo volume della trilogia, il Barone rampante, l’autore rivela l’immagine che lo ha ispirato: «Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? sale, ed entra in un altro mondo; no: sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita».[3] Si tratta di uno dei, non numerosi, casi in cui Calvino traccia uno schizzo dell’immagine da cui ha tratto ispirazione.[4] Ma le icone di partenza celano, naturalmente, una spiccata dimensione metaforica che allude a scottanti questioni storiche ed esistenziali.[5]

Come sottolineato in altra sede, lo scrittore ligure sembra non prendere in considerazione, o non voler mettere in evidenza, nella sua autoriflessione un altro aspetto che tiene insieme i romanzi della trilogia. Le tre icone che ispirano i Nostri antenati condividono un campo metaforico ben preciso: la realizzazione di questa insolita umanità delineata da Calvino si concretizza nel travalicare dei limiti fisici, corporei.[6] Ispirandosi forse all’amato Ovidio citato in molte pagine calviniane, gli Antenati subiscono delle profonde metamorfosi del corpo.[7] Per ottenere una piena completezza interiore, si passa attraverso il dimidiamento fisico, la scissione in parti antitetiche; per affermare la propria presenza, il proprio ruolo sulla terra, bisogna sperimentare la distanza, diventare creature appartenenti a un altro modo, arboreo e non terrestre; infine, per esistere, per esserci, si deve rinunciare al proprio corpo, sperimentare l’assenza, la trasformazione estrema nel nulla dell’armatura vuota di Agilulfo. Per questa ragione Il cavaliere inesistente può essere considerato l’approdo, il compimento, della trilogia, non soltanto per ragioni cronologiche, ma perché mette in scena la metamorfosi più radicale della corporeità come metafora della realizzazione umana.[8]

Eppure, nel Cavaliere inesistente come nel Visconte dimezzato la metamorfosi comporta il divorzio tra due polarità distinte o fisicamente separate: la conclusione di entrambi i romanzi contempla, però, una ricomposizione. Nell’ultimo capitolo della trilogia il ricongiungimento tra corpo e armatura, che si realizza grazie a Rambaldo, sembra corrispondere nel primo volume dei Nostri antenati alle due metà del Buono e del Gramo che vengono ‘ricucite’ e imparano a convivere nuovamente insieme. A ben vedere, invece, soltanto per il protagonista del Barone rampante non avviene un processo di ricongiungimento con la ‘metà’ dalla quale ha deciso di separarsi: la creatura terrestre e quella arborea sembrano inconciliabili. Fino alla morte, infatti, il barone calviniano si ribella al limite fisico che ha deciso di sfidare con la propria scelta di vita. Il suo corpo non torna sulla terra neanche nel momento in cui la sua esistenza trova la conclusione. La morte di Cosimo coincide pertanto con una straordinaria ascensione in cielo: immagine icastica che colpisce in modo indelebile la memoria visiva dei lettori. A meno di non volere vedere in questa ascesa in cielo un possibile e definitivo ricongiungimento con il proprio doppio ‘celeste’, tensione verso la quale si protende l’intera esistenza di Cosimo. La morte sarebbe dunque capace di trasformare il personaggio calviniano in ciò che ha desiderato di essere durante tutta la sua esistenza: non più creatura degli alberi ma finalmente, con una ulteriore metamorfosi, creature del cielo, distaccata definitivamente dalla terra.

Il presente contributo intende riflettere sulla centralità della trasformazione dei corpi in una recente transcodificazione visiva del Barone rampante, ovvero il Cosimo di Roger Olmos (2016). Traduzione in immagini del secondo romanzo della trilogia araldica che, in assenza del testo calviniano, rinarra le avventure del personaggio inventato da Calvino con la mera potenza del codice iconico, puntando tutto su una lettura unitaria del romanzo incentrata proprio sulla ‘metamorfosi’. Le immagini si fanno dunque percorso ermeneutico e ci invitano a cogliere nelle avventure del barone la metafora di un mondo attraversato e guidato da passioni incontenibili, vere ossessioni, che modellano e plasmano il corpo di tutti i personaggi che ruotano intorno a Cosimo Piovasco di Rondò.

 

2. Un occhio tra gli alberi

L’estrema iconicità dei romanzi della trilogia araldica trova conferma nelle numerose traduzioni in immagini degli Antenati. I tre romanzi, infatti, hanno conosciuto nel corso del tempo svariate edizioni illustrate e interpretazioni visive, che comprovano quanto le dichiarazioni di Calvino si siano tradotte nella sua scrittura, divenuta di conseguenza fonte d’ispirazione per molti artisti.

