1. Dicerie in affresco
L’interesse della più recente critica letteraria sulla figura e l’opera di Gesualdo Bufalino mostra come la poetica del comisano ami attingere alle arti visive,[1] adoperarle come fonte d’ispirazione e dialogare con esse, infatti i costanti riferimenti alle discipline legate alla percezione visiva (il cinema, la fotografia e la pittura) attraversano puntualmente l’intera produzione dello scrittore e diventano espedienti retorici profondamente compenetrati alla sua narrativa. Inoltre le citazioni implicite o esplicite di opere d’arte all’interno dei romanzi bufaliniani fanno emergere il profilo di un intellettuale moderno dotato di una spiccata sensibilità pittorica e di una folta imagerie figurativa.
Viaggiando fra vista, visione e visibilio,[2] la cifra autoriale barocca e ipertrofica di Bufalino non manca mai di arricchire la pagina di suggestioni sensoriali; in particolare nel ‘liberty funebre’ di Diceria dell’untore (e nell’opera omnia dello scrittore) la componente iconica è ben più che un semplice orpello e si impone come caratteristica dominante di una scrittura avulsa da ogni epigonismo letterario, che affonda le sue radici culturali nell’humus della letteratura decadente, ma che non smette mai di guardare al Postmoderno per il gioco autoreferenziale delle citazioni e della riscrittura. Servendosi della parola evocativa come se fosse lo strumento di un prestigiatore, di un mago Atlante o Prospero, Gesualdo Bufalino si avvale di molti espedienti visivi per ri-creare di fronte al lettore un ‘teatro d’ombre’ nella finzione letteraria.
Questo studio intende indagare i procedimenti ecfrastici di Diceria dell’untore attraverso l’analisi di alcuni loci testuali (in particolare l’ekphrasis mimetica dell’affresco di Palazzo Sclafani, il Trionfo della Morte) allo scopo di approfondire non solo la cultura figurativa dell’autore, già emersa nel dibattito critico contemporaneo, ma soprattutto la relazione tra la visione e l’azione romanzesca. Per Bufalino l’elemento visivo è ben più che una semplice analogia o tratto esornativo-metaforico, ma fa parte di una precisa strategia narrativa, in cui l’occhio posato su un oggetto (o l’interdizione dello sguardo) diventa nodo cruciale per l’ermeneutica del dramma. Lo sguardo intradiegetico che l’untore rivolge alle raffigurazioni della morte fa parte di un processo psicologico di affrancamento, infatti il protagonista facendosi spettatore delle dipiction sinistre e della dipartita degli altri personaggi presenti nel sanatorio, trasforma queste scene in mise en abyme della propria sorte, al fine di operare uno stacco straniante; l’espediente del dipinto permette all’io narrante di sostituire la raffigurazione fittizia dell’apocalisse alla morte reale, immunizzandosi da essa ed esorcizzandola.
Uno dei più emblematici loci testuali del dramma mortuario è l’episodio in cui l’untore e Marta vagando per la città in rovina si imbattono nell’affresco quattrocentesco di Palazzo Sclafani, il Trionfo della Morte, dipinto per mano di un maestro ignoto e rimasto fortunosamente intatto in seguito ai bombardamenti del ’44.[3] Con queste parole l’autore descrive la belle dame sans merci, priva di naso, che scaglia i suoi strali su tutti i presenti:
Fuggimmo, ce ne andammo senza meta, evademmo in tassì dal gomitolo di straducce, scansando, non si sa mai, quel che restava di Palazzo Sclàfani, e l’affresco che parlava di noi, se era sopravvissuto alle bombe, con l’amazzone senza naso, armata di frecce, galoppante in trionfo su un’ecatombe d’illustri e d’oscuri.[4]
Il grande affresco, di eccezionale qualità artistica, è dovuto con ogni probabilità ad una commissione diretta della Casa reale; il dipinto si trovava originariamente sul muro meridionale del cortile di Palazzo Sclafani, edificio trecentesco divenuto verso la metà del XV secolo, dopo il trasferimento della famiglia Sclafani in Spagna, la sede dell’Ospedale Grande e Nuovo della città di Palermo. Nel 1944, a causa dei danni bellici, dopo essere stato diviso in quattro porzioni e staccato dalla sua sede originaria, il dipinto pervenne a Palazzo Abatellis all’apertura della Galleria Nazionale, dove si trova attualmente.
