1. Dicerie in affresco
L’interesse della più recente critica letteraria sulla figura e l’opera di Gesualdo Bufalino mostra come la poetica del comisano ami attingere alle arti visive,[1] adoperarle come fonte d’ispirazione e dialogare con esse, infatti i costanti riferimenti alle discipline legate alla percezione visiva (il cinema, la fotografia e la pittura) attraversano puntualmente l’intera produzione dello scrittore e diventano espedienti retorici profondamente compenetrati alla sua narrativa. Inoltre le citazioni implicite o esplicite di opere d’arte all’interno dei romanzi bufaliniani fanno emergere il profilo di un intellettuale moderno dotato di una spiccata sensibilità pittorica e di una folta imagerie figurativa.
Viaggiando fra vista, visione e visibilio,[2] la cifra autoriale barocca e ipertrofica di Bufalino non manca mai di arricchire la pagina di suggestioni sensoriali; in particolare nel ‘liberty funebre’ di Diceria dell’untore (e nell’opera omnia dello scrittore) la componente iconica è ben più che un semplice orpello e si impone come caratteristica dominante di una scrittura avulsa da ogni epigonismo letterario, che affonda le sue radici culturali nell’humus della letteratura decadente, ma che non smette mai di guardare al Postmoderno per il gioco autoreferenziale delle citazioni e della riscrittura. Servendosi della parola evocativa come se fosse lo strumento di un prestigiatore, di un mago Atlante o Prospero, Gesualdo Bufalino si avvale di molti espedienti visivi per ri-creare di fronte al lettore un ‘teatro d’ombre’ nella finzione letteraria.