Insieme alle ben note illustrazioni della collana per ragazzi di Mondadori (Oscar junior), realizzate da artisti rinomati come Lele Luzzati (Il visconte dimezzato), Maria Enrica Agostinelli (Il barone rampante) e di Federico Maggioni (Il cavaliere inesistente), meriterebbero di essere analizzate con attenzione la trasposizione visiva della trilogia realizzata da Aurora Ghielmini o il Barone rampante di Yan Nascimbene, il quale ha anche dato conto della sua esperienza di illustratore delle opere di Calvino con puntuali osservazioni sulla matrice visiva di molte pagine calviniane.[9] Valga ricordare, tra le molte transcodificazioni dei Nostri Antenati, l’acuto e ironico adattamento filmico del Cavaliere inesistente realizzato da Pino Zac (1971), altro esempio magistrale di trasposizione visiva come forma di commento e interpretazione.[10]

Il corpo e la sua centralità all’interno dei Nostri antenati sembrano ispirare in modo brillante e acuto la versione per figuras del Barone rampante firmata da Roger Olmos.[11] Il Cosimo dell’illustratore spagnolo ingaggia infatti con il testo calviniano, assente nel volume, un’intensa opera di traduzione in immagine che assume proprio la corporeità e le sue metamorfosi quale perno intorno al quale far ruotare la narrazione iconica. Se ne ha prova sin dalla copertina del volume:[12] qui il volto del protagonista assume le fattezze di un albero, sul quale è poggiata una candida parrucca, da cui affiorano altri arbusti, a simboleggiare la trasformazione che subisce nono soltanto il protagonista del romanzo ma anche il mondo nobiliare dal quale proviene, come conseguenza della scelta di Cosimo. L’icona in copertina riscrive in chiave caricaturale i ritratti settecenteschi di signori imbellettati, provvisti immancabilmente di parrucca, e inaugura la galleria di effigi che costella la narrazione per immagini del romanzo calviniano. Il testo viene riletto dunque come una sorta di museo nel quale spiccano i volti, i corpi, metamorfosati dei protagonisti del romanzo. Gli elementi iconici di ogni singolo quadro raccontano la storia dei personaggi principali, le potenti passioni che li attraversano e trasformano.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

Così al viso-albero di Cosimo è appesa l’altalena dell’amata Viola, mentre lambisce il colletto inamidato il fedele bassotto, Ottimo Massimo: il mondo arboreo, la bambina e il cane condensano in tal modo tutti gli ‘affetti’ del barone, sintetizzati dallo stesso Calvino attraverso l’incisione, di ariostesca memoria,[13] che Cosimo esegue sulla corteccia di un albero alla partenza dell’amata, e che le mostra al suo ritorno:

In cima al tronco del più alto albero del giardino, mio fratello incise con la punta dello spadino i nomi Viola e Cosimo, e poi, più sotto, sicuro che a lei avrebbe fatto piacere anche se lo chiamava con un altro nome, scrisse: Cane bassotto Ottimo Massimo. (BR, p. 626)
Il primo loro pellegrinaggio fu a quell’albero che in un’incisione profonda della scorza, già tanto vecchia e deforme che non pareva più opera di mano umana, portava scritto a grosse lettere: Cosimo, Viola, e – più sotto – Ottimo Massimo. (BR, p. 714)[14]

L’inclusione del nome del cane innesca una rilettura parodica di un modello alto caro a Calvino: i «mille nodi» che legano in modo esclusivo i nomi di Angelica e Medoro nel poema di Ariosto qui si allargano per trasformare la coppia in un terzetto nel quale è compresa l’adorata bestiola, vero legame indiscusso tra i due amanti calviniani.

La narrazione per immagini non sottopone a una metamorfosi fisica soltanto Cosimo, parimenti gli altri membri della sua famiglia subiscono lo stesso trattamento. La parrucca, quale metonimia della polverosa aristocrazia a cui è tanto affezionato il padre,[15] fagocita infatti il corpo del Barone Arminio Piovasco di Rondò e lo sovrasta: al minuto corpicino, quasi invisibile, non resta che affacciarsi a stento dalle cortine di un vello fittissimo, in cima al quale affiorano dei nidi vuoti.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

Del resto la parrucca reifica, rende visibile, anche nel romanzo l’ossessione paterna per la nobiltà e diviene uno degli elementi con il quale il barone Arminio tormenta i due figli, costretti a indossare, come gli adulti, gli odiosi parrucchini anche in occasione delle cene domestiche:

A capotavola era il Barone Arminio Piovasco di Rondò, nostro padre, con la parrucca lunga sulle orecchie alla Luigi XIV, fuori tempo come tante cose sue. Tra me e mio fratello sedeva l’Abate Fauchelafleur, elemosiniere della nostra famiglia ed aio di noi ragazzi. (BR, p. 549)

L’orpello polveroso, emblema di un mondo «fuori tempo» votato all’artificio, invade dunque gli spazi privati e inaridisce la figura paterna, che dietro quello schermo, quella maschera, si nasconde, incapace di un contatto diretto con i familiari.Allo stesso modo la strampalata sorella Battista, a cui si deve la preparazione delle odiate lumache che spingono il giovane protagonista a prendere le distanze dalla terra, assume le fattezze della disgustosa pietanza che innesca il racconto.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

Lo sguardo vuoto e inebetito della suora-lumaca accompagna il lento scoperchiarsi di una vivandiera, dalla quale fanno appena capolino i viscidi animaletti. Tale interpretazione visiva della figura della sorella rispecchia le perverse doti culinarie di Battista, autrice di macabri manicaretti,i quali più che alla sostanza e alla gradevolezza dei cibi mirano alla loro presentazione e rivisitazione visiva:

Infatti, molta di questa sua orrenda cucina era studiata solo per la figura, più che per il piacere di farci gustare insieme a lei cibi dai sapori raccapriccianti. Erano, questi piatti di Battista, delle opere di finissima oraferia animale o vegetale: teste di cavolfiore con orecchie di lepre poste su un colletto di pelo di lepre; o una testa di porco dalla cui bocca usciva, come cacciasse fuori la lingua, un’aragosta rossa, e l’aragosta nelle pinze teneva la lingua del maiale come se glie l’avesse strappata. Poi le lumache: era riuscita a decapitare non so quante lumache, e le teste, quelle teste di cavallucci molli molli, le aveva infisse, credo con uno stecchino, ognuna su un bigné, e parevano, come vennero in tavola, uno stormo di piccolissimi cigni. E ancor più della vista di quei manicaretti faceva impressione pensare dello zelante accanimento che certo Battista v’aveva messo a prepararli, immaginare le sue mani sottili mentre smembrano quei corpicini d’animali. (BR, pp. 555-556; corsivi miei)

Le raccapriccianti doti che la sorella dispiega in cucina per trasformare il mondo animale e vegetale in orride composizioni arcimboldesche, visivamente efficaci, in cui la metamorfosi comporta sadiche mutilazioni e raccapriccianti assemblaggi, trovano riscontro nella trasposizione iconica di Olmos, il quale – in una sorta di contrappasso – sottopone la suora di casa alla trasformazione negli esseri che ha, a sua volta, macabramente costretti a somigliare ad altro. Alla madre di Cosimo, invece, sono dedicati ben due ritratti: nel primo, il corpo della Generalessa è ridotto quasi a un mezzo busto fluttuante nel vuoto. La metà mancante è sostituita da svariati rocchetti, simbolo della dedizione al ricamo, che hanno quasi ‘scucito’ la parte al di sotto della cintola del corpo femminile, il ventre materno; dai capelli cotonati della nobildonna affiorano, invece, baionette e cannoni, eccentrici decori di una capigliatura sui generis ispirata alla fissazione per il mondo delle armi.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

In questo primo ritratto, lo strano, quasi spettrale, corpo metamorfosato ricompone dunque le due doti ossimoriche che caratterizzano la madre di Cosimo: femminilissima tessitrice/ricamatrice e mascolina amante delle armi. Calvino, del resto, la ritrae proprio come ossimoro vivente, insolito incrocio di passoni contrastanti, abilmente sintetizzate in ricami dal soggetto bellico, veri e propri emblemi della madre generalessa:[16]

Per il resto della giornata nostra madre stava ritirata nelle sue stanze a fare pizzi e ricami e filé, perché la Generalessa in verità solo a questi lavori tradizionalmente donneschi sapeva accudire e solo in essi sfogava la sua passione guerriera. Erano pizzi e ricami che rappresentavano di solito mappe geografiche; e stesi su cuscini o drappi d’arazzo, nostra madre li punteggiava di spilli e bandierine, che conosceva a menadito. Oppure ricamava cannoni, con le varie traiettorie che partivano dalla bocca da fuoco, e le forcelle da tiro, e gli angoli di proiezione, perché era molto competente di balistica, e aveva per di più a disposizione tutta la biblioteca di suo padre il Generale, con trattati d’arte militare e tavole di tiro e atlanti. (BR, p. 552)

Più gioiosa e scanzonata è la seconda raffigurazione della Generalessa; anche in questo caso il corpo subisce una evidente trasformazione: la donna, come una imponente gigantessa, sovrasta una fitta vegetazione, e il suo viso è occupato da un enorme cannocchiale: volto e strumento tecnologico si fondono insieme.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

Infatti, questi elementi iconici traspongono efficacemente il tentativo materno di mantenere, almeno con lo sguardo, la relazione con il figlio distante; l’amore e la preoccupazione della Generalessa si ergono al di sopra della barriera arborea che la priva di Cosimo e la rendono capace di raggiungerlo, almeno con un enorme occhio artificiale, anch’esso attributo militare accostato alla materna preoccupazione di una donna-generale:[17]

In nostra madre, invece, lo stato d’ansietà materna, da sentimento fluido che sovrasta tutto, s’era consolidato, come in lei dopo un po’ tendeva a fare ogni sentimento, in decisioni pratiche e ricerche di strumenti adatti, come devono risolversi appunto le preoccupazioni d’un generale. Aveva scovato un cannocchiale da campagna, lungo, col treppiede; ci applicava l’occhio, e così passava le ore sulla terrazza della villa, regolando continuamente le lenti per tenere a fuoco il ragazzo in mezzo al fogliame, anche quando noi avremmo giurato che era fuori raggio. […] Era chiaro che a volte non lo vedeva per nulla, ma s’era fatta l’idea, chissà perché, che dovesse rispuntare in quel dato posto e non altrove, e ci teneva puntato il cannocchiale. Ogni tanto tra sé doveva ammettere d’essersi sbagliata, e allora staccava l’occhio dalla lente e si metteva a esaminare una mappa catastale che teneva aperta sulle ginocchia, […] finché non stabiliva il punto in cui suo figlio doveva essere giunto, […] e da come le appariva sulle labbra un trepido sorriso capivamo che l’aveva visto, che lui era lì davvero!
Allora, ella poneva mano a certe bandierine colorate che aveva accanto allo sgabello, e ne sventolava una e poi l’altra con movimenti decisi, ritmati, come messaggi in un linguaggio convenzionale. (BR, pp. 587-588; corsivi miei)