L’iconografia del Trionfo della Morte si inserisce pienamente nella temperie di un’imagerie tardo gotica intrisa di temi macabri e ossessivi legati alla caducità della vita, alla vanità dei beni terreni e al memento mori, che nella loro trasfigurazione iconografica, rivelano una forte impronta transalpina; anche il tratto stilistico fa emergere una cultura figurativa stratificata e crudelmente espressiva, resa unitaria dall’audace stilizzazione grafica e plastica e dall’uso di pennellate corpose, che evidenziano la componente materica del colore. Il soggetto della pittura è concepito come una gigantesca pagina miniata, la cui ricchezza e minuzia di dettagli ricorda la cultura fiamminga e la vividezza dell’arazzo.[5]
I temi grandiosi e apocalittici dell’affresco (il cui collocamento originario previsto dalla committenza lo abbina a luoghi di espiazione e sofferenza, quali ospedali e sanatori), si adattano perfettamente al contesto della Rocca bufaliniana, microcosmo di segregazione ascetica e di mistica attesa della fine.[6]
La suggestione ricevuta da questa drammatica pittura, come ha rivelato lo stesso Bufalino nelle Istruzioni per l’uso, è uno dei motivi germinali che ha contribuito all’ideazione del romanzo, insieme a un verso del poeta arabo Ibn Zafar, ricordato dall’autore per la mescolanza di fulgore e sfacelo che racchiude in sé.
Idea del libro: “L’ardore della tua collera tempesti i loro eserciti / e i loro eroi diventino letame negli orti della Conca d’Oro”, così il poeta arabo Ibn Zafar, in una canzone di guerra. Ebbene, forse il libro è nato al ricordo di questi versi, in cui si mescolava un’immagine di sfacelo a un’immagine di fulgore; forse dal ricordo del Trionfo della morte, ora a Palazzo Abatellis, a Palermo, rimasto salvo miracolosamente sotto le bombe del ’44.[7]
La funzione genetica della pittura, confermata nelle Istruzioni, conferisce all’inserto ecfrastico una potente finalità intertestuale e metanarrativa nel fitto gioco di specchi che intercorre nel rapporto immage-text[8] all’interno del romanzo, soprattutto per gli effetti psicologici e per l’impatto emotivo che la pittura suscita sia negli spettatori intradiegetici che nei lettori extradiegetici. In questo caso, il dipinto palermitano dell’anonimo maestro sembrerebbe incarnare perfettamente il paradigma oraziano dell’ut pictura poësis, in quanto si potrebbe tracciare una perfetta consonanza artistica fra le figure ricche di pathos espressionistico dipinte nell’affresco e quelle del romanzo. Inoltre nelle indicazioni rilasciate circa la gestazione della Diceria, l’autore affianca un elemento figurativo (l’affresco) e un elemento verbale (i versi del poeta) a corroborarsi in una perfetta sinergia di ‘arti sorelle’. In realtà emerge un ‘terreno conteso’ se si analizza l’incipit onirico che fa da ouverture all’itinerario in sanatorio, dove si evince un chiaro primato del segno verbale sul segno iconico:
Cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).[9]
Gli alberi non sono evocati in quanto forma visibile, ma originariamente in quanto simulacra verbali. In questo caso la rappresentazione grafica della parola, che si sostituisce all’immagine delle cose, mostra l’autoreferenzialità del testo: lo scrittore ostenta apertamente il significante degli oggetti sognati facendo percepire l’opera nella sua materialità di tessuto verbale. Eppure l’afflato lirico della prosa bufaliniana è costantemente pervaso da una incessante ricerca dell’enargheia, ed è attraversato da un intento ecfrastico. Infatti, facendosi mago Atlante o Prospero, l’autore intende trasformare la parola in dipiction, così da ricreare con la retorica letteraria e «l’oltranza dei colori» una vividezza di immagini capaci di inverare di fronte al lettore la visione vergine di una nuova realtà, che ne rianimi gli occhi miopi.
E dopotutto il registro alto, lo scialo degli aggettivi, l’oltranza dei colori, mi pareva, e pare, il modo che ci resta per contrastare l’ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze dei sentimenti.[10]
Già in Diceria dell’untore, romanzo d’esordio, si inizia a delineare nell’opera di Bufalino la ‘la mappa visiva’ di un corposo immaginario iconografico, che rispecchia la folta cultura pittorica del comisano; ad esempio viene citato il quadro di Watteau, L’imbarco a Citera in relazione alle saltuarie escursioni amorose dei degenti al di fuori della Rocca. Inoltre la figura del Gran Magro viene paragonata al dipinto neoclassico di Gros, Napoleone fra gli appestati di Giaffa, per descrivere gli atteggiamenti imperiosi del personaggio, oppure l’autore si richiama alle stampe giapponesi del monte Fuji innevato, per rievocare il ricordo oleografico dei paesaggi etnei impressi nelle memorie infantili del protagonista.
In questi casi, la citazione dei quadri costituisce però una semplice analogia, un espediente retorico per arricchire la propria prosa di ulteriori elementi sensoriali e creare effetti barocchi tramite rimandi interdisciplinari; invece nel caso del Trionfo della Morte, il momento ecfrastico assume un valore traspositivo,[11] nel senso che mostra una evidente somiglianza con il setting immaginario dell’intera vicenda, basti pensare che l’apparizione del quadro è incastonata e preceduta da una dettagliata descrizione della città bombardata in cui si muovono i due amanti prima di imbattersi nell’affresco, una città umanizzata e ‘colpita’ dagli strali della Morte. Sembra quasi che la scena dell’amazzone munita di frecce si estenda oltre la cornice del dipinto per abbracciare l’ambientazione intera del romanzo.
