1. In principio era l’immagine
All’origine della scrittura di Umberto Eco c’è l’immagine. Lo ha rivelato lo stesso autore, in un preciso autocommento sulla preistoria della propria attitudine narrativa:
Di questa produzione giovanile – l’autore fissa l’età del proprio apprendistato da romanziere «tra gli otto e i quindici anni» – è sopravvissuta ai vari traslochi solo un’opera «di genere incerto», dal titolo In nome del “Calendario”, diario del mago Pirimpimpino che «descriveva (e disegnava) l’isola su cui regnava»: nell’archivio dello scrittore è nascosto dunque un quaderno dalle sottili righe orizzontali e dai grandi margini verticali viola in cui «il testo si alternava a disegni e il racconto (che non rispondeva alle regole di alcun genere) sfociava nell’enciclopedia – col senno di poi si vede come le audacie infantili possono determinare le debolezze dell’età adulta».[2] L’autore ammicca al lettore e retrocede agli anni della prima formazione la scoperta della funzione generativa affidata alle immagini. Costruisce così un’ipotesi genetica di lunga durata per la propria scrittura finzionale, che trova conferma nei romanzi.
Dopo aver messo a fuoco l’immagine iniziale, bisogna costruire attorno ad essa la storia, ‘ammobiliare’ un mondo: e così «il resto è nato a poco a poco, per dar senso a quell’immagine», insieme con la decisione di ambientare la narrazione nell’amato Medioevo, «leggendo, rivedendo delle immagini, riaprendo armadi dove si erano accumulate da venticinque anni le mie schede medievali, stese per tutt’altre ragioni».[4]