Olmos coglie con lucida efficacia che gli ‘avvistamenti’ di Cosimo sono l’unica consolazione rimasta alla Generalessa per abbreviare l’ostinata distanza del figlio e trasforma l’occhio materno nello strumento che le consente di «vivere quest’apprensione in veste da generalessa anziché da semplice madre», così da non «esserne straziata» (BR, p. 588). Un trattamento simile subisce anche lo zio del Barone, il Cavalier Avvocato Enea Silvio Carrega, il cui corpo si trasforma nella passione dominante che caratterizza il personaggio:[18] le api e il miele divengono un tutt’uno con il fisico del fratello naturale del barone Arminio, tanto che la barba, il volto e le vesti prendono quasi la forma di una gigantesca arnia.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

Al di sotto della esotica zimarra si vedono affiorare delle pelose zampette da insetto, che ricordano la descrizione del personaggio fornita da Calvino:

Dunque, Enea Silvio Carrega aveva sminuzzato il suo allevamento d’api un po’ qua e un po’ là per tutta la vallata d’Ombrosa; [...] e lui era sempre in giro da un posto all’altro, trafficando intorno alle arnie con mosse che pareva avesse zampette d’ape al posto delle mani, anche perché le teneva talvolta, per non essere punto, calzate in mezzi guanti neri. (BR, p. 631; corsivi miei)

Il meccanismo di trasformazione che presiede alla rappresentazione dei protagonisti del racconto è semplice ma efficacissimo: l’umanità descritta da Calvino è permeata da passioni travolgenti, talmente profonde e parossistiche da non lasciare spazio ad altro nella vita di tutti i membri di questa insolita famiglia. Il totale riconoscimento dei personaggi calviniani in vere e proprie monomanie (o quasi) è reso visivamente dal tramutarsi del corpo in queste attività praticate ossessivamente: siamo ciò che amiamo. Il segno di una totale dedizione è reso manifesto in modo immediato dalla somiglianza visiva.

Tutti i personaggi rappresentati nel romanzo, e non soltanto i familiari di Cosimo, sono sottoposti a metamorfosi corporee che esplicitano la natura unidimensionale della loro esistenza e psicologia: il racconto iconico procede secondo la medesima strategia narrativa per descrivere altresì le relazioni del Barone con altri protagonisti. Incredibilmente icastica è, ad esempio, l’illustrazione dedicata a Gian dei Brughi, o meglio, alla sua morte. Come già nel primo ritratto materno, anche qui del personaggio rimane soltanto un mezzo busto penzolante dalla forca che pone fine alla sua esistenza. La parte mancante del corpo maschile si è dispersa al vento in forma di pagine su cui delle lettere, icona dell’amore smodato del brigante per i libri, compongono il titolo del romanzo la cui avvincente lettura costringe il malvivente all’ultima e fallimentare impresa.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

La passione, ancora smodata e ossessiva, per la lettura è infatti ciò che conduce alla morte Gian dei Brughi, ormai disinteressato a guadagni e rapine, e invece totalmente soggiogato dal demone dei romanzi:[19] il suo corpo dunque si scompone in pagine portate via dal vento, che ricordano le minacce dalle quali è costretto a introdursi nella casa del gabelliere:

- Tu prendi i sacchi di denari, va bene? - insistettero, tristemente, - ce li porti, noi ti ridiamo il tuo libro e potrai leggere quanto vorrai. Va bene così? Ci vai?
- No. Non va bene. Non ci vado!
- Ah non ci vai, dunque... Sta’ a vedere, allora! e Ugasso prese una pagina verso la fine del libro, (- No! - urlò Gian dei Brughi), la strappò, (- No! ferma! -), l’appallottolò, la buttò nel fuoco.
- Aaah! Cane! Non puoi fare così! Non saprò più come va a finire! - e correva dietro Ugasso per acchiappare il libro.
- Allora ci vai dal gabelliere?
- No, non ci vado!
Ugasso strappo altre due pagine.
- Sta’ fermo! Non ci sono ancora arrivato! Non puoi bruciarle!
Ugasso le aveva già buttate nel fuoco.
- Cane! Clarissa! No!
- Allora, ci vai?
- Io...
Ugasso strappò altre tre pagine e le cacciò nelle fiamme. Gian dei Brughi si buttò a sedere col viso nelle mani.
- Andrò, - disse. - Ma promettetemi che m’aspetterete col libro fuori della casa del gabelliere. (BR, pp. 646-647)

La dimensione metaforica di questo passo si reifica: la ferita inflitta a Gian strappando e bruciando le pagine del romanzo diviene reale, il corpo del lettore e il corpo del libro divengono inscindibili e si decompongono insieme, lacerati da una violenza che li unisce. Inoltre, la forca da cui penzola la figura in trasformazione dell’eroe-brigante-lettore rappresenta un virtuale raddoppiamento delle avventure dell’ultimo personaggio letterario che accompagna Gian fino alla morte. Come Jonathan Wild, le cui vicende Cosimo sceglie come estrema compagnia per il condannato al patibolo, il lettore compulsivo di Calvino muore impiccato: l’ultimo atto della sua esistenza ripete gli eventi della pagina conclusiva dell’ultimo romanzo letto e amato.[20]