2. Riverberi ecfrastici
Sebbene lo stile di Bufalino indulga volentieri alle ridondanze e agli accumuli verbali, l’ekphrasis del Trionfo della Morte si presenta piuttosto sintetica e limitata all’enunciazione degli elementi simbolici basilari della composizione (l’amazzone, le frecce, gli oscuri e gli illustri caduti). In realtà i riverberi ecfrastici di questa pittura si estendono a diversi pendant testuali, a cui sono stati trasferiti i tratti minuziosamente descrittivi, la pletora retorica e la dovizia di particolari che ricordano il grandioso affresco. Uno dei più importanti richiami testuali è la lunga ipotiposi della danza di Marta. Il volteggio della ballerina sembra essere una dinamizzazione del Totentanz che nell’affresco è congelato nel punctum temporis della freccia scoccata dall’amazzone. Campeggiando al centro del palco, nella sua giubba policroma dalle tinte sfavillanti, la scheletrica danzatrice è agli occhi del protagonista un angelo, e per l’appunto un angelo della morte, come quello dell’affresco.
La ballerina si sgrovigliava e guizzava nel cielo con presunzione e ferocia, accompagnando ogni slancio con un mugolo d’incitamento; e la coalizione di ellissi e vortici attraverso cui le sue membra commentavano il dirotto discorso della musica; le vacanze dove subitamente s’aboliva, senza necessità talvolta, quella aerea scrittura; tutto questo faceva un imbroglio, invocazione o beffa che fosse, a cui sentivo, con un refe nero, inestricabilmente cucirsi l’ordito stesso del mio destino.[12]
Nell’estenuante volteggiare della sua danse macabre, la ballerina descrive di volta in volta la siluetta di un quadro animato, smaterializzandosi in un arabesco liberty: diventa linea, scheletro spogliato dalla carne.
La fisicità eterea e disincarnata della bella musa è confermata anche dalle fattezze visive che le attribuisce l’autore. Nelle Istruzioni per l’uso, Bufalino parlando di Marta ricorre ad un ulteriore riferimento pittorico: «Klimtiana, se dovessi visualizzarla». Gustav Klimt era solito dipingere femmes fatales clorotiche e languide, che rimandano a un gusto tipicamente liberty, con cui ben si sposa la prosa del romanzo; ma soprattutto, le eteree figure femminili dell’artista viennese sono interamente sprofondate in mosaici di figure geometriche e tessere auree, che arrivano a coprirne i corpi quasi del tutto, stagliandoli in uno sfondo bidimensionale e astratto. Così è Marta: tempestata di gemme e tasselli multicolori che ne annullano i contorni, disincarnata nel suo corpo macilento, appiattita nella psiche in uno sfondo stilizzato che poco concede al realismo figurativo.
Un’altra dipiction di morte che presenta una visione di Marta ‘scarnificata’ è la descrizione delle lastre radiologiche trafugate nel gabinetto di Vasquez. La fotografia dell’interno del corpo[13] appare agli occhi del protagonista come un’immagine intima dell’oggetto amoroso ‘denudato’, spogliato della pelle, tanto da tramutarsi man mano in un oggetto feticcio il cui possesso rappresenta la persona per sineddoche. Il confronto delle posteme dei due amanti e la sovrapposizione della lastra radiologica di Marta alla propria diventano un surrogato del rapporto amoroso.
Una socia, sì. Perché contro ogni creanza e verità io m’ostinavo a presumere d’avere tacitamente stretto patto con lei, e di possederne caparra nella radiografia trafugata che tenevo sotto il cuscino. […] Al punto che quell’esile celluloide, contro cui s’era premuto con forza il suo petto, piuttosto che continuare a sembrarmi, come all’inizio, la tela filata da una tarantola scura, s’era venuta mutando, non meno che guanto o stivaletto, in una sorta di inaudito feticcio amoroso…[14]
La pellicola radiografica è anche un’epifania della morte, vista attraverso la veggenza artificiale dei raggi X, che fanno da oltre-occhio. L’apparato radiologico è un dispositivo capace di mostrare ‘la visione dell’invisibile’ fornendo l’antivedere dello scheletro polito prima che il tempo espleti la sua funzione erosiva. Per il giovane untore così come avviene per Hans Castorp nello Zauberberg, la lastra permette di osservare un’anteprima del corpo al termine della vita, è «uno sguardo nella propria tomba».[15] Ma all’untore bufaliniano manca quella curiosità scientifica accolta invece dal ‘pupillo della vita’ di Mann: ciò che rimane nella persistenza retinica dell’untore è l’image di Marta come scheletro.
