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All’interno della Diceria dell’untore, l’ekphrasis del Trionfo della Morte rappresenta un nodo cruciale per l’ermeneutica dell’opera Per Bufalino, la visione dell’affresco di Palazzo Sclafani non solo è un motivo germinale del romanzo, ma è soprattutto una mise en abyme della vicenda. Ai margini della scena è dipinta una figura che assiste alla catastrofe, probabile autoritratto del pittore e icastica incarnazione dell’atteggiamento del narratore, che si pone nell’habitus di spettatore-autore della vicenda apocalittica del sanatorio. Porsi come spettatore della morte, assistere alle sue raffigurazioni, è un momento catartico per la catabasi, infatti l’untore osservando la morte dei personaggi del sanatorio, (in particolare Marta e il Gran Magro) compie un’opera di affrancamento. Questo atteggiamento ha un preciso analogon nella visione dell’amazzone dipinta, i cui strali sono in realtà forieri di una catarsi. L’untore delega all’occhio gettato sull’ecatombe altrui, e alla rappresentazione di essa, il desiderio inespresso di sopprimere le controfigure romanzesche in quanto illusioni fittizie, così da riappropriarsi della visione reale, al di là di ogni schema di rappresentazione. Nella dimensione visiva della Diceria, l’untore fa dell’occhio un sicario da indirizzare sui personaggi carcerieri. Il protagonista osserva la morte trionfare nel sanatorio (così come avviene nel dipinto) affinché possa riappropriarsi della vita. 

In the novel Diceria dell’untore the ekphrasis of The Triumph of Dead is an important place for its hermeneutics. The fresco of Palazzo Sclafani was a source of inspiration for the author, and also a mise en abyme of the plot. In the fresco is depicted a figure that stays at the edge of the picture, outside the catastrophe; he’s probably a painter’s self portrait. This is a symbol of the author attitude, that put himself in the condition of spectator and creator at the same time. Being a death spectator, for Bufalino, means pass through the catastrophe without consequences, and achieve a catharsis. Gazing Marta and Gran Magro’s agony is a way of liberation from their slavery. This attitude has a precise equivalent in the observation of the fresco. The protagonist transfers in his eye the strictly forbidden desire to kill all his spitting images, so he can repossess his life. In the visual dimension of Diceria dell’untore, the narrator uses his eye like a hired assassin, to send against other characters. The protagonist observes Death triumphing in the sanatorium and also in the fresco, because of a wish of a real rebirth.

1. Dicerie in affresco

L’interesse della più recente critica letteraria sulla figura e l’opera di Gesualdo Bufalino mostra come la poetica del comisano ami attingere alle arti visive,[1] adoperarle come fonte d’ispirazione e dialogare con esse, infatti i costanti riferimenti alle discipline legate alla percezione visiva (il cinema, la fotografia e la pittura) attraversano puntualmente l’intera produzione dello scrittore e diventano espedienti retorici profondamente compenetrati alla sua narrativa. Inoltre le citazioni implicite o esplicite di opere d’arte all’interno dei romanzi bufaliniani fanno emergere il profilo di un intellettuale moderno dotato di una spiccata sensibilità pittorica e di una folta imagerie figurativa.

Viaggiando fra vista, visione e visibilio,[2] la cifra autoriale barocca e ipertrofica di Bufalino non manca mai di arricchire la pagina di suggestioni sensoriali; in particolare nel ‘liberty funebre’ di Diceria dell’untore (e nell’opera omnia dello scrittore) la componente iconica è ben più che un semplice orpello e si impone come caratteristica dominante di una scrittura avulsa da ogni epigonismo letterario, che affonda le sue radici culturali nell’humus della letteratura decadente, ma che non smette mai di guardare al Postmoderno per il gioco autoreferenziale delle citazioni e della riscrittura. Servendosi della parola evocativa come se fosse lo strumento di un prestigiatore, di un mago Atlante o Prospero, Gesualdo Bufalino si avvale di molti espedienti visivi per ri-creare di fronte al lettore un ‘teatro d’ombre’ nella finzione letteraria.

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La dimensione visiva si impone come elemento dominante nell’economia di un romanzo come Qui pro quo, giallo divertissement dato alle stampe da Bufalino nel 1991 con un corredo di immagini concordato dall’autore insieme ad Elisabetta Sgarbi. Tali inserti iconografici, puntualmente riferiti a precisi luoghi del testo, non si rivelano affatto meri ornamenti illustrativi, ma risultano costantemente messi in relazione con la specifica attenzione alla sfera visuale che condiziona vistosamente le dinamiche narrative e semantiche dell’intero libro.

The visual dimension stands out as the prevailing element in the development of a novel such as Qui pro quo, a detective divertissement published by Bufalino in 1991, with a set of illustrations agreed by the author with Elisabetta Sgarbi. Such ichnographic inserts, accurately referred to specific places in the text, aren’t mere illustrative ornaments, but are always connected with the specific attention to the visual field which influences markedly the narrative and semantic dynamics of the whole book.

Qui pro quo, il giallo divertissement di Bufalino che fa il verso ad Agatha Christie, esce da Bompiani nel 1991, lo stesso anno in cui lo scrittore licenzia in edizione non venale Il Guerrin Meschino. Ad accomunare i due volumi è la presenza di illustrazioni a corredo del testo, ulteriore conferma dell’antico e sempre fitto dialogo intrattenuto dal professore di Comiso con le arti visive.[1]

Nella surreale detective story data alle stampe quell’anno, il ruolo delle immagini, ben al di là dell’intento decorativo e di ricostruzione di un’atmosfera cui esse rispondono nel Guerrin Meschino, si pone come strettamente correlato all’andamento della narrazione, in un sodalizio rimarcato dalle brevi citazioni dal testo che accompagnano, a mo’ di didascalia, quattordici delle quindici opere (con la sola eccezione di quella posta a chiusura del libro), scelte come supporto iconografico del romanzo.[2] Si tratta in realtà di una ristretta selezione rispetto alle numerose ipotesi prese in considerazione da Bufalino e documentate dalle carte preparatorie del volume,[3] testimoni di una originaria intenzione dell’autore ad arricchire ‘visivamente’ il suo Qui pro quo ancora più di quanto poi non dimostri l’esito finale.[4] Attestata dagli scartafacci di appunti è altresì l’idea di incrementare il corredo iconico anche con disegni, ritratti e fotografie di sconosciuti, nonché di associare ad ogni personaggio del libro il volto di un attore, «allo scopo di fornire al lettore qualche supporto visivo».[5]

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