Anche le avventure erotiche del Barone vengono trasfigurate attraverso la lente della metamorfosi, ancora una volta all’insegna della passione che accende l’intera esistenza di Cosimo: gli amati alberi di Ombrosa.[21] Del resto è lo stesso Calvino a porre l’accento sulla fusione/confusione tra il barone e le piante che lo ospitano quando ancora il protagonista del romanzo sta imparando a conoscere i dettagli del regno che scelto come dimora, ancora timoroso rispetto a una sensazione di eccessiva inclusione nel mondo arboreo:

Su un fico, invece, stando attendo che regga il peso, non s’è mai finito di girare; Cosimo sta sotto il padiglione delle foglie, vede in mezzo alle nervature trasparire il solte, i frutti verdi gonfiare a poco a poco, odora il lattice che geme nel collo dei peduncoli. Il fico ti fa suo, t’impregna del suo umore gommoso, dei ronzii dei calabroni; dopo poco a Cosimo pareva di stare diventando fico lui stesso e, messo a disagio se ne andava.(BR, pp. 619)

La cornice delle due principali storie d’amore del Barone si fonde con le figure femminili che ne segnano l’esistenza: Ursula e Viola.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

L’iniziazione erotica che avviene grazie alla bella spagnola, del resto, è ambientata all’interno di una comunità arborea; i primi dunque a subire un processo metamorfico sono proprio gli abitanti di Olivabassa:

Erano uomini con vestimenti nobili, tricorni piumati, gran manti, e donne dall’aria pure nobile, con veli sul capo, che stavano sedute sui rami a due o a tre, alcune ricamando, e guardando ogni tanto giù in strada con un breve movimento laterale del busto e un appoggiarsi del braccio lungo il ramo, come a un davanzale. (BR, p. 678)

I membri dell’enclave iberica, forzatamente costretti all’esilio sugli alberi, vengono raffigurati da Olmos a cavalcioni dei rami, intenti a dedicarsi alla cerimonia del tè, mentre sono bene in mostra – al posto degli arti inferiori – delle radici, a significare lo sradicamento al quale sono sottoposti da una legge bislacca.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

L’ambiente che per gli Spagnoli rappresenta una località d’esilio è invece per Cosimo patria d’elezione, con la quale si è pienamente fuso, ed è dunque il luogo ideale in cui vivere la prima esperienza dell’amore:

Così, stretti sull’albero, a ogni gesto s’andavano abbracciando.
- Uh! - disse lei, e, lui per primo, si baciarono.
Così cominciò l’amore […]. Fiorirono i peschi, i mandorli, i ciliegi. Cosimo e Ursula passavano insieme le giornate sugli alberi fioriti. (BR, pp. 684-685)

La perfetta simmetria e sincronia fra il sorgere dell’amore dei due giovani e il primaverile risveglio della natura vengono colte da Olmos, il quale trasforma gli arti superiori di Cosimo in rami che avvolgono Ursula in un dolce abbraccio: i due amanti divengono un tutt’uno con la natura che li accoglie e li ingloba nel suo verdeggiante rigoglio.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

All’insegna della stessa piena e totale fusione arborea è rappresentato anche il vero grande amore di Cosimo: la capricciosa, sfuggente e passionale Viola. Insieme alle fughe e ai ritorni della bella Marchesa, il racconto iconico include un ritratto degli amanti stretti in un dolcissimo abbraccio, che rende i due membri della coppia parti indistinguibili di un unico albero.

Il loro mondo erano gli alberi i più intricati e attorti e impervii.
– Là! – esclamava indicando un’alta inforcatura di rami, e insieme si slanciavano per raggiungerla e cominciava tra loro una gara di acrobazie che culminava in nuovi abbracci. S’amavano sospesi nel vuoto, puntellandosi o aggrappandosi ai rami, lei si gettava su di lui quasi volando. (BR, p. 715)

Nell’illustrazione di Osmos, è Cosimo ad abbandonarsi tra le braccia dell’amata, che quasi lo sovrasta come una materna chioma arborea. Viola e il mondo scelto dal Barone sono inscindibili e su di essi si riversa la stessa incrollabile passione. Olmos fa infatti di questa sorta di ‘con-fusione’ tra Cosimo e l’universo che ha eletto quale suo regno la marca distintiva di molte delle raffigurazioni del protagonista del romanzo. Come si osservava già in merito alla copertina del volume, il Barone e gli amati alberi che lo accolgono tendono ad assumere lo stesso aspetto. L’artista spagnolo sembra dotare il barone di Rondò della stessa capacità camaleontica con la quale Calvino descrive un altro personaggio della trilogia, il Gurdulù del Cavaliere inesistente. Come lo scudiero di Agilulfo tende a mimetizzarsi con la realtà che lo circonda, così il Cosimo di Olmos si trasforma negli alberi che più ama. Se ne ha prova evidente nella trasposizione in immagini di un altro episodio.

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

Per raffigurare la vigile sorveglianza che consente al Barone di sventare gli incendi del bosco, Olmos si limita a rappresentare un enorme occhio che affiora dalla fitta chioma di un albero.