Entrambe le ipotiposi della danza e della radiografia producono nell’osservatore intradiegetico gli stessi effetti suscitati dalla visione dell’affresco: sono episodi narrativi che costituiscono una messa in atto verbale dello sguardo che cerca di relazionarsi con un oggetto e penetrarlo, e in questo caso si tratta di una ricerca di compenetrazione sessualmente connotata.
Un ulteriore richiamo implicito all’iconografia del Trionfo della Morte avviene al di fuori della Rocca, mentre l’untore dialoga con il compagno Sebastiano.
Era la seconda volta, mi resi conto, a distanza di pochi giorni, che una scena o figura, sfiorata per accidente, mi si colorava di presagio e m’intimidiva, costringendomi alla scaramanzia di fuggire; solo che, nell’altro caso, per stornare la cavallerizza, era bastato affidarsi alla docilità dell’autista e a un tassametro vertiginoso.[16]
Dopo che una scena gremita di presagi sinistri si è manifestata di fronte agli occhi dei due personaggi, l’autore decide di denominare con l’appellativo di ‘cavallerizza’ la visione mortifera appena stornata, alludendo chiaramente all’immagine della dama dipinta nell’affresco.
3. L’occhio-sicario e la mise en abyme
Le tinte macabre del Trionfo della Morte rispecchiano pienamente le atmosfere turgide ed espressionistiche del romanzo, vibrando in perfetta sinergia con la danse macabre del testo. L’affresco, oltre ad essere una trasfigurazione iconica dell’elemento verbale, facendo da pendant a quello che Bufalino definì «arazzo mortuario di suoni»,[17] rappresenta soprattutto un’importante mise en abyme dell’intera vicenda.[18]
L’untore e il suo alter ego Marta sono spettatori di una visione che li riguarda in prima persona, «l’affresco parlava di noi» dice il protagonista. Se si osserva la parte in alto a sinistra dell’affresco, si scorge una figura che è presente nella composizione ma parzialmente estranea alla vicenda: è un personaggio che sfugge all’ecatombe, che si rivolge a chi sta al di fuori del dipinto, ed è solo passivamente coinvolto nella scena; probabilmente si tratta di un autoritratto dell’autore stesso.[19] Tale personaggio è un corrispettivo iconico emblematico nel rispecchiare l’attitudine psicologica del protagonista-untore, per cui assistere alla morte altrui (ed esserne in parte artefice dietro le quinte) è un rito apotropaico per sfuggire alla propria.
Lo spettacolo della morte, guardata con la passività di spettatore, è un motivo reiterato nel corso del romanzo. L’untore assiste alla dipartita dei personaggi del sanatorio con lo stesso atteggiamento di chi è spettatore di una pittura grandiosa e tremenda, come quella dell’affresco palermitano. Egli scorge nel dipinto una mise en abyme della propria sorte, ma soprattutto lo osserva per prendere le distanze e operare uno stacco straniante da usare come presidio.[20] La condizione dello spettatore che osserva protetto da un dispositivo (il loggione, la cornice di un quadro, una finestra) è individuata da Bufalino come posa particolarmente felice e rassicurante. Chi è spettatore, infatti, non è chiamato ad agire in prima persona nella canea della vita. Ma nell’opera di Bufalino lo spettatore è anche surrettiziamente artefice della vicenda e si autoritrae nella composizione che sta contemplando.
La metafora del quadro ricorre più volte nella poetica di Bufalino per descrivere l’habitus mentale di colui che è al contempo partecipe ed estraneo alla vicenda, soggetto e oggetto della rappresentazione, come in questo passo di Tommaso e il fotografo cieco:
Sai quei pittori che si dipingono dentro il quadro che dipingono e ne sono ad un tempo dentro e fuori? Ebbene, lo stesso vale per te. Tu non sei uno di noi e lo sei. Vivi da falso romito in questa tua catapecchia extra territoriale. […] Deciditi: nel quadro o fuori? Con noi o contro di noi?[21]
Anche nel romanzo Qui pro quo, ancora una volta, Bufalino si avvale dello stesso espediente retorico del dipinto che rivela il proprio artificio, per sottolineare il gioco metanarrativo: in un passo testuale l’autore del giallo divertissement cita il dipinto di Velàzquez Las Meninas, dove figura un ambiguo autoritratto dell’artefice.[22]
E giù i critici amici a lodarmi dell’eroismo di credere ancora in una lingua vetusta; e a discorrere di mise en abîme e come io giocassi, sull’esempio di quel quadro delle Meninas, fra arte, artifizio e realtà… Taluno citò persino, chissà perché, Karl Popper; un altro tirò in ballo i “frattali”, e io dovetti correre a ridere in pace da sola dentro la toilette…[23]
L’elemento visivo, il motivo dello sguardo intradiegetico posato sulla morte altrui, diventa un perno narrativo centrale all’interno della Diceria dell’untore per delineare un sottile ingranaggio psicologico che lega il Gran Magro, Marta e l’untore, gioco interamente declinato nel segno della vista.