Una notte, mio fratello dormiva nel suo otre appeso a un frassino, nel bosco, quando lo svegliò un abbaio del bassotto. Aperse gli occhi e c’era luce; veniva dal basso, c’era fuoco proprio ai piedi dell’albero e le fiamme già lambivano il tronco. Un incendio nel bosco! Chi l’aveva appiccato? [...] Sul momento Cosimo non pensò al pericolo che minacciava lui così dappresso: pensò che quello sterminato regno pieno di vie e rifugi solo suoi poteva essere distrutto, e questo era tutto il suo terrore. (BR, p. 656)

La minaccia rappresentata dagli incendi offre l’occasione a Cosimo per iniziare a prendersi cura dello «sterminato regno» verde nel quale ha deciso di vivere e che, quasi a lui soltanto, offre «vie e rifugi». Il fuoco costituisce dunque letteralmente l’innesco per una dedizione e un amore che occupano tutta l’esistenza del Barone, il quale si sente totalmente indistinto, indistinguibile, dalle piante su cui vive, come il grande occhio che nella rappresentazione di Olmos affiora tra le chiome degli alberi. Consapevolmente o no, l’artista spagnolo dà concretezza a un’immagine che Belpoliti aveva proposto quale emblema dell’intera scrittura calviniana e della dedizione allo sguardo rinvenibile nelle pagine dell’autore ligure: «un occhio appeso a un ramo e circondato da una cornice».[22] Il mondo del bosco è la cornice attraverso cui Cosimo ha scelto di osservare la realtà dalla ‘giusta distanza’; la lontananza dalla terra però fa sì che tra il soggetto che guarda e il filtro, la finestra dalla quale si sporge per guardare, i confini si annullino, si sfrangino, elidendo così ogni distanza e distinzione. Questa completa unione tra il Barone e il suo regno arboreo, esempio perfetto di amore fusionale, caratterizza ugualmente la conclusione del Cosimo di Olmos. Il protagonista, malato e prossimo alla morte, assume le fattezze dell’albero che lo ospita e sul quale riceve la visita del medico che certifica la fine ormai imminente.[23]

©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016©Roger Olmos, Cosimo, logosedizioni, 2016

Avvenuta la trasformazione conclusiva, il protagonista del racconto per immagini è pronto per l’assunzione in cielo: i piedi si confondono ancora con l’albero dal quale spicca il volo e la testa è coronata di ramoscelli, piccolo souvenir del mondo dal quale sta per prendere le distanze.

Un mattino invece non lo vedemmo né in letto né in poltrona, alzammo lo sguardo, intimoriti: era salito in cima all’albero e se ne stava a cavalcioni d’un ramo altissimo, con indosso solo una camicia. [...] Cosimo stava lassù e non si muoveva. [...] In quella in cielo apparve una mongolfiera. [...] L’ancora volava argentea nel cielo appesa a una lunga fune, e seguendo obliqua la corsa del pallone ora passava sopra la piazza, ed era pressappoco all’altezza della cima del noce, tanto che temevamo colpisse Cosimo. [...] L’agonizzante Cosimo, nel momento in cui la fune dell’ancora gli passò vicino, spiccò un balzo di quelli che gli erano consueti nella sua gioventù, s’aggrappò alla corda, coi piedi sull’ancora e il corpo raggomitolato, e così lo vedemmo volar via, trascinato dal vento, frenando appena la corsa del pallone, e sparire verso il mare... [...]. Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: «Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo». (BR, pp. 774-776)

Si compie così l’ultimo atto e nell’epigrafe che ricorda l’esistenza del Barone si fissano i poli opposti della sua esistenza vissuta tra gli alberi, come prova di un amore per la terra che si compie soltanto con un salto spiccato verso il cielo. Passioni opposte e contrastanti che si incidono sul corpo come sulla pietra della stele commemorativa.

Allo stesso modo nel Cosimo di Olmos i corpi divengono la pagina su cui si fissano i desideri dei protagonisti, sottoposti alla metamorfosi, si fanno narrazione, raccontano e trasformano in icone – come nei miti ovidiani – la storia e le passioni travolgenti e totalizzanti dei personaggi creati dalla metamorfica penna di Calvino.

 


1 Sulla disposizione calviniana a riunire le proprie opere in cicli unitari si rimanda a F. Bertoni, ‘Italo Calvino e il mondo in cornice’, in F. Bertoni, M. Versari (a cura di), La cornice: strutture e funzioni nel testo letterario, Bologna, CLUEB, 2006, pp. 157-172.