Nel corrispettivo verbale dell’affresco mortuario di Diceria, quando l’amazzone scheletrica scaglia i suoi strali sulla ridda di personaggi che circondano il protagonista, essa viene accolta con fremito più corrivo che atterrito. Le due agonie ‘dipinte’ da Bufalino con maggior dovizia di dettagli e ridondanza di tinte sono quelle dell’archiatra e della ballerina, entrambe figure ipotecanti che legano il protagonista al sanatorio. Queste due agonie sono le uniche di cui il protagonista è testimone oculare e spettatore. Guardare la morte dei due personaggi carcerieri, inscenarla e rappresentarla, significa per l’untore realizzare un surrettizio desiderio di ucciderli; dal momento che tale pulsione è interdetta dalla coscienza, delega al proprio occhio il compito di farsi sicario.
Nell’equilibrio che regola i rapporti fra questi tre personaggi, la figura del Gran Magro ha dei tratti simili a quelli di Coppelius, il protagonista del racconto hoffmaniano Der Sandmann. Con il Mago della sabbia egli ha in comune il fatto di presentarsi nel racconto come incarnazione della figura paterna castrante. Infatti, nell’interpretazione data da Freud alla novella di Hoffmann, il demone sabbiolino, minacciando l’amputazione dei bulbi oculari, altro non è che la personificata trasposizione del complesso di castrazione innescato dal rapporto col padre.[24]
Per irretire Nataniele nella ragna delle sue affatturazioni, Coppelius si serve di un folto banco ottico di illusioni che generano visioni fallaci e travianti per la coscienza; questa prerogativa del perfido mago, all’interno della Diceria dell’untore, è delegata ai teatrini allestiti sadicamente dal medico istrione, che sono appunto visioni fallaci, illusioni della vista. Fra l’altro, una delle prime apparizioni sceniche del dottore lo vede alle prese con un cannocchiale, il dispositivo con cui spia sornionamente gli oggetti circostanti alla Rocca. Il cannocchiale, con cui si insinua nei luoghi, è una protesi dell’occhio e dell’intelletto, ma è anche protesi fallica, con cui penetra simbolicamente ciò che guarda.
Durante le sue ri-creazioni sceniche allestite in sanatorio, la principale visione seducente che il Gran Magro offre agli occhi del giovane protagonista è quella di Marta danzante, ‘sua’ creatura nelle vesti di Silfide, dunque fantasma evanescente. La contemplazione della ballerina si impone come chiodo fisso e morboso nella mente del giovane degente, così come Olimpia nella mente dell’hoffmaniano Nataniele. Inoltre, fra i molti numeri di danza in cui si è esibita la ballerina (Peri, la Silfide, Gisella) vi è anche quello di Coppelia. Nell’omonimo balletto (il cui titolo alternativo è La ragazza dagli occhi di smalto), Coppelia è un automa danzante creato dal padre Coppelius per traviare la mente di un giovane e distoglierlo dagli amori reali. Questi connotati di Marta come bambola contraffatta, miraggio fittizio di un mago sabbiolino, li ritroviamo soprattutto in questo passo testuale, dove la ragazza è associata a una bambola senz’occhi:
Mi venne in mente quel che avevo sentito da un mio attendente reduce d’Africa, di certi fiumi di là che scompaiono all’improvviso nella rena e rinascono dove capita, fiumi senza sorgente, senza foce… Ecco, un uadi era anche lei, Marta, un simulacro di donna, lontana da me quanto una bambola senz’occhi, e tuttavia l’unico essere che mi restasse nel mio disabitato universo.[25]
Marta è dichiaratamente sedotta dalle contraffazioni e finzioni, ed è essa stessa camuffamento ammaliante. L’assenza dell’occhio in lei richiama le orbite vuote di Olimpia nel momento in cui, nella novella di Hoffmann, si rivela scopertamente come automa creato dal mago.
Nataniele rimase impietrito… aveva visto troppo bene che il volto di cera di Olimpia, pallido come la morte, non aveva occhi: al loro posto caverne buie. Era una bambola senza vita.[26]
Per potersi liberare del maleficio e uscire dal labirinto di specchi e miraggi in cui è stato irretito, il narratore-untore deve prima simbolicamente uccidere il padre castratore Coppelius, impersonato dal Gran Magro.[27] Costui infatti lo trattiene alla Rocca sotto il proprio tallone anche quando è già in via di guarigione per perpetrare i suoi giochi perversi di illusionismo. Essere testimone oculare della morte sia del Gran Magro che di Marta è un modo per affrancarsi dal loro ascendente sinistro. Guardare l’agonia è l’attuazione simbolica del desiderio di uccidere sia il padre castratore che la perturbante bambola-automa che è la sua emissaria.
Nella morte di Marta il motivo dello sguardo torna ad imporsi e a infittirsi di significato. Infatti, come nel racconto bufaliniano Il ritorno di Euridice, proprio l’occhiata dolosa di Orfeo, che si volta a guardare l’amata, sarà causa della seconda e definitiva rovina della donna. In Diceria dell’untore Marta-Euridice ha numerosi tratti perfettamente sovrapponibili alla personalità del protagonista, tanto da essere a tutti gli effetti un doppio femminile dell’io narrante. Dunque per l’untore voltarsi a guardarla è come rivolgersi ad uno specchio deformante, cosa che il protagonista del romanzo (così come la deuteragonista) fa costantemente.[28]
L’eroe della Diceria dell’untore è contemporaneamente Orfeo e Narciso,[29] poiché quella che lui contempla, non è una persona amata che è ‘altro da sé’, ma è proprio ‘immagine di sé’, uno dei suoi tanti doppi con cui inscenare un pas de deux. L’Orfeo-Narciso decide dunque di voltarsi dolosamente a guardare Marta, ricacciandola definitivamente nell’Ade, per salvare se stesso e non sprofondare nelle acque nere di questo perturbante riflesso femminile di sé. In questo caso, il protagonista-Orfeo si comporta come un Pigmalione invertito,[30] che invece di accarezzare il desiderio di soffiare la vita all’inerte materia, dissangua la donna viva per farne un simulacro.
Il conflitto fra arte e vita ricorda anche un racconto di Poe, Il ritratto ovale, in cui un pittore per eseguire un perfetto dipinto della propria donna le impone pose estenuanti, che comportano un graduale deperimento della musa vivente man mano che l’opera progredisce, fino al momento in cui, dando l’ultima pennellata, decreta la morte della modella. Il sacrificio di Marta, la visione del «colore portentoso del sangue»[31] durante la sua estrema emottisi, è dunque un elemento indispensabile per imporporare ‘l’affresco verbale’ della Morte trionfante, guardata con la stessa connivenza con cui il narratore osserva l’opera di Palazzo Sclafani.
Il protagonista della Diceria si trova in fondo sempre da solo a fissare la propria effigie davanti allo specchio, ed è l’immagine riflessa di sé che egli proietta nel volto degli altri personaggi:
[…] trascorsi una settimana dopo l’altra, senza imparare quasi né un luogo né una persona, non vedendo altro che una faccia, la stessa, davanti a me: come chi cammina in un corridoio, e ha dietro un lume, e in fondo c’è uno specchio.[32]
Dal momento che ogni personaggio della Rocca altro non è che una controfigura e proiezione dell’io narrante,[33] uccidendo metaforicamente tutte le sue comparse (l’arma del simbolico delitto è proprio lo sguardo fisso alla loro morte), lo scrittore è come se cancellasse quelle schegge dello specchio in cui si guarda, che lo rendono una personalità costantemente sdoppiata, un ectoplasma smarrito nel labirinto di rifrazioni.
Non più da lei [Marta] o dagli altri tutti, mi toccava ora divorziare per sempre. Ma da un’effigie doppia, un trompe-l’oeil di me stesso, un ectoplasma elusivo che avevo imparato ad amare, e che avrei dovuto lasciarmi in pegno dietro le spalle, come il giovinetto evangelico il suo mantello agli sgherri.[34]
Ciò che deve essere soppresso non è tanto la presenza dei personaggi in quanto attanti concreti della storia, bisogna invece estirpare la presenza di queste figure umane in quanto effigi fittizie di sé; la loro ipoteca rende la voce narrante non più persona ma personaggio, trompe-l’oeil di se stesso. Ciò che deve soccombere affinché l’io narrante possa finalmente «uscire dalla cruna dell’individuo»[35] è l’impalcatura della visione in quanto raffigurazione, espediente ottico fittizio, cosicché riemerga l’occhio referenziale. Muore il trompe-l’oeil affinché risorga l’uomo.
Il Trionfo della Morte viene citato una seconda volta nel romanzo, e si trasforma in un importante elemento metapittorico e metanarrativo. L’autore gioca all’interno del testo con lo slittamento del regime finzionale e di quello reale.
“La morte” volli scherzare “non è un signore, ma una dama senza naso, ed è morta, le bombe dei bombardieri inglesi l’hanno sotterrata nel cortile di un vecchio palazzo, di fronte a Villa Bonanno, dove su un muro una mano d’ignoto la dipinse cinque secoli fa.”