2 «All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo – ma i due processi sono spesso paralleli e indipendenti – mi convinco che essa racchiude qualche significato. Quando comincio a scrivere però, tutto ciò è nella mia mente ancora in uno stato lacunoso, appena accennato. È solo scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto. Dunque da un po’ di tempo pensavo a un uomo tagliato in due per lungo, e che ognuna delle due parti andava per conto suo. [...]» (I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), in Id., Romanzi e Racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, prefazione di J. Starobinski, Milano, Mondadori (I Meridiani), I, p. 1210). In assenza di diverse indicazioni, tutti i corsivi contenuti nelle citazioni dagli scritti di Calvino sono da intendere come miei. Sull’origine iconica della scrittura calviniana, benché ormai in molti abbiano affrontato l’argomento, rimangono imprescindibili le considerazioni di M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996; a cui affiancare almeno F. Ricci, Painting with Words, Writing with Pictures. Word and Image in the Work of Italo Calvino, Toronto-Buffalo-New York, University of Toronto Press, 2001. Più nello specifico sulla visività nella trilogia cfr. S. Zangrandi, ‘Segni visivi e percorsi linguistici in I nostri antenati di Italo Calvino’, Sinestesie, VII, 2009 <http://www.rivistasinestesie.it/tuttaletteratura/zangrandi_calvino.pdf> [accessed 15 January 2020].

3 I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), pp. 1213-1214.

4 Ivi, p. 1216.

5 «Ho voluto farne una trilogia d’esperienza sul come realizzarsi esseri umani: nel Cavaliere inesistente la conquista dell’essere, nel Visconte dimezzato l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà a un’autodeterminazione individuale: tre gradi di approccio alla libertà. [...] Vorrei che potessero essere guardate come un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me stesso» (ivi, p. 1219).

6 Sulla funzione della metamorfosi nella trilogia e in particolare nel Cavaliere si veda G. Rizzarelli, ‘«Il corpo della gente che aveva un corpo». Metamorfosi corporee nel Cavaliere inesistente di Italo Calvino’, Arabeschi, X, 2017, pp. 68-81. Ha parlato di ‘contaminazione’, con riferimento a Bosch e Arcimboldo, B. Falcetto, ‘Avventure della visione. Spazio ed effetti di lettura nel Barone’, in «E io non scenderò più!». Il barone rampante di Italo Calvino, 1767-2016, numero speciale del Bollettino di italianistica, n.s., XVI, 2019, 1, pp. 40-51: 45.

7 In merito al tema delle limitazioni o mutilazioni del corpo e alla sua presenza nella letteratura fantastica tra Otto e Novecento rimando a V. Roda, ‘Riflessioni su un tema del fantastico: la crisi dell’unità del corpo’, in Id., Studi sul fantastico, Bologna, Clueb, 2009, pp. 107-128. Sui legami tra Calvino e Ovidio, a partire dal saggio I. Calvino, Ovidio e la contiguità universale, in Id., Saggi (1945-1985), a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1995, t. I, pp. 904-916, cfr. almeno M. Schmitz-Emans, ‘Metamorphosen der Metamorphosen: Italo Calvino und sein Vorfahr Ovid. Calvinos Poetik und Ovids “Metamorphosen”’, Poetica, XXVII, 1995, pp. 433-469, A. De Vivo, ‘Calvino e Ovidio (note di lettura)’, in Ovidio e la cultura europea, a cura di S. Cardone, A. Colangelo, V. Giammarco, Sulmona, Liceo classico “Ovidio”, 2008, pp. 53-74; F. Ursini, ‘Le Metamorfosi di Ovidio come poema dell’«indistinzione», dell’«illusione» e dell’«incertezza»’, Montesquieu.it, X, 2018, pp. 1-11 <https://montesquieu.unibo.it/article/view/7670/7389> [accessed 15 January 2020].

8 Sulla rilevanza della corporeità all’interno dell’ultimo romanzo della trilogia ha già posto l’accento J. Obert, ‘L’écriture du corps dessiné dans “Il cavaliere inesistente”’, Italies, XVI, 2012, pp. 49-76.

9 Cfr. Y. Nascimbene, ‘Italo Calvino. La vérité de l’image’, Italies, XVI, 2012, pp. 429-438 <https://journals.openedition.org/italies/4475> [accessed 15 January 2020]. L’artista ha illustrato non soltanto il Barone rampante, ma anche Palomare Le città invisibili.

10 Sul quale rimando alle esaustive analisi fornite da P. P. Argiolas, ‘Animazione di un’armatura. Il cavaliere inesistente di Italo Calvino e Pino Zac’, Between, II, 2012, 4 <http://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/818> e da A. Boulé-Basuyau, ‘L’image aupied de la lettre? Il cavaliere inesistente de Pino Zac’, Italies, XVI, 2012, pp. 493-515 <https://italies.revues.org/4545> [accessed 15 January 2020].

11 Olmos (1975) è un artista spagnolo che si è avvicinato al mondo dell’illustrazione fin da bambino. Al termine degli studi, dopo un apprendistato all’Institut Dexeus come illustratore scientifico, ha frequentato la scuola di arti e mestieri Llotja Avinyò, per poi dedicarsi all’illustrazione di libri per ragazzi. Nel 1999 è stato selezionato alla Bologna Children’s Book Fair, e lì ha conosciuto il suo primo editore. Da allora ha pubblicato oltre una cinquantina di titoli con varie case editrici spagnole e internazionali.

12 Sulle copertine delle traduzioni del Barone rampante si veda il recente contributo di G. Baule, ‘In copertina, il barone e l’elce. Note di traduzione visiva’, in «E io non scenderò più!», pp. 205-218 (l’articolo, però, non tiene conto della trasposizione iconica di Olmos).