Scosse il capo: “Sai bene che non è vero, l’affresco s’è salvato. L’ho letto sul giornale, c’erano le foto. Non lei, è Marta ch’è morta.[36]
Attraverso un funambolico guizzo retorico, l’io narrante trasforma la menzogna della raffigurazione pittorica e della narrazione letteraria in verità, identificando in pieno la morte con la dama scheletrica dell’affresco, per poterla addirittura ‘uccidere’ all’interno dello scacchiere letterario da lui manovrato. In Diceria dell’untore paradossalmente ‘muore’ la morte nel momento in cui viene soppresso il patto mimetico della narrazione con il veni foras, affinché il passaggio nel regno delle ombre lasci il neofita incolume. L’annientamento simbolico della morte però può avvenire solo nell’impalcatura diegetica innalzata dallo scrittore, il solo reame di cui detiene lo scettro incontrastato. Infatti all’interno dell’opera l’autore-untore è il solo arbitro di vita e di morte, tanto da poter decidere di salvare se stesso e far soccombere gli altri personaggi in sua vece, ma ciò è possibile solamente entro i confini della scacchiera romanzesca, di cui regge interamente le fila.
Al di fuori del ludus letterario (si tratta appunto di uno ‘scherzo’ dell’untore) non si può disinnescare l’inquietudine della fine, sotterrando immaginariamente la morte come si fa con una pittura, pertanto tale paura può essere esorcizzata solo dopo essere stata trasferita su altre figure. Sono le controfigure dell’io narrante a dover soccombere vicariamente al suo posto; lo spaventoso affresco dell’apocalisse, invece, rimane intatto nonostante la catastrofe. L’autore lascia dunque che la morte trionfi, come nel dipinto di palazzo Sclafani: il narratore fa sì che l’amazzone scheletrica e incalzante scagli pure i suoi strali sullo stuolo di figure umane, a patto che la si possa osservare con il distacco condiscendente dello spettatore, che è consapevole di assistere a una rappresentazione su un fondale dipinto, di cui è in realtà segretamente artefice.
La metafora del pittore che si autoritrae nella composizione da lui stesso plasmata è emblematica nel delineare l’attitudine psicologica con cui viene estrinsecata l’ekphrasis del Trionfo della Morte, visione stornata con timore dal protagonista ma in realtà segretamente carezzata con atteggiamento compiaciuto, proprio perché l’io narrante detiene la consapevolezza che la cavallerizza irromperà per annientare solo i personaggi del sanatorio (per l’appunto fittizi) e sa che sarà proprio facendosi testimone oculare delle frecce scagliate alle sue controfigure che riuscirà a schermire i colpi sinistri. La ‘Dama nera’ dell’affresco può trionfare nella Diceria a patto che uccida solo le dramatis personae e la si guardi con la connivenza di chi è cosciente degli artifici pittorici e retorici e dirige gli strali da dietro le quinte con il proprio occhio di deus ex machina, così da poter stare sia dentro che fuori la cornice del quadro.
1 I maggiori studi che evidenziano la cultura visuale di Gesualdo Bufalino sono quelli di A. Sciacca sull’influenza del cinema e della fotografia nell’opera di Bufalino e di M.G. Catalano sul background pittorico di Bufalino e l’importanza del colore nella sua narrativa. Cfr. A. Sciacca, Le visioni di Gesualdo. Immagini e tecniche foto-cinematografiche nell’opera di Bufalino, Acireale-Roma, Bonanno, 2015; M.G. Catalano, Il sentimento del colore. Gesualdo Bufalino e le arti figurative, tesi di dottorato, Università degli studi di Catania, Dottorato di ricerca in Filologia moderna, XXII ciclo, a.a. 2008-2009.
2 «Ho pure delle parole per indicare questo: la vista, la visione, il visibilio sono tre parole italiane che significano cose leggermente diverse. La vista è quella che mi consente di vedere la realtà sia pure attraverso gli occhiali, le deformazioni che avvengono in tutto ciò che noi vediamo, perché siamo imperfetti anche come vedenti, […]. La visione introduce invece un elemento fantastico, cioè apporta al materiale colpito dalla vista un’aggiunta creativa che è data da potenze nostre interiori. […] Il visibilio sarebbe invece l’insieme di tante cose meravigliose, fantastiche, poco credibili. È una spinta ulteriore in cui, io credo, consiste il segreto della poesia». Intervista rilasciata a M. Jakob (G. Bufalino, Infedele è la memoria, in Opere/2 [1989-1996], a cura di F. Caputo, Milano, Bompiani, 2007, pp. 1377- 1378).
3 Per maggiori riferimenti all’esperienza pittorica di Bufalino cfr. N. Zago, Bufalino e le arti figurative, in I segni incrociati II. Letteratura italiana del’ 900 e arte figurativa, a cura di M. Ciccuto, vol. II, Viareggio, Baroni, 2002, pp. 359-372.
4 G. Bufalino, Diceria dell’untore, in Opere/1 [1981-1988], a cura di M. Corti e F. Caputo, Milano, Bompiani, 2007, p. 68.
5 Per un’accurata analisi stilistica e storica del dipinto cfr. P. De Vecchi, E. Cerchiari, Arte nel Tempo, v. 2, Milano, Bompiani, 1999, p. 42.
6 A ulteriore riprova dell’importanza dell’affresco nell’immaginario bufaliniamo si noti l’ekphrasis simile contenuta ne Il fiele ibleo: «Non si finirebbe d’indicare mete significative: lo Steri, già sede del Santo Uffizio; la Cripta dei Cappuccini, col suo museo di scheletri e teschi; l’oratorio di Santa Zita, con le fantasmagoriche plastiche del Serpotta. E ancora, nei musei, le collezioni d’arte, le sculture, le pitture (fra tutte quel Trionfo della morte d’ignoto, dove una morte cavallerizza punta le sue frecce fatali su un’umanità condannata, senza distinzione di rango e di età, pietrificando le vittime in una smorfia di supremo stupore». G. Bufalino, Il fiele ibleo (L’altra Palermo), in Opere/2, p. 1013.
7 G. Bufalino, Istruzioni per l’uso, in Opere/1, p. 1299.
8 Sulla definizione image-text in riferimento alla relazione fra verbale e visuale cfr. W.J.T. Mitchell, Picture Theory, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1994.
9 G. Bufalino, Diceria dell’untore, p. 9.
10 G. Bufalino, Istruzioni per l’uso, p. 1300.
11 Riguardo alla tassonomia dell’ekphrasis e alla valenza traspositiva dell’immagine cfr. M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, pp. 144 e ss.
12 G. Bufalino, Diceria dell’untore, pp. 41-42.
13 Per un approfondimento sul motivo della radiografia in Diceria dell’untore cfr. A. Sciacca, Le visioni di Gesualdo, pp. 75 e ss.
14 G. Bufalino, Diceria dell’untore, p. 55.
15 T. Mann, La montagna incantata, trad. it. di E. Pocar, Milano, Corbaccio, 2012, p. 203.
16 G. Bufalino, Diceria dell’untore, p. 74.
17 G. Bufalino, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, con un profilo di G. Amoroso, Taormina, Associazione culturale Agorà, 1989, p. 61.
18 Sul tema della mise en abyme cfr. J. Labarthe-Postel, Littérature et peinture dans le roman moderne: une rhétorique de la vision, Paris, l’Harmattan, 2002.
19 Sull’interpretazione di questo personaggio nell’affresco palermitano cfr. M.G. Catalano, Il sentimento del colore, pp. 57-59.
20 Sul tema dei rituali di catarsi in Diceria dell’untore cfr. R.M. Monastra, ‘La Diceria dell’untore, ovvero il perturbante esorcizzato con rito letterario’, Le forme e la storia, II, 1-2, gennaio agosto 1981, pp. 367-376.
21 G. Bufalino, Tommaso e il fotografo cieco, in Opere/2, p. 487.
22 Per il valore epistemologico di Las Meninas cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, con un saggio critico di G. Gallimard, Milano, Rizzoli, 1999.
23 G. Bufalino, Qui pro quo, in Opere/2, p. 299.
24 Per l’interpretazione in chiave psicoanalitica della novella hoffmanniana Der Sandmann cfr. S. Freud, Il perturbante, a cura di C.L. Musatti, Roma, Edizioni Theoria, 1993.
25 G. Bufalino, Diceria dell’untore, p. 67.
26 E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia e altri racconti, trad. it. di G. Fraccari, Milano, Mondadori, 1987, p. 54.
27 «Il Magro: un mediocre mago d’Atlante, un passabile Mefistofele. Però anche un cerusico e ciarlatano hoffmanniano, con le palandrane e la logorrea che la parte comporta». G. Bufalino, Istruzioni per l’uso, p. 1342.
28 Sul tema del doppio e dello specchio in relazione ai protagonisti bufaliniani cfr. M. Paino, La stanza degli specchi. ‘Esercizi di lettura’ sui romanzi di Bufalino, Acireale-Roma, Bonanno, 2015, pp. 15 e ss.
29 Sull’importanza degli archetipi mitici nell’opera di Bufalino cfr. A. Cinquegrani, Un personaggio chiamato Orfeo, Narciso, Edipo, in N. Zago, G. Traina (a cura di), Il miglior fabbro. Bufalino fra tradizione e sperimentazione, Leonforte, Euno Edizioni, 2014, p. 45 e ss.
30 Riguardo al conflitto fra opera d’arte e musa vivente cfr. V.I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, trad. it. di B. Sfora, a cura di A. Pino, Milano, il Saggiatore, 2006.
31 G. Bufalino, Diceria dell’untore, p. 128.
32 Ivi, p. 12.
33 Per un approfondimento critico sulla psicologia dei personaggi di Diceria dell’untore cfr. G. Traina, Un palcoscenico di voci soliste? Il gioco dei personaggi in Diceria dell’untore, in Id., «La felicità esiste, ne ho sentito parlare». Gesualdo Bufalino narratore, Cuneo, Nerosubianco, 2012.
34 G. Bufalino, Diceria dell’untore, p. 139.
35 Ivi, p. 142.
36 Ivi, p. 93.