13 Condivide l’impressione che si tratti di una citazione ariostesca M. McLaughlin, ‘Il posto del Barone rampante nell’opera narrativa di Calvino’, in «E io non scenderò più!», pp. 168-182: 176-77.

14 Tutte le citazioni sono tratte da I. Calvino, ‘Il barone rampante’, in Id., Romanzi e racconti, I, pp. 549-777 = BR.

15 Cfr. BR, p. 551: «L’agitazione dei tempi a molti comunica un bisogno d’agitarsi anche loro, ma tutto all’incontrario, fuori strada: così nostro padre, con quello che bolliva allora in pentola, vantava pretese al titolo di Duca d’Ombrosa, e non pensava ad altro che a genealogie e successioni e rivalità e alleanze con i potentati vicini e lontani».

16 L’autore ligure dichiara apertamente nell’edizione scolastica del Barone la natura duplice di molti dei personaggi del romanzo e in particolar modo della madre di Cosimo (cfr. I. Calvino, Il Barone rampante, prefazione e note di Tonio Cavilla; Torino, Einaudi, 1965, p. 31). Sulla psicologia estremamente stilizzata dei personaggi del romanzo ha posto l’accento C. Milanini, ‘Le passioni secondo Biagio’, in «E io non scenderò più!», pp. 107-113.

17 Acute osservazioni sul significato degli avvistamenti materni di Cosimo sono contenute in F. Serra, ‘Per sempre lassù’, in «E io non scenderò più!», pp. 32-39: 36-37.

18 Cfr. BR, pp. 630-631: «Ma c’era un segno che ricorreva sempre in quei paraggi: delle api che volavano. Cosimo finì per convincersi che la presenza del Cavaliere era collegata con le api e che per rintracciarlo bisognava seguirne il volo. [...] Là sotto erano le arnie, una o alcune, in fila su una tavola, e intento ad esse, in mezzo al brulichio d’api, c’era il Cavaliere. Era, infatti, questa dell’apicoltura, una delle attività segrete del nostro zio naturale; segreta fino a un certo punto, perché egli stesso portava a tavola ogni tanto un favo stillante miele appena tolto dall’arnia».

19 Sulla figura del lettore e della lettrice in Calvino cfr. I. Piazza, I personaggi lettori nell’opera di Italo Calvino, Milano, Unicopli, 2009; e più nello specifico per la lettura interrotta di Gian dei Brughi cfr. L. Carpanè, ‘Capre, anatre, ragni: come ti disturbo il lettore. Calvino e l’umorismo ʻlibrarioʼ nel “Visconte dimezzato” e nel “Barone rampante”’, Studi novecenteschi, XXXVIII, 2011, 82, pp. 375-391. Sulla ‘biblioteca’ calviniana si veda invece A. Cadioli, ‘La biblioteca del mondo narrato da Italo Calvino’, in A. Dolfi (a cura di), Biblioteche reali, biblioteche immaginarie: tracce di libri, luoghi e letture, Firenze, Firenze University Press, 2015, pp. 429-442; sulla biblioteca costruita sui rami degli alberi da Cosimo si vedano in particolare le pp. 434-37.

20 Sulla mise en abyme rappresentata dal romanzo di Fielding ha posto l’accento ancora A. Cadioli, ‘La biblioteca del mondo narrato da Italo Calvino’, pp. 435-436. Ha suggerito una possibile dipendenza del nome del personaggio calviniano da quello del malvivente inglese M. McLaughlin, ‘Il posto del Barone rampante nell’opera narrativa di Calvino’, p. 171.

21 Sulla centralità e il significato degli alberi nelle opere di Calvino rimando a P. Antonello, ‘Le forme dell’albero. Su Italo Calvino’, Nuova corrente, XLVI, 1999, pp. 343-372; e più in generale sulla funzione del paesaggio nel Barone rampante si veda il recente contributo di F. Di Carlo, ‘Giardini e paesaggi di Cosimo’, in «E io non scenderò più!», pp. 140-151.

22Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, pp. 261-262: «Ma c’è un’altra figura ancora che si potrebbe dipingere sullo scudo dello scrittore, altrettanto contraddittoria e problematica: quella di un occhio appeso a un ramo e circondato da una cornice. Questa immagine non proviene da alcun libro di Calvino, bensì dalle pagine di un filosofo che lo scrittore ligure ha letto a lungo e che è stato per lui, almeno a partire dalla fine degli anni Sessanta, un costante punto di riferimento: Ludwig Wittgenstein [...]. La proposta di assumere questo strano emblema come blasone dello scrittore ligure soddisfa una duplice esigenza: quella di rendere omaggio alla sospensione arborea del suo Barone rampante e di ribadire nel contempo che il tema centrale dell’opera di Calvino è proprio il guardare».

23Cfr. BR, pp. 773-774: «Ricordo quando s’ammalò. Ce ne accorgemmo perché porto il suo giaciglio sul grande noce là in mezzo alla piazza. Prima, i luoghi dove dormiva li aveva sempre tenuti nascosti, col suo istinto selvatico. Ora sentiva bisogno d’essere sempre in vista degli altri. A me si strinse il cuore: avevo sempre pensato che non gli sarebbe piaciuto morire da solo, e quello era già un segno. Gli mandammo un medico, su con una scala; quando scese fece una smorfia ed allargò le braccia».